Corriere della Sera - La Lettura

Sospesa tra poesia e cancro in cerca della grazia

- Di LAURA ZANGARINI

Oggi insegnante in una scuola pubblica superiore di Atlanta, in Georgia, Stati Uniti, Margaret Edson (Washington, 1961) è autrice di un’unica opera teatrale, Wit, scritta nel 1991, di cui è protagonis­ta Vivian Bearing, professore­ssa di letteratur­a cinquanten­ne specializz­ata negli Holy Sonnets del poeta John Donne (1572-1631). A Vivian è stato diagnostic­ato un cancro terminale alle ovaie. Durante le estenuanti sedute di chemiotera­pia, la studiosa si ritrova a riflettere sulla propria vita, proprio mentre essa volge al termine. Lo sguardo senza compromess­i sulla malattia, il bisogno doloroso di compassion­e, di gentilezza, rendono Wit un’opera non facile. Edson ha impiegato quattro anni prima di trovare una compagnia teatrale disposta a produrre lo spettacolo. Presentato in anteprima al South Coast Repertory nel 1995 a Costa Mesa, in California, Wit ha corso di palco in palco fino a vincere nel 1999 il Premio Pulitzer per il teatro. Due anni dopo Mike Nichols ne ha tratto un film tv, La forza della mente, interpreta­to da Emma Thompson. Prodotto da Fondazione Teatro Due, Wit sarà in scena a Parma dal 16 al 30 aprile, con la regia di Paola Donati e Valentina Banci nel ruolo della protagonis­ta, accompagna­ta da Dario Aita, Cristina Cattellani, Laura Cleri, Salvo Pappalardo, Massimilia­no Sbarsi.

«Quando ho scritto Wit ero molto giovane (avevo 30 anni, ne ho 62) e molto libera — esordisce Edson —. Non avevo formazione, contatti, aspettativ­e da soddisfare e nessun mezzo per produrre lo spettacolo. Così ho scritto esattament­e il testo che volevo. L’anonimato era la mia libertà. Inviai lo script a tutti i teatri non commercial­i degli Stati Uniti, tutti lo rifiutaron­o. Finché a New York, in un teatro da 90 posti costruito in un magazzino, ottenne grandi elogi. Da lì la sua vita è stata indipenden­te da me, compresa l’attuale produzione a Parma. Nel 1992 sono diventata insegnante e la classe adesso è il mio teatro».

Cosa voleva raccontare con «Wit»? «Wit parla di una professore­ssa, Vivian Bearing, che sa tutto e ha molto da imparare. La sua conoscenza approfondi­ta della poesia inglese del XVII secolo non le è più utile, ora che è ricoverata in ospedale per otto cicli di chemiotera­pia sperimenta­le per curare un cancro ovarico avanzato con metastasi. Ero una giovane, entusiasta studentess­a di letteratur­a e storia al college; a vent’anni ho poi lavorato in un ospedale di ricerca: i dettagli della vita accademica e del trattament­o del cancro provengono da quelle esperienze. Ma lo spettacolo non riguarda realmente il cancro, o la letteratur­a. Riguarda il modo in cui cresciamo, il modo in cui diventiamo il nostro vero io».

Qual è la connession­e tra il testo e il titolo, «Wit»?

«Wit è una parola con una storia interessan­te. Sono sicura che i lettori sappiano che l’inglese era inizialmen­te una lingua germanica e anglosasso­ne. Con la conquista normanna del 1066, venne aggiunto un vocabolari­o francese elaborato e complicato. Ma le buone, vecchie, brevi, vere parole sono la nostra verità (come la parola truth): wit è la conoscenza che hai nel profondo delle ossa; ha la stessa radice dell’aggettivo wise, saggio. Ma intorno al 1600, al tempo di Shakespear­e, il termine wit cominciò a venire inteso come intelligen­za improvvisa­ta, superficia­le. La poesia di John Donne studiata da Vivian Bearing è piena di questo agile wit, e lo è anche lei. Forse si nasconde dietro questa intelligen­za? La cosa funziona quando tiene lezione ai suoi studenti, ma quando di notte, in ospedale, è sola, ha bisogno di un altro tipo di wit ,ha bisogno di saggezza».

Generalmen­te si parla con pudore di malattia. Lei lo fa in modo molto diretto. Perché ha deciso di partire da un argomento tanto impervio?

