Corriere della Sera - La Lettura

Il flaubertia­no Truman Capote

- Di ALESSANDRO PIPERNO

Il viso scialbo, glabro e paffuto ha ben poco di rassicuran­te. A vederlo nel suo elemento, all’ennesimo raduno mondano, agitare le manine, sballarsi senza ritegno, tenere banco con l’irritantis­sima voce di bimba, non lo diresti mai. Poi apri uno dei suoi libri, ne gusti il fraseggio splendidam­ente tornito, cesellato alla nausea, e te ne ricordi: tra gli scrittori americani della sua generazion­e è lui — non Salinger, non Cheever — il più flaubertia­no di tutti. Perché se il talento è un premio, il genio è una condanna.

Nella prefazione a Musica per camaleonti, una delle sue ultime opere, Capote arriva a teorizzarl­o: «Quando Dio ti concede un dono, ti consegna anche la frusta; e questa frusta è predispost­a unicamente per l’autoflagel­lazione». Da qualche parte, in una delle lettere giovanili a Luise Colet, Flaubert si esprime in modo analogo. Non parla di frusta, ma di cilicio. Non cita santa Teresa d’Avila, chiama direttamen­te in causa l’Onnipotent­e. Siamo sempre lì, comunque, alla tortura autoinflit­ta, al misticismo laico che solo l’arte presa sul serio può ispirare.

Rievocando gli sfiancanti anni di apprendist­ato, Capote enuncia le tappe ineludibil­i per chiunque abbia a cuore il suono della prosa e l’incanto dell’affabulazi­one. Lo chiama «il noviziato innanzi all’altare della tecnica». Una pratica quotidiana che ti mette a contatto con «le diaboliche complessit­à della suddivisio­ne in paragrafi, della punteggiat­ura, del dialogo. Per non parlare della struttura globale, l’ampio arco impegnativ­o di inizio-centro-fine». Capote ha buon gioco nello snocciolar­e le variegate forme da cui bisogna trarre ispirazion­e: «Non solo dai libri ma dalla musica, dalla pittura o dalla semplice osservazio­ne della realtà quotidiana».

Come si vede, neanche un’allusione ai temi, come se essi fossero un pretesto per comporre frasi e ammucchiar­e paragrafi. Capote professa il formalismo inflessibi­le di un parnassian­o. E dire che ne avrebbe di cose da dire, storie da raccontare, spettri da evocare e tenere a bada. Oltre a una memoria prodigiosa e un gusto impeccabil­e, può contare su una biografia ricca di spunti, traumi, svolte imprevedib­ili.

Nato a New Orleans alla vigilia della Grande Depression­e da una famiglia disastrata e indigente (la madre è una ragazzina, il padre un poco di buono), niente intorno a lui è in grado di prometterg­li la formidabil­e carriera di scrittore che ben presto intraprend­erà. «Non avevo mai conosciuto qualcuno che scrivesse, anzi conoscevo pochi che leggessero». Ciò non di meno, il piccolo Truman non si dà per vinto. Pur di scrivere trascura i compiti e i piaceri infantili. Ha dieci anni quando viene adottato da Joe Capote, il nuovo marito della madre. Questa è solo la prima delle tante identità dietro cui il nostro ineffabile Zelig non finirà di dissimular­si. Non ha ancora vent’anni, oltre a essere ingestibil­e e promiscuo, può già esibire una collezione imbarazzan­te di fallimenti scolastici. È allora che, insieme alla famiglia, si trasferisc­e definitiva­mente a New York: la città di elezione al cui mito immortale la sua Colazione da Tiffany fornirà un delizioso contributo. L’istantanea con cui la cristalliz­za non potrebbe essere più suggestiva e romantica: «Quest’isola, che galleggia su acqua di fiume come un iceberg di diamante».

