Corriere della Sera - La Lettura
Il flaubertiano Truman Capote
Il viso scialbo, glabro e paffuto ha ben poco di rassicurante. A vederlo nel suo elemento, all’ennesimo raduno mondano, agitare le manine, sballarsi senza ritegno, tenere banco con l’irritantissima voce di bimba, non lo diresti mai. Poi apri uno dei suoi libri, ne gusti il fraseggio splendidamente tornito, cesellato alla nausea, e te ne ricordi: tra gli scrittori americani della sua generazione è lui — non Salinger, non Cheever — il più flaubertiano di tutti. Perché se il talento è un premio, il genio è una condanna.
Nella prefazione a Musica per camaleonti, una delle sue ultime opere, Capote arriva a teorizzarlo: «Quando Dio ti concede un dono, ti consegna anche la frusta; e questa frusta è predisposta unicamente per l’autoflagellazione». Da qualche parte, in una delle lettere giovanili a Luise Colet, Flaubert si esprime in modo analogo. Non parla di frusta, ma di cilicio. Non cita santa Teresa d’Avila, chiama direttamente in causa l’Onnipotente. Siamo sempre lì, comunque, alla tortura autoinflitta, al misticismo laico che solo l’arte presa sul serio può ispirare.
Rievocando gli sfiancanti anni di apprendistato, Capote enuncia le tappe ineludibili per chiunque abbia a cuore il suono della prosa e l’incanto dell’affabulazione. Lo chiama «il noviziato innanzi all’altare della tecnica». Una pratica quotidiana che ti mette a contatto con «le diaboliche complessità della suddivisione in paragrafi, della punteggiatura, del dialogo. Per non parlare della struttura globale, l’ampio arco impegnativo di inizio-centro-fine». Capote ha buon gioco nello snocciolare le variegate forme da cui bisogna trarre ispirazione: «Non solo dai libri ma dalla musica, dalla pittura o dalla semplice osservazione della realtà quotidiana».
Come si vede, neanche un’allusione ai temi, come se essi fossero un pretesto per comporre frasi e ammucchiare paragrafi. Capote professa il formalismo inflessibile di un parnassiano. E dire che ne avrebbe di cose da dire, storie da raccontare, spettri da evocare e tenere a bada. Oltre a una memoria prodigiosa e un gusto impeccabile, può contare su una biografia ricca di spunti, traumi, svolte imprevedibili.
Nato a New Orleans alla vigilia della Grande Depressione da una famiglia disastrata e indigente (la madre è una ragazzina, il padre un poco di buono), niente intorno a lui è in grado di promettergli la formidabile carriera di scrittore che ben presto intraprenderà. «Non avevo mai conosciuto qualcuno che scrivesse, anzi conoscevo pochi che leggessero». Ciò non di meno, il piccolo Truman non si dà per vinto. Pur di scrivere trascura i compiti e i piaceri infantili. Ha dieci anni quando viene adottato da Joe Capote, il nuovo marito della madre. Questa è solo la prima delle tante identità dietro cui il nostro ineffabile Zelig non finirà di dissimularsi. Non ha ancora vent’anni, oltre a essere ingestibile e promiscuo, può già esibire una collezione imbarazzante di fallimenti scolastici. È allora che, insieme alla famiglia, si trasferisce definitivamente a New York: la città di elezione al cui mito immortale la sua Colazione da Tiffany fornirà un delizioso contributo. L’istantanea con cui la cristallizza non potrebbe essere più suggestiva e romantica: «Quest’isola, che galleggia su acqua di fiume come un iceberg di diamante».