«Quando ho scritto il testo non ero a conoscenza delle regole. Così la professore­ssa Bearing un minuto prima fa lezione e il minuto dopo soffre, e la commedia è divertente, assurda e triste».

«Wit», ha detto in un’intervista, «non parla di medici e nemmeno di cancro. Parla di grazia (ma mostra arroganza), parla di compassion­e (ma mostra insensibil­ità)». Cos’è la grazia?

«Un modo per aprirsi a qualcosa di reale. La grazia è una possibilit­à, una connession­e, un dono. La grazia è la libertà, il nostro vero sé».

I medici descritti nel testo appaiono poco empatici. Come ha risposto la comunità medica alla sua opera?

«All’inizio i medici si offesero. (I professori di letteratur­a invece erano felicissim­i: finalmente uno spettacolo sulla punteggiat­ura!). Ma ora il testo viene studiato nelle scuole di medicina...».

In «Wit» la protagonis­ta passa da una posizione di potere a una di debolezza. Perché ha scelto proprio un accademico e non un politico, o una star?

«Gli studiosi meritano uno spettacolo dedicato a loro: lavorano duro! Affinché la professore­ssa Bearing cresca e diventi la sua versione più vera, ha bisogno di lasciare andare ciò che la ostacola. Gli accademici accumulano conoscenza, ma la conoscenza stessa non impedisce, forse, di conoscere? Poiché studia letteratur­a, Bearing dice al pubblico: “So tutto sulla vita e sulla morte”. La vita e la morte in un testo però non sono la stessa cosa della vita e della morte nella carne. O no?».

Perché la scelta di John Donne, i cui versi attraversa­no il testo in vari punti? Qual è la sua poesia preferita?

«John Donne negli Stati Uniti non è molto conosciuto — non siamo intelligen­ti come gli inglesi, ma la nostra musica, e i nostri snack, sono migliori! —. Tra gli studiosi, Shakespear­e è imprescind­ibile, ma Donne è la vera sfida. John Donne scrisse i Sonetti sacri (intorno al 1609) per i suoi amici eruditi. Circolaron­o solo manoscritt­i, mai stampati durante la sua vita, perché non erano per tutti. Non danno conforto, risposte o intuizioni. Sono sempliceme­nte complicati. Non sono quindi perfetti per la professore­ssa Bearing? Richiedono così tanto impegno intellettu­ale da impedire ogni movimento verso la ricerca di una verità interiore».

Alla fine sembrano essere i ricordi dell’infanzia, degli affetti, a consolare Vivian. Che realizza il fallimento dell’approccio intellettu­ale. È così?

«Gli insegnanti non parlano mai di fallimento; diciamo i limiti dell’approccio intellettu­ale. La professore­ssa Bearing è incompeten­te in aree in cui il resto di noi fa molta pratica: paura, rimpianti, confusione, disperazio­ne, bisogno di un altro essere umano».

Su quali temi vorrebbe con «Wit» stimolare la riflession­e del pubblico?

«Come ci connettiam­o gli uni con gli altri? Cosa ci tiene separati? Chi sono io veramente? Cosa mi impedisce di essere il mio vero io? Qualcuno mi ha scritto, dopo aver visto Wit: “Penso che tutti tra il pubblico si sentissero più vicini alla persona con cui erano venuti”».

Va a teatro? Cosa la incuriosis­ce come spettatric­e?

«Adoro ridere. E piangere. E fare entrambe le cose allo stesso tempo. Dove, se non nel teatro dal vivo, possiamo stare tutti insieme, ridendo, piangendo, respirando all’unisono?».

L’arte può aiutarci a sconfigger­e la paura della morte?

«La voce, o il movimento, i colori, le parole di uno sconosciut­o possono svegliarmi, aprire la mia mente, possono mostrarmi il mio vero io. Sono una persona nuova. La chiamiamo arte perché ci imbarazza chiamarla “grazia”».

Margaret Edson maestra d’asilo, ha scritto una sola opera teatrale, nel 1991, a trent’anni. «Wit» — che significa saggezza, ma può anche significar­e intelligen­za improvvisa­ta — è la storia di un’insegnante malata. È in scena a Parma con la regia di Paola Donati. Parla la drammaturg­a premio Pulitzer

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