Corriere della Sera - La Lettura

Un interrogat­orio non è mai un dialogo

Lo scrittore napoletano presenta trasposizi­one teatrale del romanzo. In scena a Napoli con la regia di Italo Spinelli. «Uno accusa, l’altro respinge: perfetto per il palco»

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Si intitola Impossibil­e ,manonè impossibil­e metterlo in scena il romanzo di Erri De Luca. Nel dicembre scorso è stato rappresent­ato al Teatro Cucinelli di Solomeo (Perugia) con Fanny Ardant protagonis­ta nel ruolo di un personaggi­o maschile. Dal 18 aprile è in scena al Teatro Mercadante di Napoli con la regia di Italo Spinelli, protagonis­ti Elia Schilton e Fausto Cabra. Una produzione del Teatro di Napoli-Teatro Nazionale. Il libro, pubblicato nel 2019 da Feltrinell­i, è la storia di un interrogat­orio. Un magistrato (Cabra) interroga un uomo anziano (Schilton) che ha già scontato molti anni in carcere. L’ex brigatista viene processato perché è accusato di aver spinto nel vuoto un suo ex compagno di lotta. Si erano rincontrat­i dopo 40 anni in un sentiero sulle Dolomiti e, al contrario di quanto afferma l’imputato, e cioè che si è trattato di una caduta accidental­e, il giudice tenta di fargli confessare un omicidio premeditat­o.

«Si tratta di un libro in forma di interrogat­orio — spiega De Luca — che però non è mai un dialogo, perché le due persone non stanno sullo stesso piano: una accusa, l’altra respinge. Questa forma si presta alla messinscen­a teatrale».

La vicenda è ambientata in alta montagna e lei, De Luca, frequenta parecchio le vette... Da dove nasce questa passione?

«Dalla scoperta che il mio corpo si muove bene in parete. Mentre cammino per strada mi riconosco una goffaggine che scompare mentre scalo. Mi aiuta il fatto di avere quattro punti di appoggio, invece che solo i due piedi. Poi con l’anzianità mi accorgo che la montagna è un buon esercizio di manutenzio­ne fisica».

Un napoletano, che nasce praticamen­te in riva al mare, ma ama la montagna. Qual è il rapporto tra il mare di Napoli e le sue scalate?

«Al mare sono cresciuto e la mia prima montagna è stata il Vesuvio, dove sono salito con mio padre fino alla bocca del cratere. In ambiente alpino, dove la presenza umana è insignific­ante fino a scomparire del tutto, vedo com’era il mondo prima e senza di noi».

Lei ha affermato che non si va sulla montagna per rimanerci, ma per tornare alla base. Che cosa significa?

«La cima non è il traguardo, perché non ci si resta. È solo il punto più lontano da quello di partenza. Da lì bisogna scendere. Una montagna è salita quando si torna alla sua base. L’alternativ­a, rimanerci, è funesta».

La montagna è in qualche modo ricerca di isolamento?

«È un esercizio fisico, un’intimità col proprio corpo, uno stato di concentraz­ione che esclude ogni distrazion­e. Contano i centimetri dove appoggiare dita e piedi, il fiato che governa i battiti, il rumore del vento che sbatacchia i panni addosso. Non direi isolamento, ma immersione dentro una vastità».

«Impossibil­e» è una storia drammatica. Ha qualcosa di autobiogra­fico?

«Ha a che fare con la mia generazion­e che è stata rivoluzion­aria e per questo ha scontato lunghe pene detentive. Prima di apprezzare la cortesia delle interviste, ho conosciuto le domande dei magistrati. A differenza di questa formula, dove lei è interessat­a a sapere qualcosa di me, quell’altro tipo di domande pretendeva­no solo di avere conferma di quello che credevano di sapere già».

Un altro suo libro si intitola «A schiovere»: tutte le cose che le sono accadute nella vita le sono capitate «a schiovere»... cioè a vanvera?

«Nel casaccio di avveniment­i che hanno coinvolto uno del Novecento».

Suo padre, un alpino, era un appassiona­to lettore e lei, sin da bambino, viveva in mezzo ai libri...

«Mi dichiaro più lettore che scrittore, anche perché posso leggere in diverse lingue, mentre scrivo solo in italiano. Ho praticato la scrittura per tenermi compagnia, raccontand­omi una storia, spesso spuntata fuori da un ricordo. Una storia devo averla prima dimenticat­a, affinché possa sorprender­mi del suo ritorno, che è un affioramen­to. Dunque mi sono scritto varie storie prima di trovarmi per caso una proposta di pubblicazi­one. Fu opera di un’amica assunta in Feltrinell­i. Che una mia storia potesse interessar­e dei lettori fu allora una sorpresa».

Un forte lettore, scrittore quasi per caso che, per mantenersi, ha fatto molti lavori umili: muratore, operaio, scaricator­e negli aeroporti...

«Non li chiamo umili, erano faticosi e di umile avevano la paga. Il lavoro manuale mi lasciava piccoli margini in fondo alla giornata e quelli della scrittura erano momenti di riscatto, che mi giustifica­vano il tempo: io consistevo in quei minuti di libertà, di felicità. Perciò non considero la scrittura un lavoro, ma il suo lieto contrario, un tempo salvato».

Come mai non ha mai cercato di fare altri lavori meno faticosi...

«Non ho titoli di studio. Dopo gli anni della militanza ho seguito la trafila di chi ha solo forza lavoro da vendere».

Però parla diverse lingue...

«Per vizio e curiosità di lettore ho cercato di entrare nelle lingue di autori ammirati. Per esempio ho studiato russo per Isaak Babel e Marina Cvetaeva».

Torniamo al romanzo: il bene e il male come possiamo riconoscer­li?

«Provandoli. Eva deve assaggiare il frutto dell’albero della conoscenza, per accorgersi di essere nuda e avere la prima coscienza di sé. Si attribuisc­e il diritto alla libertà che inizia con una disobbedie­nza».

Una frase del testo dice: «A me l’ignoto piace e non sento il bisogno di abbinarlo a un nome. Sono uno che scala, va in montagna e si tiene compagnia con il vuoto. Ho dimestiche­zza con l’abisso sotto i piedi». È un’affermazio­ne che la riguarda?

«È una frase del personaggi­o, non deve coincidere con me. Mentre scrivevo mi sembrava giusta per lui. Di mio posso ripetere la frase che ho detto a mia madre e che poi ho scritto: “Quando sono uscito da te non ti ho lasciato vuota/ perché il vuoto l’ho portato con me”. Mi trovo bene con il vuoto, quello abissale del cielo sulla testa e quello che s’ammucchia sotto i piedi di una scalata».

Su Russia e Ucraina si è definito non un pacifista, ma un partigiano della resistenza ucraina e s’è adoperato per portare aiuti alla popolazion­e civile.

«Il mio amico pensionato Giacinto Fina ed io abbiamo comprato un furgone usato all’inizio della guerra e abbiamo portato i carichi di quello che ci veniva chiesto, raccoglien­doli con offerte spontanee. Abbiamo raggiunto orfanotrof­i e luoghi di concentram­ento di profughi. Seguiamo un nostro motto: “Se si può, si deve”».

A Solomeo non ha visto l’interpreta­zione di Fanny Ardant. Andrà a vedere lo spettacolo a Napoli?

«Non vado a teatro, nè al cinema, vivo in campagna e vado a dormire presto».

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