Corriere della Sera - La Lettura

L’umanità di Kent Haruf che descrisse in un suo personaggi­o la propria fine

Inedito in Italia nel decennale della morte

- Di IDA BOZZI Kent Haruf (traduzione di Fabio Cremonesi)

Dieci anni fa, il 30 novembre 2014, a 71 anni, Kent Haruf morì a causa di una malattia polmonare. Nel decennale della morte, il racconto inedito presentato in queste pagine (mai pubblicato prima in Italia, uscito solo per la rivista britannica «Granta» con il titolo La morte di ogni uomo) ricorda l’anniversar­io dello scrittore ma suona anche come un precoce presagio della fine, asciutto e preciso com’era nello stile dell’autore, eppure soffuso dell’incredibil­e senso di pietà che dedicava ai personaggi e all’umanità.

Come spiega Eugenia Dubini, editrice di NN, sono molte le iniziative editoriali in occasione del decennale: «La morte di ogni uomo — spiega Dubini — fa parte di una serie di materiali inediti in Italia che NN ha recentemen­te acquisito dall’archivio di Haruf». Inediti che entreranno a far parte delle nuove edizioni di NN delle opere di Haruf in occasione dell’anniversar­io. Si comincia con la riedizione di un’opera amatissima, Le nostre anime di notte, un caso letterario (la versione di Fabio Cremonesi vinse nel 2017 la prima edizione della Classifica di qualità de «la Lettura» dedicata ai traduttori) che divenne anche film di Ritesh Batra, protagonis­ti Robert Redford e Jane Fonda: la storia di Addie e Louis, due anziani vicini di casa nella città immaginata da Haruf, Holt, che iniziano a trascorrer­e insieme le notti superando la solitudine e l’isolamento della vecchiaia.

Il libro sarà in libreria dal 7 maggio in una nuova edizione speciale con la copertina cartonata: oltre al romanzo nella traduzione di Fabio Cremonesi, l’edizione propone la nuova prefazione di Lella Costa (che ha portato in scena lo spettacolo tratto dal romanzo) e due contenuti mai apparsi in Italia: innanzitut­to, un’ampia intervista di Haruf, del 2009, in cui lo scrittore racconta dettagli poco noti della sua vita (i lavoretti per sbarcare il lunario in gioventù, i 27 anni di insegnamen­to, l’ammirazion­e per il presidente Barack Obama, per il quale lo scrittore confida di aver votato); e poi, un altro racconto, il primo pubblicato in assoluto da Haruf nel 1982, Ora (e dopo). «L’uscita di questi materiali inediti — conclude Dubini — continuerà di pari passo alla riproposta in nuove edizioni dei romanzi di Haruf nel catalogo NN». a Lena e lei si mise a gemere e piangere. La abbracciai. Alla fine diede un’ultima carezza al cane e io riuscii a riportarla alla macchina per tornare a casa; il veterinari­o aspettò che ce ne fossimo andati per fare l’iniezione. A casa trovammo George in pigiama al tavolo di cucina, che rimase seduto a guardarmi mentre gli raccontavo cos’era successo. Le lacrime scivolavan­o sulla sua faccia di vecchio e gli appannavan­o gli occhiali. Non ho potuto dire addio a Jackie, disse. Volevo dirle addio.

Anche Lena, che era all’acquaio, riprese a piangere. Anche a me veniva da piangere, anche se quel cane era stato un problema per me; alla fine gli avevo insegnato a lasciarmi in pace dandogli un colpetto sul naso con il bastone di George.

Nel cortile sul retro avevano una specie di sepolcro per i loro cani morti in passato. George l’aveva costruito con delle lastre verdi trasparent­i per tettoie, una stanzetta con il tetto e le pareti e una moquette da esterni rossa, e con i nomi dei cani sulle lapidi di plastica che George aveva ordinato da un catalogo di vendite per corrispond­enza. Fuori c’era anche una sedia, per sedersi e ricordare i cani che erano morti e recitare qualche preghiera. Jackie sarebbe stato cremato e le sue ceneri sarebbero state sepolte lì, e George disse che voleva che metà delle sue ceneri fossero seppellite insieme a quelle dei cani, quando fosse arrivato il suo momento.

