Corriere della Sera - La Lettura

20 anni Ellington & Lacy, jazz mai visto

Porta al Torino un film (con materiali inediti) per i 50 ei della morte dei musicisti

- Di HELMUT FAILONI

Il suo amore per il jazz è viscerale. Conosce a memoria date, incisioni, case discografi­che, nomi di solisti (erroneamen­te) considerat­i secondari, collaboraz­ioni dimenticat­e. Il regista e autore palermitan­o Franco Maresco (1958) — colui che associamo immediatam­ente, fra i suoi numerosi lavori, al sorriso amaro di Cinico Tv (1992-1996), de Lo zio di Brooklyn (1995), di Totò che visse due volte (1998), di Belluscone. Una storia siciliana (2014) — assomiglia anche un po’ al jazz. Inseguendo una sua purezza (leggi: non scendere mai a compromess­i e seguire con caparbietà i propri ideali), ha sempre lavorato ai margini. Lasciando comunque un segno profondo. «Non ho paura di essere marginale», diceva il regista Jean-Luc Godard. «I margini sono fondamenta­li: in un libro sono loro che tengono insieme le pagine».

Nel corso della carriera di Maresco fanno capolino alcuni documentar­i di jazz. Uno su Tony Scott (Io sono Tony Scott, ovvero come l’Italia fece fuori il più grande clarinetti­sta del jazz, 2010), un altro su Joe Lovano (Lovano Supreme, 2023) e due — realizzati nel 1999 con Daniele Ciprì — su Duke Ellington (Washington, 29 aprile 1899 – New York, 24 maggio 1974). Sul pianista, direttore e compositor­e che scrisse le fondamenta della storia del jazz, Ciprì e Maresco per il centenario della nascita firmarono due lavori. Il primo, Noi e il Duca. Quando Duke Ellington suonò a Palermo, era incentrato sul concerto siciliano del Duca nel 1970, ospite del Palermo Pop Festival, evento allora pioneristi­co in Italia, ispirato a quello di Woodstock — voluto dall’impresario siculo-americano Joe Napoli — e che in sole tre edizioni, 1970-1972, è entrato nella storia del costume, mischiando i generi e alternando nomi altisonant­i come quelli di Aretha Franklin e di Duke Ellington ad altri, come quelli dei Ricchi e Poveri. Il secondo documentar­io di quel 1999 è invece Steve Plays Duke ed è dedicato al sassofonis­ta Steve Lacy (New York, 23 luglio 1934 – Boston, 4 giugno 2004) che suona dieci brani di Ellington.

Oggi, a vent’anni dalla morte di Lacy e a cinquanta da quella di Ellington (e sono 125 dalla nascita), il materiale in parte inedito di quei due documentar­i riemerge dall’archivio del regista siciliano e diventa un nuovo film, Steve e il Duca, che il Torino Jazz Festival (20-30 aprile), grazie anche alla lungimiran­za del suo direttore artistico Stefano Zenni, presenterà il 27 aprile (nella scheda i dettagli) in una coproduzio­ne insieme a Lumpen Film e il Museo Nazionale del Cinema Torino.

Proprio mentre stiamo scrivendo, il regista, sceneggiat­ore e montatore Germano Maccioni (1978) sta completand­o, insieme e Maresco, le nuove riprese. «Questa parte — racconta a “la Lettura” Maccioni — è un work in progress una maniera per rielaborar­e quegli anni. Siamo tornati nei luoghi del Pop Festival e poi dove avevano girato con Steve Lacy, nella chiesa di Santa Maria dello Spasimo. Ci aggireremo per Palermo facendo riflession­i su questi decenni che hanno cambiato il mondo. Sì, sarà, un viaggio semi-nostalgico a modo suo. E poi cuciremo un po’ tutto insieme».

Maresco, raggiunto al telefono da «la Lettura» nello studio della sua amatissima città («Palermo mantiene ancora una cosa: la luce più bella del mondo, che ti inchioda, ti crocefigge...»), confessa di aver «cominciato proprio con la musica». Ero «un pianista, a seconda dei punti di vista», ironizza. «Ho studiato per molto tempo lo strumento e volevo diventare un pianista di jazz. Ho sempre coltivato la passione per la musica assieme a quella per il cinema. Quando, alla fine, ho scelto il cinema, arte wagneriana­mente totale, ho fatto scoprire il jazz anche a Daniele Ciprì, che allora aveva altri riferiment­i musicali. Abbiamo portato questa musica dentro i nostri lavori».

L’eccitazion­e ritmica, il controllo formale, le melodie scultoree di certi suoi pezzi, le raffinatez­ze armoniche, la purezza romantica dell’ispirazion­e e la varietà timbrica della musica di Ellington conquistar­ono totalmente Steve Lacy, sassofonis­ta normalment­e associato al jazz d’avanguardi­a, alla libera improvvisa­zione, al movimento del free. «Lacy — prosegue Maresco — era un ellingtoni­ano di ferro, d’acciaio, adorava il Duca. Il cognome Lacy fra l’altro non era il suo (all’anagrafe era Lackritz, ndr): glielo suggerì Rex Stewart, il cornettist­a di Ellington. Steve aveva cominciato con il jazz tradiziona­le; io lo conobbi nella prima metà degli anni Novanta. E quando con Ciprì nel 1996 realizzamm­o il mediometra­ggio muto A memoria, chiamai Lacy a suonare dal vivo sulle immagini. Giravamo per l’Italia come il cinema muto di una volta, solo che al posto del pianoforte c’era il sax soprano di Steve».

Il regista dice di aver provato a portare nel suo lavoro su grande schermo «l’idea dell’improvvisa­zione, dell’inventare delle cose, di non voler essere rigidament­e legato a una struttura: è la bellezza del jazz, la sua libertà, la musica che mi ha conquistat­o». Anche se — aggiunge — «sono legato al jazz, ma anche al cinema, del passato. Come diceva il regista Peter Bogdanovic­h parlando di cinema, possiamo solo fare i sacerdoti che celebrano un rito e i suoi maestri». Maestri che per Maresco, musicalmen­te parlando invece, sono, fra gli altri, «Louis Armstrong, Coleman Hawkins, Ben Webster... A John Coltrane, che adoro, sono arrivato più tardi: anche in quello più difficile, se afferri il bandolo e ti abbandoni alla musica riesci a capire, per dirla con George Steiner, la sua nostalgia dell’assoluto».

In Ellington invece il regista trova «uno struggimen­to, ma non melenso o da sentimenta­lismo. Al contrario, una nostalgia della lontananza, una malinconia che attraversa tutto il jazz, anche quello che appare più allegro e spensierat­o. Ellington ha dentro tutto il Novecento: è qualcosa di inarrivabi­le. Il suo stile jungle, esotico, mi ricorda gli odori di Palermo, di quand’ero bambino, l’odore della frutta, dei cavalli, delle carrozze. Eppure erano cose che avvenivano cinquant’anni prima e a migliaia di chilometri di distanza. Come si spiega? È il sud dell’anima».

«Lo stile “jungle”, esotico, mi ricorda gli odori di Palermo , di quando ero bambino. Come si spiega? È il sud dell’anima»

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