A sorprenderci dell’opera di Capote sono i continui cambi di passo: un’attitudine perfettamente adeguata al suo nomadismo di globetrotter. Lui stesso ama paragonarsi a uno squalo: se si ferma è perduto. Proprio come Holly Golightly, la sua eroina più famosa, anche lui potrebbe scrivere sul biglietto da visita: «Truman Capote. Di passaggio». Al contrario di molti colleghi dalla vena più stanziale — penso agli inarrivabili William Faulkner e Saul Bellow — Capote non è l’autore di un solo interminabile romanzo. E non fa niente per esserlo. Gli piace cambiare, compromettersi con ciò che non conosce. La sua prosa è talmente duttile e flessuosa da adattarsi a ogni argomento. La sua musa così insofferente da cercare sempre stimoli nuovi e climi più esotici.
Si fatica a credere che il precoce Altre voci altre stanze sia stato scritto dall’autore dell’incompiuto Preghiere esaudite. Per non parlare della distanza che separa due capolavori epocali come Colazione da Tiffany e A sangue freddo. Poi ci sono le sceneggiature, i pezzi di colore, le interviste memorabili. A tenere insieme questa materia composita ci pensa lo stile. E allora sì che Capote ci appare come l’autore di un solo interminabile libro composto da migliaia di frasi, una più ingemmata dell’altra.
Per darvi un’idea del sinuoso incedere della sua prosa e del gusto decadente per le immagini cito volentieri l’attacco di Musica per camaleonti: «È alta e snella, forse sui settanta, capelli argentei, soignée, né nera né bianca, d’un colore tra il rum e l’oro pallido. È un’aristocratica della Martinica che risiede a Fort de France ma ha anche un appartamento a Parigi. Ci troviamo nella terrazza della sua abitazione, una casa leggiadra, elegante, che sembra fatta di trine di legno: mi ricorda certi edifici di New Orleans. Sediamo a bere tè alla menta ghiacciato, lievemente corretto con assenzio». Ecco a voi un Truman Capote in purezza. Lo spazio riservato ai dettagli (trine di legno, oro pallido, tè all’assenzio) rende il quadro oltremodo squisito senza mai scadere nell’affettazione. Se il ritmo è sincopato e il tono impassibile, la tessitura è solida e rigorosa. Lasciate che vi offra un altro esempio. È tratto dal coccodrillo dedicato all’amico Tennessee Williams. «Ma adesso, quando ricordo Tennessee, penso ai vecchi tempi, ai tempi allegri. Era una persona che, nonostante l’interiore tristezza, non smetteva mai di ridere. Aveva una risata notevole. Non era sgangherata o volgare e neppure tanto fragorosa. Aveva un sorprendente non so che: ecco, una sorta di timbro gutturale da barcaiolo del Mississippi». Solo Capote può indugiare tanto sulla risata di un amico, e al contempo dire di lui tutto quel che c’è da sapere.
La ferocia con cui Capote tratta i suoi eroi (per non dire delle sue eroine) è implacabile. Non mi sorprende che negli ultimi anni della sua vita, i più derelitti — minati da una dieta a base di alcol e cocaina — avesse maturato una passione smodata e insana per Marcel Proust, al punto da volerne emulare le gesta. Il progetto a lungo coltivato di Preghiere esaudite avrebbe dovuto produrre, almeno nei propositi, un’opera capitale capace di condensare il nucleo di un’intera tradizione letteraria. Purtroppo, com’è noto, le cose andarono altrimenti. E non solo per la sopraggiunta morte dell’autore: benché Preghiere esaudite sia un libro splendido ricco di ritratti memorabili (su tutti, quello di Colette), è anche la dimostrazione che per scrivere la Recherche non basta conoscere tanta gente importante e non farsi scrupoli a metterla in ridicolo. Naturalmente non tocca a me offrirvene la ricetta, che del resto ignoro. So che per essere all’altezza del suo modello Capote avrebbe dovuto mettere in campo attitudini di cui era sprovvisto: un po’ di pietà, un afflato autentico nei confronti del prossimo, una comprensione capace di andare oltre un cinismo brillante e mondano.
Ha potuto contare su una biografia ricca di spunti, imprevisti, trame. Ha scritto capolavori epocali che stanno a una distanza siderale: «Colazione da Tiffany» e «A sangue freddo». Eppure ha affrontato forma e stile con una tale ferocia