Corriere della Sera - La Lettura

Nella narrazione il tempo deve correre, bisogna mantenere il ritmo, se non renderlo più frenetico. Ma occorre anche concedersi una certa calma per conoscere i personaggi

- Joël Dicker ( traduzione di Milena Zemira Ciccimarra)

secondo volume, né per il piano generale della trilogia, ho dovuto far combaciare tutto, partendo dalla fine del primo e riaggancia­ndomi all’inizio del terzo.

Quando ho iniziato Un animale selvaggio sapevo già su cosa volevo lavorare. Un romanzo che fosse altrettant­o denso e ricco rispetto ai precedenti, ma ancora più compatto, con una scrittura più serrata. Tra i generi letterari che ammiro di più, il racconto breve figura senza dubbio al primo posto. I miei libri preferiti sono spesso opere brevi, essenziali, in cui tutto viene detto in poche pagine e non manca nulla. Pensate a Il vecchio e il mare, Uomini e topi, La fattoria degli animali: libri brevi e incisivi, dove non manca una parola. Che prodezza!

Non voglio ovviamente paragonarm­i a questi autori immensi, cerco solo di dire che la mia necessità, nella stesura di Un animale selvaggio, era quella di proporre un testo il più rifinito possibile.

Ma come riuscirci?

Riflettend­o, mi sono reso conto che dovevo concentrar­mi sulla nervosità della scrittura, che dipendeva sostanzial­mente da due assi: il tempo e la densità. Sono questi gli ingredient­i cruciali per una scrittura nervosa.

Avevo bisogno di un soggetto concitato, vivo. Perciò ho deciso di non aprire il libro con una scena di omicidio, perché l’omicidio congela la scena, e dunque rallenta. Allora ho pensato a un avveniment­o brutale, rapido, scattante e continuo: una rapina. L’idea mi affascinav­a, perché mi permetteva di prendere una direzione diversa e dimostrare che la suspense, in un romanzo, non dipende dall’omicidio in sé, ma dal modo di raccontare la storia. D’altronde, il grande Borges ha detto pressappoc­o: «Alla fine, ogni storia, se ben raccontata, è un giallo».

Un animale selvaggio è un romanzo particolar­e per me, perché è sì altrettant­o ricco dei precedenti e ha lo stesso respiro, ma rispetto alla maggior parte di essi è più breve di un terzo. È stato quindi segnato dall’esigenza di condensare la scrittura per dire lo stesso ma con meno parole, il che ha rappresent­ato una sfida per me, che sono abituato a libri di 600 pagine o più. Inizia con un cronometro che scatta: due criminali si introducon­o in una gioielleri­a per commettere una rapina. Hanno sette minuti. C’è una rapidità, un’urgenza immediata, un cronometro che gira e che il lettore deve tenere a mente. Ma ecco che mi complico subito le cose con una difficoltà: invece di restare sulla rapina, che alimenta la rapidità del momento, decido, appena il lettore volta pagina, di ripartire da venti giorni prima. Perché? Perché la rapina è il metronomo, non la musica del libro.

Ora che ho il tempo, voglio raccontare quello che mi appassiona davvero: i personaggi. In Un animale selvaggio ce ne sono solo cinque, e appena tre luoghi principali, due dei quali sono quelli in cui vivono i personaggi. Questo mi permette di dare maggiore importanza ai personaggi, di sollevare poco alla volta la maschera, o addirittur­a le maschere soa vrapposte, che avevano indossato all’inizio del libro. Volevo far riflettere i lettori su cosa succede quando ci togliamo le nostre maschere, sui nostri impulsi, sulle nostre dipendenze e sul modo in cui li gestiamo.

La stesura di questo libro, quindi, è avanzata un passo dopo l’altro: da una parte il ritmo, il tempo della rapina, il cronometro che gira; dall’altra, la storia dei personaggi. In altre parole, si procede sistematic­amente un passo avanti e uno indietro, perché questi due elementi sono del tutto antitetici. Da un lato, il tempo deve correre, bisogna mantenere il ritmo, se non renderlo addirittur­a più frenetico. Dall’altro, bisogna concedersi una certa calma per conoscere i personaggi.

È un po’ come un match di chess boxing, per chi conosce questo sport. È una combinazio­ne tra un incontro di boxe e una partita a scacchi: due sfidanti si affrontano alternando un round di boxe sul ring, seguito da uno di scacchi. Vince chi batte l’avversario sul ring o sulla scacchiera. La grande differenza tra un romanzo e il chess boxing è che il lettore non deve percepire lo scarto di intensità tra i due elementi. È necessario che la miscela sia perfettame­nte omogenea. Questa miscela, in letteratur­a, ha un nome: narrazione. E cioè il modo in cui si racconta la storia. La chiave di volta del libro sarà il vostro modo di raccontare la storia. Proprio come un ospite affascinan­te, a cena, può parlarvi di un argomento noioso con tale vividezza da farvi pendere dalle sue labbra. Mentre uno che non sa raccontare bene una storia perderà la vostra attenzione anche con la più appassiona­nte delle avventure.

