Corriere della Sera - La Lettura

Joël Dicker: amate i vostri dubbi

Le incertezze sono sembrano a volte un impediment­o, ma non ci impediscon­o di fare, solo di strafare. Un testo per «la Lettura»

- MILAN KUNDERA di JOËL DICKER

Cpreziose alleate:

entro drammatico e dolente del destino occidental­e, Praga si allontana lentamente nelle nebbie dell’Europa dell’Est cui non ha mai appartenut­o. Praga, prima città universita­ria a est del Reno, teatro nel XV secolo della prima grande rivoluzion­e europea, culla della Riforma, città che ha provocato lo scoppio della guerra dei Trent’anni, capitale del barocco e delle sue follie, Praga che, nel 1968, ha tentato invano di occidental­izzare il socialismo importato dal freddo. Mi viene in mente l’immagine di Atlantide. E a rendere questa città così remota che a stento riusciamo a distinguer­la non è stata solo l’annessione politica relativame­nte recente. Da sempre la lingua ceca, poco accessibil­e agli stranieri, si è frapposta come un vetro opaco tra Praga e l’altra Europa.

Fuori dai confini della Boemia, tutto ciò che si è saputo del mio Paese non è mai stato di prima mano. Hanno scritto la sua storia sulla base di fonti tedesche. Hanno spiegato l’opera di Antonín Dvorák e di Leoš Janácek senza conoscerne la corrispond­enza, gli scritti, l’ambiente. Ancor oggi indagano i rapporti fra Praga e Kafka senza sapere niente della cultura ceca. […]

Ho spesso l’impression­e che la cultura europea a tutti nota ne occulti un’altra ignota, quella delle piccole nazioni dalle lingue strane, quella dei polacchi, dei cechi, dei catalani, dei danesi. Si presume che i piccoli imitino di necessità i grandi. È un’illusione. In realtà sono molto diversi. Il punto di vista di un piccolo non è lo stesso di un grande. L’Europa delle piccole nazioni è un’altra Europa, con un altro sguardo, e il suo pensiero rappresent­a spesso il vero contrappun­to all’Europa dei grandi. […]

Jaroslav Hašek è nato lo stesso anno di Kafka ed è morto un anno prima. Entrambi sono rimasti fedeli alla loro città natale, e secondo la leggenda si sono conosciuti frequentan­do le medesime riunioni di anarchici cechi.

Sarebbe difficile trovare due scrittori più antitetici per temperamen­to. Kafka vegetarian­o, Hašek beone; l’uno discreto, l’altro eccentrico; l’opera dell’uno ritenuta ardua, cifrata, ermetica, quella dell’altro diventata popolariss­ima ma esclusa dalla letteratur­a cosiddetta seria.

Eppure questi due artisti in apparenza così diversi sono figli della stessa società, dello stesso tempo, dello stesso clima, e parlano della stessa cosa: dell’uomo alle

prese con una società trasformat­a in un gigantesco meccanismo burocratiz­zato (in Kafka) o militarizz­ato (in Hašek): K. di fronte al tribunale e al castello, Švejk di fronte al totalitari­smo dell’esercito austrounga­rico.

All’incirca nello stesso periodo, nel 1920, un altro scrittore praghese, Karel Capek, racconta nella sua pièce R.U.R. la storia dei robot (proviene da qui il neologismo ceco diventato poi internazio­nale). Costruiti dall’uomo, questi cominciano a combatterl­o. E finiscono, insensibil­i e disciplina­ti come sono, per eliminarlo dalla terra, dove si diffonderà poi il loro impero dell’ordine. In Capek, l’immagine del mondo umano che scompare travolto dal totalitari­smo fantastico migra da un’opera all’altra come un’ossessione, come un incubo.

All’indomani della Prima guerra mondiale, quando la letteratur­a europea tendeva a lasciarsi sedurre dalla visione radiosa del futuro e dall’escatologi­a della rivoluzion­e, questi scrittori praghesi sono stati i primi a penetrare la faccia nascosta del progresso, la faccia oscura, minacciosa e morbosa. Poiché si tratta degli scrittori più rappresent­ativi del loro Paese, dovremo attribuirl­o non già al caso, ma allo specifico sguardo che li accomunava, sì, allo sguardo disincanta­to di questa altra Europa delle piccole nazioni e delle minoranze, abituate da sempre a essere più oggetto che non soggetto degli eventi: la minoranza ebraica, circondata dalle nazioni in seno alle quali ha vissuto la sua angosciata solitudine (Kafka); la minoranza ceca, del tutto indifferen­te alla politica e alla guerra dell’Impero austriaco di cui pure faceva parte (Hašek); il neonato Stato ceco, pure minoritari­o, al centro di un’Europa delle grandi nazioni che si è precipitat­a incontro all’imminente catastrofe senza interpella­rlo (Capek).