Per tutto quel tempo, accompagna­vo George in bagno e lo aiutavo a vestirsi e spogliarsi, lo aiutavo in quelle faccende personali. Non ci fu mai alcun imbarazzo da parte sua, per quanto ne so. E me lo ricordo quando mi veniva incontro nel corridoio di quella piccola casa, trascinand­osi appresso la bombola dell’ossigeno, con i cani che gli correvano intorno e si impigliava­no nel tubicino e quasi lo facevano finire per terra.

Qualche volta lo portai dal dottore per dei controlli. Conosceva tutti gli anziani nella sala d’attesa e li salutava e si informava delle loro famiglie. Sembrava riprenders­i e diventava molto cortese e affabile. Il dottore che lo visitava, a differenza della maggior parte dei medici, gli parlava della sua salute emotiva e spirituale, oltre che del cancro. George diceva al dottore, Prego per non avere paura. Prego per non sentire dolore. Prego per i miei amici. Il dottore diceva, Questa è la mia preghiera per te. Si riferiva al prendersi cura di George, agli esami e alla visita a cui lo stava sottoponen­do.

George ricominciò a stare male e andò qualche giorno in ospedale, poi tornò a casa, ma gli venne la polmonite e dovette tornare in ospedale. Lena andava a trovarlo e ci andavano anche i suoi amici. Lui e gli altri anziani se ne stavano seduti a parlare dei vecchi tempi. Quando era stato male a casa gli amici non si erano visti. Questo l’aveva molto infastidit­o. Ne parlammo e non c’era una spiegazion­e soddisface­nte. In ospedale andavano a trovarlo in tanti. Sembrava pacificato e, come si capì, era agli ultimi: non tornò più a casa.

Mia moglie e io ricevemmo la telefonata attesa e temuta di notte. L’infermiere, un uomo che si chiamava Don, disse, Ho il triste compito di informarvi che George Merlino è morto. Erano circa le tre. Chiamai Lena per dirle che era morto e che l’avremmo portata all’ospedale. Lei si mise a urlare, Devo andare a vestirmi. Devo prendere i miei vestiti. Devo prendere i miei vestiti.

Entrammo in città e la passammo a prendere — pensavo che sarebbe stata vestita di nero, invece aveva la sua vecchia felpa e i jeans, come al solito — e la portammo nella stanza d’ospedale. George era a letto. Era diventato piccolo, minuto, poco più di un gonfiore sotto la coperta di cotone. Aveva la faccia gialla, pallida. Gli occhi chiusi, incavati. La bocca spalancata, scura, silenziosa. Senza dentiera. Il naso sembrava più appuntito, i capelli erano rigidi e cespuglios­i. Gemendo, Lena si mise ad accarezzar­gli la faccia, continuava ad accarezzar­gliela, la faccia e le spalle, e incolpava il medico di non aver fatto abbastanza. Mia moglie e io gli rimettemmo la dentiera. Restammo lì con Lena fin quando non fu pronta per andarsene. Pianse per un’ora e alla fine disse, Adesso sono davvero sola. Ormai non ho più nessuno.

Poi uscì dalla stanza e arrivò quello delle pompe funebri, che portò via George. Accompagna­mmo Lena e restammo un’altra ora insieme a lei. All’inizio i cani erano furiosi, ma poi si placarono.

Ci fu una messa per George nella chiesa cattolica e una piccola cerimonia funebre al cimitero, con un picchetto d’onore di anziani in alta uniforme che spararono dei colpi a salve e si misero a marciare a passi decisi, poi uno di loro consegnò a Lena una bandiera piegata, e poi basta.

Da quando è morto George, vedo Lena una volta ogni due o tre settimane. Non molto tempo fa ho dovuto accompagna­rla a far sopprimere la cagnolina grassa. Quindi le è rimasto solo il dalmata. Lo chiama Spot. Lo nutre come se fosse un bambino. Ultimament­e Lena ha perso peso perché ha problemi ai denti, ma Spot è grasso come un maiale. Se ne sta su una sedia davanti alla finestra della sala e guarda la strada. Lei gli prepara la cena. All’ultima festa del Ringraziam­ento gli ha preparato una cena completa a base di tacchino con tanto di contorni. E ora, d’estate, dà a me e mia moglie dei fagiolini che coltiva nel giardino accanto al sepolcro, non lontano dalle ceneri di George e di Jackie e dalle lapidi di plastica di tutti i cani.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy