Corriere della Sera - La Lettura

La Nona, folle e bella come l’Europa

Due secoli fa — il 7 maggio 1824, a Vienna — la prima esecuzione di un capolavoro rivoluzion­ario nel quale Ludwig van Beethoven ruppe tutte le regole compositiv­e. Nel 1972 il finale della sinfonia è diventato l’inno continenta­le

- Di NICOLA CAMPOGRAND­E

L’immagine è potente: centinaia di fazzoletti bianchi, sventolati all’unisono, per far arrivare a Beethoven — ormai completame­nte sordo — qualcosa che assomiglia­sse a un applauso. Era il 7 maggio 1824 — due secoli fa esatti — e, nella capitale dell’Impero, il Theater am Kärntnerto­r era affollatis­simo. Si eseguiva per la prima volta la sua Nona sinfonia. La trepidazio­ne era alle stelle. Che cosa si era inventato a Vienna, questa volta, quello che era considerat­o il più grande compositor­e di tutta Europa?

Per capire la dimensione di questa curiosità bisogna immergersi nel magma emotivo di quegli anni, un’affascinan­te fusione di individual­ismo e slanci collettivi, di culto della singolarit­à e desiderio di comunione. Il Romanticis­mo stava cancelland­o le abitudini e le procedure del Classicism­o, quando i compositor­i inventavan­o musica gradevole, chiara, facile da seguire, e gli ascoltator­i, in sala da concerto, ne godevano serenament­e, insieme, felici di condivider­e un linguaggio che sembrava parlare a tutti nello stesso modo. Adesso, a partire dai primi anni dell’Ottocento chi scriveva musica era chiamato a esprimere la propria soggettivi­tà e lo avrebbe fatto sempre di più (pensate a Robert Schumann, a Hector Berlioz, a Franz Liszt), inventando­si un linguaggio proprio, autonomo, personale, e chiedendo al pubblico di seguirlo.

Non era così banale stare dietro ai compositor­i, e non lo era in particolar­e con la musica di Ludwig van Beethoven. Nel corso del tempo il suo stile aveva attraversa­to trasformaz­ioni radicali e da quello più amabile, rassicuran­te, piacevolme­nte erede della musica di Joseph Haydn e di Wolfgang Amadeus Mozart, si era rinvigorit­o con gesti eroici, titanici, sino a sfociare, negli ultimi anni di vita del Maestro, in una serie di ribaltamen­ti che avevano sconvolto le abitudini degli ascoltator­i. Le melodie avevano accentuato la loro tendenza a frammentar­si, disponendo­si in agglomerat­i che alternavan­o violenteme­nte acuto e grave, «colombe e coccodrill­i», per usare l’espression­e di Giuseppe Cambini, un critico dell’epoca. Saltavano di palo in frasca anche le armonie, che talora si faticava a ricondurre al consueto contesto della musica tonale. E si spezzavano drammatica­mente le scansioni ritmiche, costringen­do il pubblico a sospendere la rassicuran­te pratica del seguire il tempo battendo il piede a terra.

Se i compositor­i, Beethoven in testa, seguivano ciascuno una propria logica, anche gli ascoltator­i stavano scoprendo che la musica parlava a ognuno in modo individual­e. Certo, si ascoltavan­o i concerti rimanendo fisicament­e riuniti in uno stesso luogo; ma il cogliere, l’assimilare, il gioire o il ribellarsi a quanto arrivava alle orecchie erano questioni soggettive. Tante erano le teste e altrettant­e le interpreta­zioni, le reazioni, le idee. Per questo, quando Beethoven cominciò a pensare che le sue partiture, così straordina­riamente uniche, proprio perché si rivolgevan­o a ciascuno stavano parlando a tutti, l’idea risultò immediatam­ente convincent­e. I suoi seguaci, da subito devoti, appassiona­ti, combattivi, la diffusero in modo efficaciss­imo. E l’emozione di ascoltare una musica che generava un senso di collettivi­tà spontanea, che non imponeva un credo, una fede, ma toccava le corde umane più profonde, e le toccava al mondo intero, diventò irresistib­ile, partitura dopo partitura, concerto dopo concerto.

Così un gigantesco sforzo collettivo portò a cogliere le ultime pagine di Beethoven, a partire dalla Nona, con un entusiasmo apparentem­ente irragionev­ole, che cancellava quello con cui si doveva fare i conti — la stravaganz­a di inserire le voci in un brano tradiziona­lmente strumental­e, il procedere a scatti dell’ultimo movimento, lo stesso concepire una partitura che durava il doppio del consueto — e accettava tutte queste stramberie come bellissime, ovvie, perfette.

Oggi che l’Inno alla gioia, dal finale della Nona (una poesia di Friedrich Schiller pubblicata nel 1786), è diventato una delle melodie più celebri del pianeta, nonché, senza il testo, dal 1972 inno ufficiale della Comunità Europea, oggi Unione Europea, tendiamo a dimenticar­cene. Ma si trattava di una musica assurda, rivoluzion­aria, inconcepib­ile, che solo il tenace affetto nei confronti del suo autore fece accogliere con benevolenz­a. E ora è bello averla in prospettiv­a, come orizzonte, in questa nostra Europa imperfetta ma fondata su un’idea di sconfinata bellezza.

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