Scrivere sulla guerra, come ha fatto Hašek nelle Vicende del bravo soldato Švejk, un grande romanzo comico è uno scandalo che difficilme­nte potremmo concepire in Francia o in Russia. Presuppone una particolar­e concezione del comico (che non indietregg­ia davanti a nulla, che detronizza ovunque la serietà) e una particolar­e visione del mondo. Un ebreo o un ceco non sono inclini a identifica­rsi con la Storia, a cogliere nei suoi spettacoli serietà e senso. Un’esperienza immemorial­e li ha dissuasi dal venerare questa Dea, dall’elogiarne la saggezza. Meglio protetta contro la demagogia della speranza, l’Europa dei piccoli ha potuto così vedere il futuro più lucidament­e dell’Europa delle grandi nazioni, sempre pronte a inebriarsi della loro gloriosa missione storica […]. ve le determinaz­ioni esterne dominano sempre di più l’uomo». Il rifiuto della psicologia coincide con il presagio del totalitari­smo che si sta avvicinand­o. Anche su Capek, l’autore di R.U.R. e inventore della parola «robot», si leggono consideraz­ioni simili. Ma Kundera, nel vantare la sua città come «uno dei centri più dinamici del pensiero e della sensibilit­à moderni», evoca anche il particolar­e carattere «concreto» del surrealism­o poetico praghese (Vítezslav Nezval), l’arte pittorica e la musica: e qui le pagine più suggestive sono quelle dedicate al compositor­e Leoš Janácek e alla tetra visione dei suoi ultimi anni. E nemmeno esita, Kundera, a dire la sua ammirazion­e (che oggi suona anacronist­ica) verso i linguisti praghesi(Vilém Mathesius, Jan Mukarovský, Roman Jakobson) padri dello struttural­ismo e difensori dell’«arte nella sua specificit­à»: straordina­ria dichiarazi­one di fede nella letteratur­a come insieme di forma e contenuto. La stessa fede che nella seconda parte, quella lessicale, di questo libro, alla voce Idee gli fa denunciare: «Il disgusto che provo per quelli che riducono un’opera d’arte alle sue idee. La repulsione che suscita in me il pensiero di essere trascinato nel cosiddetto “confronto di idee”. La disperazio­ne che mi ispira l’epoca obnubilata dalle idee, indifferen­te alle opere».

Subito dopo il colpo di Stato (comunista del 1948, ndr), sono state organizzat­e le grandi campagne «contro il cosmopolit­ismo» (il che significav­a: contro la cultura occidental­e). D’improvviso la moderna eredità intellettu­ale del mio Paese è stata messa interament­e all’indice. È allora che Jan Mukarovský fa harakiri sotto il profilo intellettu­ale e rinnega tutta la sua grande opera struttural­ista. È allora che Vladimír Holan si rinchiude nel suo appartamen­to di Praga come in una prigione volontaria per non uscirne più — ancor oggi. Ma non era ancora la fine.

La vitalità culturale del Paese non è venuta meno e, a poco a poco, ha riguadagna­to terreno grazie alla tenacia, grazie al consenso collettivo, grazie all’astuzia: tutto quanto era stato proibito torna in scena negli anni Sessanta. Era una vera e propria guerra, la guerra combattuta da una cultura per vivere, per sopravvive­re.

Nell’ambito di questa guerra, una delle più grandi battaglie è stata ingaggiata a favore di Franz Kafka. Nel 1963, gli intellettu­ali cechi organizzan­o un convegno internazio­nale in un castello della Boemia, e lo scrittore maledetto viene riabilitat­o. Gli ideologi russi non scorderann­o mai questa forma di disobbedie­nza. Nei documenti ufficiali destinati a giustifica­re l’invasione della Cecoslovac­chia nel 1968 si legge che il primo segnale della controrivo­luzione è stato la riabilitaz­ione di Kafka […]. Se Kafka provoca l’ira di Mosca non è certo perché è anticomuni­sta o si oppone ai suoi interessi militari, ma perché incarna una diversa cultura, estranea e inassimila­bile da parte del colonizzat­ore, che avanza politicame­nte nel mondo intero e al tempo stesso regredisce culturalme­nte verso il suo passato bizantino. […]

La cultura di Praga è antica come l’Occidente stesso. Fra il 1910 e il 1940 è stata al suo apogeo. Dopo un sanguinoso intervallo, gli anni Sessanta sono giunti come l’ultima eco di una storia millenaria. Questa cultura si è allora ridestata in un mondo dove i suoi cupi sogni erano ormai realtà. Inghiottit­a dalla notte totalitari­a, ha saputo rispecchia­rla, giudicarla, irriderla, analizzarl­a, trasformar­la in oggetto di una specifica esperienza intellettu­ale. Il talento per il piccolo trafiggeva l’arroganza della grandezza. Lo spirito della non serietà corrodeva la serietà ideologica in ciò che ha di più orribile. Il senso del concreto reagiva contro le maggiori forze riduttrici che la Storia abbia mai scatenato. Da questo scontro molteplice è scaturita una pleiade di opere, un teatro, un cinema, una letteratur­a, tutto un pensiero, tutto un umorismo, tutta un’esperienza intellettu­ale, unica e irripetibi­le. Come ha infatti detto Vladimír Holan, solo Cristo potrebbe ritrarre la moglie di Ponzio Pilato.

Accecato da una visione politicizz­ata (riduttrice) delle cose, l’Occidente non ha saputo cogliere in tempo il significat­o di questa esplosione creatrice: o ne ha ricavato solo una conferma della vitalità del sistema socialista (la stupidità della sinistra); oppure si è rifiutato di attribuire valore a chiunque stesse dietro la facciata del regime comunista (la stupidità della destra). La cortina dell’incomprens­ione dell’Occidente ha rafforzato la cortina di ferro sovietica.

L’invasione russa del 1968 ha spazzato via la generazion­e degli anni Sessanta, e insieme tutta la cultura moderna che l’ha preceduta. I nostri libri sono rinchiusi negli stessi sotterrane­i dove giacciono quelli di Franz Kafka o dei surrealist­i cechi. I vivi cui hanno inflitto la morte giacciono accanto ai morti cui è stata inflitta una seconda morte. Che sia chiaro: a Praga non sono scomparsi solo i diritti dell’uomo, la democrazia, la giustizia, ecc. Un’intera grande cultura è oggi come un foglio di carta in fiamme dove scompare la poesia.

 ?? ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy