Corriere della Sera - La Lettura
Andare a tentoni da Zanzibar a qui
Arriva adesso in Italia «L’ultimo dono», pubblicato nel 2011 dal futuro Nobel per la Letteratura Abdulrazak Gurnah. Un corpo a corpo tra la terra d’origine, in Africa, e l’approdo nel Regno Unito. Anche il passato è materiale deperibile e talvolta persino
Nel discorso pronunciato per il conferimento del Nobel per la Letteratura (2021), Abdulrazak Gurnah ha raccontato di essere tornato, molti anni fa, a Zanzibar, nelle stesse strade della città in cui, prima di scappare in Inghilterra, era nato e cresciuto. «Ho visto il degrado delle cose, dei luoghi e delle persone che vivono con la paura di perdere la memoria del passato», ha detto; aggiungendo che, proprio rispetto a questa paura, «è diventato necessario cercare in ogni modo di preservare quella memoria, di scrivere di quello che c’era, di recuperare i momenti e le storie che le persone hanno vissuto e attraverso le quali hanno compreso sé stesse». Sono parole che spiegano bene il progetto e il senso di un’opera complessiva, formata da dieci romanzi, libri di racconti, testi critici pubblicati durante il lavoro accademico presso l’Università di Kent, dove lo scrittore ha insegnato a lungo. Ma quelle frasi preparate per la cerimonia di Stoccolma sembrano valere più che mai per il romanzo L’ultimo dono, del 2011, appena tradotto da Alberto Cristofori per La nave di Teseo.
Il protagonista attorno al quale ruota tutta la vicenda è Abbas, che, quarantatré anni dopo essere arrivato nel Regno Unito, «dileguandosi» dalla terra d’origine, è colpito da un ictus. Questo incidente lo riporta in contatto col passato e con i traumi della prima vita, mai rivelati alla sua famiglia, formata dalla moglie, Maryam, con cui vive a Norwich, e i due figli quasi trentenni, Jamal e Hanna, che stanno a Londra. Due generazioni diverse, quattro mondi di esperienze e di verità che sul punto estremo di un’esistenza vicina al termine ritrovano voce, linguaggio e narrativa. L’ultimo dono, in cinque capitoli, compone il mosaico fatto inevitabilmente di buchi e parti fragili che è la biografia di chi proviene da una storia di diaspora. Eppure la bellezza di impianto e di stile di questo romanzo che parla così tanto di abbandoni, separazioni e perdite riguarda proprio quello che è il caso di definire il lavoro di «rimarginatura» compiuto dalla narrazione e dalla scrittura letteraria. «La Lettura» ha potuto parlarne direttamente con l’autore.
La prima qualità dell’Ultimo dono riguarda la costruzione della vicenda, che comincia dalla fine, cioè dal momento in cui un uomo anziano, a causa di una crisi diabetica, resterà fortemente impedito, per un ictus,
nella capacità di movimento e di parola. Questo particolare inizio narrativo ci fa guardare retrospettivamente a tutta la vita di Abbas e dei suoi famigliari. Al tempo stesso, la scelta di partire dalla conclusione di una vita, per percorrerla a ritroso, smonta anche il modo in cui possiamo considerare un’identità postcoloniale, slegandola cioè dagli stereotipi razziali che di solito la fanno esistere soltanto dentro le storie e gli spazi altrui. Abbas, partito da Zanzibar a diciotto anni, ha trascorso la maggior parte del tempo lontano dal luogo in cui è nato. Eppure questo non fa di lui un uomo inglese — dice l’autore: «Ha vissuto in Inghilterra, fa parte di quel posto, ma non ha mai smesso, con l’immaginazione, di essere altrove». L’idea che ha ispirato L’ultimo dono, continua Gurnah, è venuta molto tempo prima di quando è stato scritto. «Dopo la pubblicazione di Paradiso (1994) il mio nome stava cominciando a essere un po’ più noto come scrittore, e così molte persone sono venute a trovarmi all’università dove insegnavo. Una di loro mi ha raccon
tato che aveva lasciato Zanzibar tanto tempo prima e aveva dimenticato come si parla la lingua swahili. Ne sono rimasto colpito. Come è possibile dimenticare la tua lingua, quella con cui sei cresciuto? In quel momento non potevamo parlare e così ci siamo salutati presto, senza più incontrarci, ma ho continuato a rifletterci, pensando anche ad altre persone che ho conosciuto e sono scomparse».
La costruzione dell’Ultimo dono assomiglia in effetti all’opera di ristrutturazione di una casa abbandonata che rischia di sparire. Provando a fissare alcune parole per capire meglio il senso del libro, potremmo partire da memoria, racconto, malattia. Proprio quest’ultima rompe le abitudini di vita che hanno coperto e reso impercepibili il silenzio e i segreti di Abbas. Da questa interruzione, ha inizio il racconto: fatto di una lingua balbettante, di frammenti e materiali incerti tutti animati da un’urgenza espressiva che si estenderà anche agli altri personaggi. In più, la malattia prende alla lettera e fa esistere il senso di estraneità che Abbas ha sempre provato: «andare a tentoni» è una definizione che ricorre varie volte per indicare il cammino insicuro di chi è abituato a essere trattato con ostilità e senza attenzione.
