Corriere della Sera - La Lettura

Ho patito la religione che separa

L’ebraismo, l’attivismo, la scrittura: parla Diane Williams, allieva di Philip Roth

- Di ENRICO ROTELLI

Qualcuno la chiama la madrina della flash fiction americana. Oltre a essere l’editor della rivista letteraria «Noon», Diane Williams è infatti una scrittrice nota per i suoi racconti estremamen­te brevi, paragonabi­li forse solo a quelli di Lydia Davis. Ora arriva finalmente anche in Italia con Insomma siete ricchi, raccolta pubblicata da Black Coffee con la traduzione e la prefazione di Chiara Barzini. Ogni racconto ha un rigore proprio che a volte si piega e sorprende con inconvenie­nti e imprevisti. Non sono storie classiche, ma frammenti che letti uno di seguito all’altro sembrano muoversi con un’organicità pari a quella di un essere vivente. «La mia lotta contro le parole defunte su una pagina è quotidiana», racconta Williams a «la Lettura». «Sono alla ricerca di espedienti per spezzare i ritmi e le idee prevedibil­i. Ho l’ansia di rendere onore alle interruzio­ni e agli incidenti, di farne uso, compresi quelli che sono i miei farfugliam­enti privi di logica o quelli di chiunque altro».

Che cosa significa per una scrittrice essere anche editor e fondatrice di una rivista letteraria? cazione. Sono arrivata a pensare che gli editor si stessero divertendo con il proprio potere. Adesso ho imparato come funziona. Allo stesso tempo trovo grandissim­a ispirazion­e nei lavori meraviglio­si che pubblichia­mo. Collaborar­e con un autore per sviluppare effetti più

potenti è un privilegio».

Diane Williams (Chicago, 1946) partecipa a due incontri al Salone del Libro di Torino. Sabato 11, alle ore 16, discute con Irene Graziosi sul tema Come si racconta un istante? presso la Sala Madrid del Centro Congressi. Domenica 12 Williams presenta il suo libro Insomma siete ricchi (Black Coffee) con Chiara Barzini nella Sala Internazio­nale alle ore 16.15

«Significa soffrire quando devo dire di no. Per oltre quarant’anni, ho presentato i miei racconti a riviste grandi e piccole e questo progetto mi ha messo a dura prova, soprattutt­o nei primi anni. Uno dei miei primi racconti è stato presentato a trenta riviste e ci sono voluti più di quattro anni perché trovasse una collo

Il suo stile è talmente conciso che il processo di editing sembra avere un ruolo importanti­ssimo.

«È un’agonia. C’è molta agitazione, rammendatu­ra e caos puro. Una fine diventa un inizio. Una parte centrale diventa un finale. Le parole all’interno di una frase vengono modificate, spostate o rimosse. Man mano che procedo, stampo bozze e le riempio di note. Le cartelline dove conservo i racconti diventano sempre più grosse e impossibil­i da maneggiare».

Come decide la sequenza?

«Mi affido all’intuito. Una volta, però,

ho trasformat­o il compito in un gioco: ho mescolato le storie come se fossero tarocchi o carte da gioco, lasciando che a decidere fosse il destino».

«Oriel», il primo racconto di «Insomma siete ricchi», parte con una famiglia in una stanza colma di luce.

«Quella luce radiosa mi è sembrata la soluzione migliore per un buon inizio. Ho ricordi d’infanzia molto vividi e felici di mia nonna che sorreggeva un vassoio con una torta alta e dorata e diceva: “Ti ho preparato la mia torta di sole!”».

Lei ha studiato con Gordon Lish, editor di Raymond Carver. Qual è la lezione più importante che ha imparato da lui?

«Da lui ho imparato moltissimo, non riuscirei a rendergli giustizia in poche parole. Era interessat­o alla creazione di un oggetto estremamen­te durevole e ben fatto, e profondame­nte coinvolto nella musica del linguaggio. Ci ha spinti a dire la verità in modo sconsidera­to».

E da Philip Roth, suo insegnante all’Università della Pennsylvan­ia?

«Nella classe di Philip Roth ho imparato a conoscere la grande narrativa di Gustave Flaubert, John Cheever e Franz Kafka. Tutto ruotava attorno al soggetto del desiderio, in quel periodo scriveva Lamento di Portnoy».

Dopo gli studi ha iniziato a lavorare alla casa editrice Doubleday. A quel tempo agli uomini venivano affidati i posti di assistente editoriale mentre le donne dovevano prima fare le segretarie. A che punto siamo nella lotta per la parità di diritti?

«Pensavo avessimo fatto molta strada negli Stati Uniti e invece ho il cuore a pezzi. Qui l’involuzion­e è particolar­mente minacciosa e brutale. E ovviamente l’oppression­e delle donne nel mondo è ancora atroce».

Suo padre è stato tra i fondatori di una sinagoga riformata di Highland Park. Ciò non ha impedito al rabbino di rifiutarsi di sposarla perché il suo futuro marito non era ebreo. Qual è il suo rapporto attuale con la religione?

«In quel momento ho perso la fiducia nella fede. Come fa una religione a dividere le persone che si amano? Quando il mio lungo matrimonio è fallito e, a mio avviso, anche il mio essere madre, ho messo tutte le mie convinzion­i di lunga data a dura prova».

Forse il suo racconto più apertament­e politico è «All American», che appare nel suo primissimo libro, e in «The Collected Stories of Diane Williams», inediti in Italia.

«È il mio tentativo di far scattare un allarme. Sì, mio padre ha contribuit­o a fondare una sinagoga, ma era anche un attivista politico, quindi sono cresciuta circondata da persone che intraprend­evano azioni dirette e vigorose. È stato un consulente chiave delle Pugwash Conference­s, che nel 1995 ricevetter­o il Nobel per la Pace. Ha anche istituito il premio per la Pace Albert Einstein, che ha spinto per il disarmo nucleare e la promozione di accordi internazio­nali. Oggi quegli autori di trattati e mediatori di pace ricchi di fantasia dove sono finiti?».

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