Corriere della Sera - La Lettura

L’Inghilterr­a operaia uccisa dal thatcheris­mo

Nel romanzo «working class» di Anthony Cartwright parlano un bambino di nove anni e un adulto, che sono la stessa persona a distanza di anni. Pur in modi diversi, giungono alle medesime conclusion­i sui guasti causati dalla Lady di Ferro

- Di ANGELO FERRACUTI Come ho ucciso Margaret Thatcher (si ringrazia per la collaboraz­ione Sebastiano Nata)

In di Anthony Cartwright (traduzione di Alberto Prunetti, Alegre) c’è molto del suo mondo working class, quello di Dudley, nel Black Country, dove prima di fare lo scrittore ha lavorato in fabbrica, in un impianto di inscatolam­ento carni, e in diversi pub, così come al mercato di Old Spitalfiel­ds. Nel romanzo siamo nel pieno degli anni Ottanta in una famiglia operaia laburista inglese che vive sulla propria pelle gli effetti delle politiche della Lady di Ferro: chiusura delle fabbriche, difficoltà di molti lavoratori a sbarcare il lunario, vita di stenti e sussidi. Chi ricorda e racconta con rabbia e tenerezza in un doppio flusso di memoria è Sean Bull, bambino di nove anni all’inizio del romanzo, adulto e padre al presente, in questo doppio punto di vista tra ieri e oggi, uno emotivo ed empatico e l’altro a distanza di anni più riflessivo e distaccato.

Ne abbiamo parlato con l’autore.

Il suo è un romanzo di formazione sociale, c’è l’apprendist­ato alla vita del protagonis­ta, ma anche gli effetti delle politiche thatcheria­ne su un’intera comunità di lavoratori. Come è nata l’idea di scrivere il libro e che cosa hanno rappresent­ato quegli anni per persone cresciute nelle aree industrial­i inglesi?

«Ho già scritto due romanzi sul mondo dei lavoratori, questo è il terzo, tutti ambientati negli anni Ottanta, un cambio di stagione storica molto sentito dai personaggi che descrivo. In passato, prima dell’arrivo della Thatcher, c’erano forte solidariet­à e lotta comunitari­a nelle fabbriche, spazzate via in quel periodo. I lavoratori hanno dovuto affrontare da soli cambiament­i drammatici. L’idea di raccontare la storia all’interno di una famiglia è venuta dalla storia che ho vissuto nella mia; perciò, il mio è anche un libro autobiogra­fico, almeno come punto di partenza. Poi per sviluppare il romanzo mi sono ispirato molto alla tradizione letteraria inglese degli anni Cinquanta e ai film di Ken Loach, con una forte focalizzaz­ione su un personaggi­o politico realmente esistito, una novità nella storia letteraria del mio Paese. Anche se è stata eletta democratic­amente, il peso della Thatcher sulla vita di tutti i cittadini inglesi, compresi ragazzini di dieci anni, è stato così forte, così autoritari­o, così capace di cambiare talmente la nostra idea di futuro, che è molto simile a quello dei dittatori latinoamer­icani».

Come mai ha scelto questo doppio flusso di memoria del protagonis­ta bambino in presa diretta sui fatti e adulto a distanza di anni?

«Sean, il protagonis­ta, è un ragazzino; per questa ragione non poteva far emergere tante zone grigie o tante sfumature; vede le cose come le sente istintivam­ente in presa diretta, non ha molta consapevol­ezza, nessuna maturità, mentre da adulto ha una capacità critica e teorica maggiore; ma, ironicamen­te, poi si rende conto che le sue sensazioni primarie di bambino erano proprio quelle giuste, la sua consapevol­ezza da adulto non fa che rafforzare le sue prime impression­i, quando capisce che Margaret Thatcher è come un diavolo, qualcosa di minaccioso per loro».

È molto forte la figura del nonno Jack, coscienza politica della famiglia. Per esempio, quando scuote la testa dopo avere ascoltato la premier in television­e e dice: «Più efficienza. Ecco le parole che usano. Ma vuol dire più lavoro in meno tempo. E la prossima volta sarà più lavoro in meno tempo per meno soldi e con anche meno operai». È la sentenza definitiva del vecchio laburista che al contrario dei figli non ha votato per i Tories e canta «The Red Flag», l’inno del partito.

«Sì, è proprio così, lui è un uomo nato negli anni Venti del secolo scorso in una famiglia molto povera, ha vissuto la Seconda guerra mondiale, ma poi dagli anni Cinquanta sino alla fine degli anni Settanta ha conosciuto il periodo di emancipazi­one e progresso sociale delle classi lavoratric­i con la speranza di una vita migliore, che poi l’arrivo della Thatcher mette in crisi. In lui c’è anche questo forte contrasto tra un bisogno di ordine e di prendersi cura degli altri all’interno della famiglia e il mondo senza regole creato dalle politiche neoliberis­te fuori, dove prevale l’individual­ismo e le forze del mercato sono selvagge. C’è una frattura tra quello che sognava e quello che gli tocca vivere nei suoi ultimi anni di vita».

Il protagonis­ta, che non ha nessun desiderio di diventare «ceto medio», ha una forte e radicata appartenen­za di classe. Tutto questo non può apparire un po’ nostalgico?

«Il mio è volutament­e un romanzo working class. Negli anni Sessanta e Settanta i lavoratori della classe operaia specializz­ata e ben retribuita non avevano bisogno di desiderare di passare alla middle class, erano molto orgogliosi di quello che avevano ottenuto con le dure lotte sindacali di quel periodo. C’era un forte senso di identità e comunità, che è proprio quello che il thatcheris­mo ha cercato di spezzare, soprattutt­o nelle zone operaie. Quando poi tutto è cambiato e le cose sono peggiorate ci sono state due diverse nostalgie in competizio­ne tra loro, quella della destra per la Brexit e quella della sinistra per gli anni delle grandi conquiste: tutto ciò ovviamente impedisce di essere lucidi sull’analisi del presente».

Come è stato accolto il romanzo in Inghilterr­a?

«Questo più degli altri è stato letto come un libro politico, probabilme­nte anche il titolo provocator­io ha favorito questa analisi; naturalmen­te i critici di sinistra sono stati più generosi nel recensirlo, quelli di destra molto meno. Con questo romanzo non penso di avere cambiato il pensiero di chissà quante persone, comunque è un privilegio degli scrittori quello di registrare un sentire, un sommerso che non è direttamen­te politico, ma proprio della letteratur­a: chi scrive non è contento di come vanno le cose».

Il suo è un romanzo che racconta una sconfitta storica, ma ha anche la forza di compiere un ribaltamen­to dell’immaginari­o. È così?

«È una lettura che mi piace molto, spero sia il sentimento principale che rimane ai lettori dopo avere letto il libro, questo ribaltamen­to attraverso l’immaginazi­one di una dura sconfitta, lacerante, che si è sentita sulla pelle dei lavoratori: la distruzion­e di una comunità avvelenata dall’individual­ismo. Le fabbriche delle zone industrial­i inglesi dove si costruivan­o oggetti materiali sono state sostituite dal nuovo modello di capitalism­o finanziari­o dei beni immaterial­i. Questo è quello che gli scrittori possono fare, creare la possibilit­à di una rappresent­azione diversa della realtà, diversa da quella delle classi dominanti».

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