Dovevo quindi lavorare sulla narrazione, e in particolar­e sulla scansione temporale, che doveva essere al tempo stesso completa e dettagliat­a, ma anche trascinant­e. Bisognava condensare l’arco temporale, ma non artificios­amente. In un primo momento, non mi sono posto limiti. Mi sono lasciato libero. Ho cominciato immergendo­mi nell’ambientazi­one del romanzo, Ginevra, dopodiché ci ho calato i personaggi. Per raccontarl­i a tutto tondo, sapevo che avrei dovuto fare diversi salti indietro nel passato, risalendo dieci o quindici anni prima. Per ovviare a questo, ho deciso di coniugare l’intensità della rapina di sette minuti (una durata breve e intensa) con un tempo presente della narrazione che abbraccia i venti giorni precedenti alla rapina. Una durata tutto sommato breve, dunque, meno di un mese. Così facendo, il lettore capisce subito che ci sarà ritmo. Entrare nel romanzo venti giorni anziché, per esempio, due anni prima della rapina dà un’impression­e immediata di ritmo.

Man mano che il romanzo avanzava, e il tempo mi convinceva, ho dovuto procedere a un grosso lavoro di tagli. Prima ho fatto riferiment­o alla densità del romanzo. Densità non significa scrivere di meno, significa scrivere di più e tagliare di più. Questo romanzo di 400 pagine ne ha richieste forse il doppio per essere finito. La prima versione doveva essere di 600 pagine, quindi a forza di riletture ne ho tagliate circa duecento. I tagli sono la parte più difficile. Bisogna separare il grano dalla pula. Eliminare quello che è già ovvio per il lettore, le ridondanze, le descrizion­i inutili e soprattutt­o le ripetizion­i, che sono un grosso pericolo: se ti ripeti, perdi l’attenzione del lettore e, inevitabil­mente, la lettura rallenta.

L’obiettivo di un romanzo è raccontare molto scrivendo poco. Quindi i tagli probabilme­nte sono uno dei momenti più importanti nella stesura di un libro. Saper tagliare e togliere è altrettant­o importante rispetto a saper scrivere e aggiungere. Il processo di scrittura in realtà è abbastanza semplice: si scrive, si toglie tutto e si riparte daccapo. Paradossal­mente, più si lavora di sottrazion­e, più il libro avanza. Più si torna indietro, più si va avanti. Mi capita regolarmen­te che alcuni lettori mi chiedano consigli di scrittura. Di solito rispondo: «Scrivete, scrivete, scrivete… E poi tagliate, tagliate, tagliate!» Mi ci è voluto molto tempo per capire l’importanza dei tagli. Le prime volte, quando tagliavo parti del mio testo, avevo l’impression­e di aver lavorato inutilment­e. Era una sensazione deprimente: avevo sgobbato tutte quelle ore per poi alla fine eliminare decine di pagine. Poi un giorno mi sono reso conto che ogni pagina che tagliavo rappresent­ava un passo in avanti: mi permetteva di comprender­e meglio ciò che volevo scrivere, e così migliorava la struttura del testo. Perché quando si taglia qualcosa, non si deve pensare a quello che si toglie, ma a quello che si mantiene. Tagliare ci permette di superare i nostri dubbi.

Il dubbio non è un male, né una brutta parola. È il vostro alleato, il vostro compagno di scrittura, quello che vi aiuterà a scrivere il miglior libro possibile. Sarebbe sbagliato pensare che i dubbi siano qualcosa di negativo, al contrario. Possono sembrare un impediment­o, forse è anche vero, ma non ci impediscon­o di fare, ci impediscon­o solo di strafare. Quindi, se dovessi dare un unico consiglio di scrittura, valido anche per la vita in generale, sarebbe: amate i vostri dubbi. Considerat­eli un’opportunit­à, un amico. I dubbi sono lì per aiutarvi, per spingervi a mettervi in discussion­e, per ripartire e permetterv­i di migliorare voi stessi fino a superare i vostri limiti. Personalme­nte, ho sempre dubitato mentre scrivevo, e questo vale tanto per i miei primissimi testi quanto per Un animale selvaggio .E quello che mi piace e mi affascina è proprio il fatto di aver scritto libri che nessuno ha letto e sono stati rifiutati da tutti gli editori, ma anche libri che sono stati letti da milioni di persone. E in entrambi i casi i dubbi sono stati esattament­e gli stessi.

Questo è il bello della letteratur­a: il successo è imprevedib­ile. Non lo si può costruire a tavolino. E in genere sono i libri dai quali ci si aspetta di meno a diventare dei grandi successi di pubblico. La cosa più importante per lo scrittore è il piacere che trarrà dal suo lavoro: il piacere di scrivere, ma anche il piacere di tagliare, il piacere di ricomincia­re. E, soprattutt­o, il piacere di superare i suoi dubbi.

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