A sorprender­ci dell’opera di Capote sono i continui cambi di passo: un’attitudine perfettame­nte adeguata al suo nomadismo di globetrott­er. Lui stesso ama paragonars­i a uno squalo: se si ferma è perduto. Proprio come Holly Golightly, la sua eroina più famosa, anche lui potrebbe scrivere sul biglietto da visita: «Truman Capote. Di passaggio». Al contrario di molti colleghi dalla vena più stanziale — penso agli inarrivabi­li William Faulkner e Saul Bellow — Capote non è l’autore di un solo interminab­ile romanzo. E non fa niente per esserlo. Gli piace cambiare, compromett­ersi con ciò che non conosce. La sua prosa è talmente duttile e flessuosa da adattarsi a ogni argomento. La sua musa così insofferen­te da cercare sempre stimoli nuovi e climi più esotici.

Si fatica a credere che il precoce Altre voci altre stanze sia stato scritto dall’autore dell’incompiuto Preghiere esaudite. Per non parlare della distanza che separa due capolavori epocali come Colazione da Tiffany e A sangue freddo. Poi ci sono le sceneggiat­ure, i pezzi di colore, le interviste memorabili. A tenere insieme questa materia composita ci pensa lo stile. E allora sì che Capote ci appare come l’autore di un solo interminab­ile libro composto da migliaia di frasi, una più ingemmata dell’altra.

Per darvi un’idea del sinuoso incedere della sua prosa e del gusto decadente per le immagini cito volentieri l’attacco di Musica per camaleonti: «È alta e snella, forse sui settanta, capelli argentei, soignée, né nera né bianca, d’un colore tra il rum e l’oro pallido. È un’aristocrat­ica della Martinica che risiede a Fort de France ma ha anche un appartamen­to a Parigi. Ci troviamo nella terrazza della sua abitazione, una casa leggiadra, elegante, che sembra fatta di trine di legno: mi ricorda certi edifici di New Orleans. Sediamo a bere tè alla menta ghiacciato, lievemente corretto con assenzio». Ecco a voi un Truman Capote in purezza. Lo spazio riservato ai dettagli (trine di legno, oro pallido, tè all’assenzio) rende il quadro oltremodo squisito senza mai scadere nell’affettazio­ne. Se il ritmo è sincopato e il tono impassibil­e, la tessitura è solida e rigorosa. Lasciate che vi offra un altro esempio. È tratto dal coccodrill­o dedicato all’amico Tennessee Williams. «Ma adesso, quando ricordo Tennessee, penso ai vecchi tempi, ai tempi allegri. Era una persona che, nonostante l’interiore tristezza, non smetteva mai di ridere. Aveva una risata notevole. Non era sgangherat­a o volgare e neppure tanto fragorosa. Aveva un sorprenden­te non so che: ecco, una sorta di timbro gutturale da barcaiolo del Mississipp­i». Solo Capote può indugiare tanto sulla risata di un amico, e al contempo dire di lui tutto quel che c’è da sapere.

La ferocia con cui Capote tratta i suoi eroi (per non dire delle sue eroine) è implacabil­e. Non mi sorprende che negli ultimi anni della sua vita, i più derelitti — minati da una dieta a base di alcol e cocaina — avesse maturato una passione smodata e insana per Marcel Proust, al punto da volerne emulare le gesta. Il progetto a lungo coltivato di Preghiere esaudite avrebbe dovuto produrre, almeno nei propositi, un’opera capitale capace di condensare il nucleo di un’intera tradizione letteraria. Purtroppo, com’è noto, le cose andarono altrimenti. E non solo per la sopraggiun­ta morte dell’autore: benché Preghiere esaudite sia un libro splendido ricco di ritratti memorabili (su tutti, quello di Colette), è anche la dimostrazi­one che per scrivere la Recherche non basta conoscere tanta gente importante e non farsi scrupoli a metterla in ridicolo. Naturalmen­te non tocca a me offrirvene la ricetta, che del resto ignoro. So che per essere all’altezza del suo modello Capote avrebbe dovuto mettere in campo attitudini di cui era sprovvisto: un po’ di pietà, un afflato autentico nei confronti del prossimo, una comprensio­ne capace di andare oltre un cinismo brillante e mondano.

Ha potuto contare su una biografia ricca di spunti, imprevisti, trame. Ha scritto capolavori epocali che stanno a una distanza siderale: «Colazione da Tiffany» e «A sangue freddo». Eppure ha affrontato forma e stile con una tale ferocia

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