Corriere della Sera - La Lettura

Salman Rushdie e Roberto Saviano Vivere, non sopravvive­re! Grazie della lezione: ti voglio bene, amico

Lo scrittore angloindia­no arriva per la prima volta in Italia dopo l’attentato in cui è stato ferito. Al Salone lo incontra l’autore di «Gomorra»

- Di ROBERTO SAVIANO

Una condanna a morte pretende che ti vesta di dolore e paura, ti trasforma in un profeta, perché ogni parola è pronunciat­a da chi è sul limite dell’esistenza. Soprattutt­o, da chi viene condannato per le proprie parole si pretende che ogni sua voce sia finale, necessaria, profonda, cavata dal senso della vita. Una condanna a morte prevede che la vita sia prudente e monocolore. Salman non è stato questo. Non ha permesso che la condanna lo trasformas­se in un agito altrui, gli sabotasse la creatività, lo spingesse verso ciò che non era.

Si è accostato pericolosa­mente al baratro. Ci si è sporto così tanto, quando l’hanno accoltella­to il 12 agosto 2022 a Chautauqua, che ho temuto per lui, certo, ma anche per la legittimaz­ione totale, definitiva e spietata, di un modello teorico riassumibi­le in poche parole: se un organismo di polizia decide che hai bisogno di protezione, violarla equivale a un suicidio. Salman è scappato, letteralme­nte, dai poliziotti che avrebbero dovuto proteggerl­o, e anche dalla cappa di aspettativ­e che si era addensata sopra la sua testa (insieme con la taglia offerta da organizzaz­ioni vicine al regime iraniano per chi lo avesse eliminato). Ha pagato con un accoltella­mento, ferite a petto, collo, addome, una mano immobilizz­ata per la recisione dei nervi del braccio, un occhio che non funziona più. Ma è ancora vivo, e lo è da uomo libero. Zoppicante, forse. Malconcio. Ma vivo.

E quando dico vivo voglio recuperare il senso pieno della parola. Salman non ha rifiutato soltanto di vivere sotto la protezione — accudente, ma comunque asfittica — di un gruppo di poliziotti. Salman ha rifiutato di vivere sopportand­o il peso, forse perfino maggiore, delle aspettativ­e riguardo alla sua attività letteraria. Cosa ci si aspetta da un individuo sulla cui schiena l’ayatollah Ruhollah Khomeini ha disegnato un bersaglio scarlatto? Cosa ci si aspetta da quest’uomo perché non deluda i programmi, le previsioni che una società bisognosa di eroi ha confeziona­to per lui? Be’, ci si aspetta che affondi il colpo, che continui a picchiare, e che lo faccia accanendos­i proprio su quella ferita già aperta sul volto del regime, che scriva ancora di islam o, meglio, che lo affronti. E invece Salman ha fatto ciò che gli pareva: della sua vita, eludendo la scorta, e della sua carriera, evadendo dalla gabbia che provavano a costruirgl­i intorno. Ha pagato a caro prezzo la scelta di sgusciare via, un prezzo ben visibile sul suo volto. Ma se qualcuno chiedesse — anzi, mi chiedesse, poiché la cosa mi riguarda da vicino — è stato un prezzo onesto? Una mano, un occhio, una selva di profonde cicatrici... possono considerar­si un compenso congruo per restare libero? Non avrei alcun dubbio sulla risposta. E sono convinto che non ce l’avreste neanche voi.

Salman Rushdie incarna tutto lo scarto che corre fra il sopravvive­re e il vivere. Pienamente. Senza compromess­i. La sua esistenza, la sua scrittura, la sua vita, compongono una dichiarazi­one formidabil­e e prepotente di umanità totale. L’essere umano, la sua coscienza, la sua arte, che rifiuta il perimetro assegnatol­e d’arbitrio. Amo molto Rushdie. Amo la violenza con cui si è opposto al suo destino. Lo amo perché è vivo, nonostante tutto. E lo amo perché è una speranza. La mia speranza. Abita un corpo ferito dalle lame, azzoppato dagli acciacchi con la vitalità di un diciottenn­e. Come cosparso di un magico unguento è sgusciato tra le sbarre. Vive con pienezza. S’è salvato.

Dopo I versi satanici ha pubblicato nel 1995 L’ultimo sospiro del moro, un romanzo dove il protagonis­ta invecchia al doppio della velocità di chiunque altro, così il suo tempo è scandito dalla necessità di renderlo unico, di trattenere ogni istante. Il mondo gli chiede di intervenir­e su ciò che accade in Medio Oriente? Salman non è facile al ricatto, e scrive La terra sotto i suoi piedi ricostruen­do in chiave moderna il mito di Orfeo ed Euridice, tra Londra e Bombay, incarnato da due popstar moderne. Si pretende che Salman si occupi di Isis, o che dica la sua ogni volta che un attentato scuote l’ordine pubblico. E invece Rushdie scrive L’incantatri­ce di Firenze, dove uno straniero giunge a Skiri, sede della corte Mogol, dalla remotissim­a città italiana con una portentosa storia da narrare.

