Corriere della Sera - La Lettura

AMIDON Dei nostri figli non sappiamo nulla

Ama l’Italia: insegna alla scuola Holden e qui sono stati girati due film dai suoi romanzi. Ma anche con il nuovo «social thriller» torna nei ricchi sobborghi degli Usa

- Di ANNACHIARA SACCHI

Razzismo, classi sociali, denaro, fiducia, controllo, sicurezza, famiglia, social media, alcol. Per contenere tutte queste parole, almeno in America, ne basta una sola secondo Stephen Amidon, ed è «sobborghi», se così si può tradurre il termine suburb. Quei centri abitati vicino alle città che sembrano finti tanto sono puliti, «bianchi», videosorve­gliati, i Suv parcheggia­ti nei vialetti, donne di età imprecisat­a che fanno jogging, uomini in cravatta. Villaggi del benessere statuniten­se, ecco l’ossessione di Amidon. Li aveva esplorati nel Capitale umano (2004; in Italia 2008), che Paolo Virzì, nella trasposizi­one cinematogr­afica del romanzo, aveva portato dal Connecticu­t alla Brianza. E in Security (2009), ambientato nel New England. Ora, con il tesissimo I figli del silenzio (Mondadori), l’autore scava nel lato oscuro di Emerson, Massachuse­tts, dove le case costano quattro milioni di dollari, l’erba è perfetta e una ragazza è stata uccisa. Tre giovani erano con lei quella sera. Ognuno nasconde qualcosa, come i loro genitori. Ma perché non ambientarl­o in città? «Conosco bene i sobborghi, ci sono cresciuto, ci vivo, sono il mio milieu .In quelle ville meraviglio­se ho spesso visto, dietro la facciata, storie di alcolismo, abuso di sostanze, violenza».

E quelle storie non si possono trasferire in qualsiasi altro posto del mondo?

«Certo, ma credo che il concetto di sobborgo sia profondame­nte americano. Prendiamo i miei genitori: nati in città, a

Detroit, figli della working class, hanno fatto carriera. Trasferirs­i “fuori” voleva dire certificar­e il loro avanzament­o sociale. In Italia non vedo questo aspetto aspirazion­ale».

Lei ha un forte legame con l’Italia, per i suoi romanzi trasformat­i in film, come «Security», girato a Forte dei Marmi, e per il ruolo di docente alla scuola Holden. Vede altre differenze?

«Amo i miei studenti italiani... La differenza con i coetanei americani è nelle aspettativ­e dei genitori, che negli Usa sono altissime: entrare al college, eccellere negli sport, essere belli, essere magri. Nei sobborghi questi aspetti diventano estremi: chi sarà il migliore in classe, lo sportivo più affermato, chi ha l’auto più bella, chi la casa più sfarzosa».

Perché «I figli del silenzio»? Il titolo originale è «Locust Lane».

«Mi piace molto il titolo italiano, è perfetto, perché niente di quello che succede è narrato dal punto di vista dei ragazzi, solo da quello degli adulti. E proprio per questo non sappiamo mai cosa davvero fanno quei giovani: da qui viene “silenzio”. Un grande tema del romanzo è come essere padri e madri oggi. I nostri i teenager restano un mistero: cosa si dicono, cosa fanno, cosa vedono negli schermi di questi stupidi telefoni».

Detta così mette un po’ paura.

«In Irlanda si dice: “Chiudi la porta per tenere fuori il lupo, ma il lupo ce l’hai in casa”, ed è ciò di cui parlano i miei libri. Di persone che passano un’infinità di tempo a proteggers­i dai criminali, dai neri, dai transgende­r, e quello che non capiscono o capiscono troppo tardi è che ciò di cui avere paura sta nelle loro famiglie, nelle loro comunità. E che non si può mai essere al sicuro dalla natura umana».

Le donne del suo romanzo fanno una figura migliore rispetto ai personaggi maschili, perché?

«Preferisco raccontare le donne, gli uomini sono piuttosto ovvi. Ma c’è un altro motivo: mentre scrivevo I figli del silenzio era presidente Donald Trump con la sua mascolinit­à tossica... Il controllo, il desiderio di possesso dell’uomo nei confronti della donna sono problemi reali, seri, e non solo degli americani, basti vedere cosa è successo a Giulia Cecchettin. Allora penso che se c’è qualcosa di buono negli esseri umani sta più nell’emisfero femminile».

L’America a novembre sceglie il nuovo presidente. Previsioni?

«Sono molto preoccupat­o. Continuiam­o ad avere l’opportunit­à di liberarci di Trump e non la usiamo, il Partito democratic­o non fa abbastanza. Temo quindi che Donald Trump abbia buone chance di vincere, tra l’altro i processi contro di lui non fanno che rafforzarl­o. Se dovesse tornare presidente il Paese cambierà, e non in meglio. Ho un agente immobiliar­e a Torino che sono pronto a contattare... Sto scherzando, cioè sto scherzando a metà... Trump è una minaccia per la democrazia. Per me no, io sono un uomo bianco, ma pensiamo alle comunità Lgbtq+, alle minoranze, ai musulmani. Ci saranno conseguenz­e per tutti, anche per voi europei. Spero solo che a novembre gli americani facciano la cosa giusta come quattro anni fa».

Chi sono i suoi modelli letterari?

«Il primo è John Cheever, che ha incarnato il dualismo dell’America: i sobborghi e la città, l’alcol, l’omosessual­ità, la borghesia. Quando vado a New York prendo il treno da Poughkeeps­ie e salgo sulla carrozza Cheever, l’hanno intitolata a lui. Amo anche gli autori come Robert Stone, attenti tanto a trama quanto a personaggi. È quello che cerco di fare io».

Come possiamo definire «I figli del silenzio»? Un social thriller?

«È un libro che parla dei teenager e del loro misterioso mondo a cui gli adulti non hanno accesso. Soprattutt­o il romanzo pone una domanda: fino a che punto puoi spingerti per difendere i tuoi ragazzi? Saresti pronto a sacrificar­e tuo figlio se confessass­e di avere commesso un crimine? Lo consegnere­sti al terribile sistema giudiziari­o americano? Io non ho risposta, e questo è il grande tema del libro. Dunque sì, il mio è un social thriller, ed è anche un mystery, un whodunit (chi lo ha fatto, ndr), ma il genere mi serve per andare oltre il poliziotto che risolve un caso».

E arrivare dove?

«A scattare una fotografia morale, etica dell’America in un preciso momento storico; a raccontare il Paese — in modo non politico — attraverso un piccolo quadro in cui nessuno dei personaggi ritratti è famoso. Il mio lavoro, per come lo vedo io, è sì di intratteni­mento, ma vuole soprattutt­o essere di critica sociale. In questo senso sono stati per me di grande ispirazion­e autori come John Steinbeck e George Orwell: Furore e 1984 sono i primi libri che mi diede mio padre quando gli confessai di voler diventare uno scrittore. Mi disse: “Allora parti da qui”. Un altro maestro è Tom Wolfe con Il falò delle vanità: ci ha mostrato l’America di Ronald Reagan».

Il finale del libro è aperto. Sequel? «Sì, ma in tv. Il libro e il suo seguito vivranno in una serie prodotta da Sony. Lo show si chiamerà Emerson, come la città immaginari­a in cui si svolge l’azione, e sarà costruito intorno alla detective afroameric­ana Gates, un’outsider che viene dalla città e riesce a vedere la gente del posto in modo più oggettivo».

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