«Un’altra questione che mi interessava — prosegue Gurnah — era come memoria, segreti e vergogna possono combinarsi nelle vite delle persone, condizionando le relazioni umane. D’altra parte arriva il momento — e arriva, è inevitabile — in cui è necessario rivelare un segreto». Più che una soluzione di intreccio, questo motivo funziona da tema centrale e più originale, perché L’ultimo dono tratta la memoria non come repertorio o contenitore individuale, ma come rete di situazioni sociali, come occasione di entrata in relazione con i ricordi e con le persone che hanno condiviso la tua vita. C’è Maryam, la moglie di Abbas, una darkie, come non ci si imbarazzava a dire, che dopo essere stata abbandonata da neonata è stata poi presa, rifiutata e allevata in cinque famiglie diverse, e con molta fatica, attraverso le rivelazioni del marito, recupera interesse anche per le proprie origini. C’è Haroun, un personaggio incontrato dal figlio di Abbas, che, rimasto vedovo, ha tolto dalle pareti di casa le foto della moglie, perché solo così potrà davvero avere cura della loro memoria («mi rendevano triste e mi costringevano a pensare le cose che mi facevano male»). Anche il passato è, come il corpo, materiale deperibile, o perfino tossico. «Mi interessava lavorare — spiega Gurnah — sulla differenza tra l’atto di ricordare (remembering) e quello di avere memoria (memory). Haroun non vuole guardare le foto, vuole “guardare” la memoria per ricordarsi della moglie. È quello che facciamo quando resistiamo e che volevo fare io stesso quando sono venuto via da Zanzibar, a diciotto anni: non sapevo nulla, però nella mia immaginazione facevo la strada che da casa percorrevo per andare a scuola, con l’intenzione deliberata di ricordare le persone che incontravo, i luoghi. Ricordavo per rimanere vivo. E questo è diverso dalla memoria che viene e va indipendentemente dalla volontà e che può essere anche un regalo, ma altre volte può arrivarti addosso e angosciarti».
Ricordare, dunque, per rimanere attaccati alla vita, come fa Abbas, quando ripensa al fratello, o al padre, uomo di grande durezza, ma restituito alla mente del figlio nel momento in cui era scoppiato a piangere per un asino bastonato. In tal senso, arriviamo anche a uno degli aspetti più belli e significativi del romanzo e che riguarda la maniera di rappresentare le soggettività postcoloniali. Hanna, la figlia di Abbas, a un certo punto regala al padre il Cahier d’un retour au pays natal di Aimé Césaire, ma, si legge, lei stessa si era stufata del linguaggio troppo complicato dell’autore. Evidentemente, è una verità del personaggio di Hanna (che preferisce farsi chiamare Anna); d’altra parte è anche un modo del testo per parlarci di sé, di quanto intenda come plurale, complessa e mutevole l’identità postcoloniale, invece di trattarla come un concetto astratto o sentimentale. Sempre Anna, per esempio, detesta essere tragica perché coloniale. Lei vuole essere inglese, ha un fidanzato inglese (arrogante), ma intanto fa anche un sogno ricorrente: di una casa finita in parte in rovina.
L’ultimo dono, attraverso una famiglia disfunzionale (come la chiama la figlia), dove convivono vite differenti e verità diverse che cercano di ascoltarsi, è un libro che ci procura anche l’esperienza intensa e romanzesca di identità mai raccontate in modo patetico. Non percepiamo le vite dei protagonisti di questo romanzo corale come esistenze esotiche, da osservare attraverso il filtro orientalista di chi, in fondo, resta a proprio agio nel sentimento di una distante superiorità. Anche qui sono preziose le parole dello scrittore: «Il mio interesse per Hanna e Jamal, i figli di Abbas, nasce dall’attenzione a mostrare cosa succede ai figli del colonialismo nell’arco di epoche diverse. Cosa accade alla generazione successiva? Jamal, per esempio, ascoltando la storia del padre è molto curioso, al contrario di Anna che non vuole farne parte. Come si può appartenere alla storia da cui si arriva, e quali alternative si possono avere? Quando ho cominciato a lavorare al libro, intorno al 2007, c’erano stati da poco gli attentati di Londra del 2005, provocati da quattro giovani implicati con il terrorismo islamico. Come si possono cercare scelte diverse? Ho cominciato a scrivere L’ultimo dono anche partendo da qui». Jamal e Hanna sono figli del colonialismo che ci fanno guardare mondi aperti, dove sono possibili altre scelte.