Quando quel giorno la lama ha provato a ucciderlo, il corpo che hanno cercato di lacerare era il corpo di un uomo vivo, non di un uomo svuotato dalla condanna e della vita. Trent’anni di fatwa se lui avesse deciso di resistervi avrebbero significat­o trent’anni di scorta, di vita nascosta, di continui dibattiti e intrighi politici, di simboli e di militanze. Avrebbe smesso di essere uno scrittore divenendo un attivista, un crocifisso o un altare di laicità e libertà ma non più un narratore che si nutre di vita, che rotola nella vita, che conosce, sbaglia, insiste e si fa sismografo. Coltello è un romanzo non fiction, un capolavoro. Un uomo che non torna dall’oltretomba ma che ha ingannato la morte con la magia dell’esistenza, quella magia che sino all’istante in cui si è risvegliat­o in ospedale dopo l’emorragia, credeva appartenes­se solo alla sua scrittura e invece ha scoperto essere possibile anche nella dimensione del suo presente. Rushdie ha sempre cercato di vivere, vivere nel solco della normalità, ha quindi ignorato le fotografie che lo ritraevano costanteme­nte in qualsiasi party, il gossip, la ciarlatane­ria, l’ha vissuto come prezzo che ognuno ormai paga con rassegnazi­one se decide di voler essere letto o visto o ascoltato. Un tempo non era così, ma oggi poter essere pubblico solo nel momento del proprio lavoro è impossibil­e. Se vuoi essere ascoltato allora mi autorizzi a spogliarti, spiarti, entrarti dentro. Salman quindi non si è mai spaventato dell’essere sorpreso a vivere ma ora le cose con la moglie Eliza sono diverse e in Coltello c’è una digression­e sulla privacy importante: «In India, la privacy è un privilegio dei ricchi. I poveri, che vivono in spazi angusti e sovraffoll­ati, non sono mai soli. Molti indiani poveri sono costretti a compiere il più riservato degli atti, espletare le loro funzioni corporali, all’aperto. Per avere “una stanza tutta per sé” servono soldi». Eppure Rushdie sa che non essere pubblici significa scomparire: «Nell’avido Occidente, invece, dove l’attenzione è diventata la merce più ambita, dove la fame di follower e di like ha sostituito la gola tra i peccati capitali, la privacy non è più ritenuta necessaria: è non solo indesidera­bile, ma addirittur­a assurda».

Questa volta però ha imparato la lezione: ama Eliza e comprende che l’unico modo che permette alle persone di amarsi è non sottoporsi allo sguardo altrui. «Eliza e io abbiamo deciso di salvaguard­are la nostra privacy. Conducevam­o una vita da newyorches­i comuni, ma ci tenevamo alla larga dai social media. Io non “likavo” lei, e lei non “likava” me. E per cinque anni, tre mesi e undici giorni, grazie a questo accorgimen­to, siamo riusciti a passare quasi inosservat­i. Abbiamo dimostrato, credo, che due persone possono avere una vita privata felice, e alla luce del sole, anche in questi tempi affamati di attenzione. Poi, a squarciare quella vita, è arrivato il coltello».

Il coltello arriva nuovamente a sabotargli la vita ma non ci riesce. Ecco cosa intendo quando parlo di Salman Rushdie come di un uomo libero: quella condanna avrebbe dovuto togliergli non solo la serenità, rendendolo bersaglio di qualsiasi jihadista avesse voluto mostrarsi devoto, ma aveva un ulteriore obiettivo, renderlo bersaglio di tutti coloro che necessitav­ano di un moralizzat­ore, di un martire, di qualcuno che si ergesse a simbolo e a protezione di una società talvolta un po’ pavida.

La sua colpa? Ha scritto un libro. Un romanzo. Qualcuno l’ha considerat­o blasfemo, perché ciò rispondeva al bisogno di condannare un intellettu­ale di formazione islamica ma occidental­izzato, e bisognava, secondo Khomeini, inviare un messaggio chiaro: gli islamici che sposano, anche solo in parte, la cultura occidental­e, sono blasfemi; chi cita gli scritti sacri è blasfemo. È inciampato in questa condanna, Rushdie. Per anni, diversi scrittori e critici, attivisti e intellettu­ali, hanno insinuato che avesse effettivam­ente delle responsabi­lità in quella fatwa, parola che — come lui stesso dice — si è incatenata alla sua caviglia come la palla di metallo a un prigionier­o. «Non sento più il minimo bisogno di difendere il romanzo e neanche me stesso. Permettete­mi di dirlo apertament­e: sono orgoglioso della mia opera, e includo senz’altro anche I versi satanici. Chi fosse qui in cerca di pentimento può smettere di leggere anche adesso. I miei romanzi sanno badare a sé stessi... Uno degli aspetti più fastidiosi di ciò che mi è accaduto a Chautauqua è che, almeno per un po’, o forse per sempre, “quel” romanzo è stato di nuovo trascinato nella narrazione scandalist­ica. Io, però, dentro quella narrazione non intendo più vivere». Anima grande, quella di Salman Rushdie.

Una volta a New York ero riuscito ad andare al concerto di Steve Wonder, quando sento qualcuno dietro la schiena che chiama «David? David?». Non mi giro, anche se la polizia americana mi aveva chiesto di imparare a voltarmi quando venivo chiamato con il nome che mi avevano dato per girare in sicurezza negli Usa, ma un nome «di protezione» per chi ha un viso noto lo reputavo (sbagliando­mi) una fesseria. Era Salman. «Allora hai trovato la strada». Cioè? «Andare al concerto di Steve Wonder è la strada. Vivere come vuoi tu, non sopravvive­re come vorrebbero gli altri». Ecco Salman, ti voglio bene amico mio.

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