Corriere della Sera - La Lettura
I casinò del Nevada per l’addio di Enea
Si congeda dalla scrittura con l’ultima avventura del suo Danny Ryan, esplicitamente ispirato all’eroe virgiliano. Stavolta il protagonista sogna di diventare il re di Las Vegas. Ma c’è troppo passato in lui e intorno a lui
Dopo Città in fiamme e Città di sogni, tornano con Città in rovine Don Winslow e Danny Ryan, il protagonista della trilogia che chiude la carriera del grande romanziere americano. Dopo averci raccontato in oltre venti romanzi la guerra dei narcos, la corruzione, l’America, infinite morti e infinite rinascite, Winslow si ritira: si dedicherà a tempo pieno alla sua missione di attivista anti Trump. Non c’è tempo, dice, bisogna agire.
Ma scrivere non vuol dire agire? Noi speriamo che Winslow continui a combattere sulla carta e sul campo, come ha sempre fatto: denunciando. Se questo fosse davvero l’ultimo capitolo, però, si tratterebbe di un finale all’altezza della sua storia di scrittore: «L’edificio sembra scosso da un brivido, come un animale ferito, poi resta perfettamente immobile per un istante, come se non riuscisse ad accettare la morte, quindi collassa su sé stesso. Tutto quello che resta, al posto del vecchio casinò, è una torre di polvere che s’innalza nell’aria».
La trilogia che ha raccontato le sottotrame criminali di un decennio americano — dalla fine degli anni Ottanta alla fine degli anni Novanta — ruota intorno a Danny Ryan, un gangster che tenta di ripulirsi dal proprio passato e costruire qualcosa di buono con sua madre Madeleine e suo figlio Ian. Danny ha creato e perso tutto tantissime volte, ma spera ancora: «Le persone danneggiate sono pericolose. Sanno di poter sopravvivere», come scrive Josephine Hart nel romanzo Il danno. Questo fa Danny, per tutta la storia: cerca di sopravvivere, di vivere, e perfino di essere felice con chi ama.
Il riferimento dichiarato è l’Eneide. Nel primo atto Danny fuggiva come Enea da una città in fiamme, la sua città: Troia come il Rhode Island, caricandosi sulle spalle Anchise — il padre affetto da demenza senile — e Ascanio — il figlioletto Ian — oltre a diversi milioni di dollari rubati ai cartelli.
Nel secondo era un esule che si illudeva di aver trovato il suo posto nel mondo a Hollywood — una peccaminosa Cartagine — con Diane, una tragica Didone che si toglieva la vita dopo che lui l’aveva lasciata per ordine di quello che, nella visione di Winslow, deve essere il corrispondente contemporaneo di Zeus: un boss della malavita, il dio più potente di quel contorto Olimpo.
Nel terzo e ultimo capitolo, come Enea, Danny costruisce un impero nel deserto, a Las Vegas. E come nell’Eneide è una Lavinia — inanimata, stavolta: un casinò — l’oggetto del desiderio. Danny vuole comprarlo sottraendolo al rivale Vern — un geniale ingegnere con il viso e l’ego scavati dall’acne — per poter realizzare il suo sogno: diventare il re della Strip, lo stradone che domina Las Vegas, in Nevada. Lo vuole, il Lavinia, per poterlo abbattere e costruirci sopra il Sogno (in italiano), un albergo avveniristico e praticamente impossibile da realizzare, ma, soprattutto, lo vuole «perché il denaro è potere e il potere è sicurezza. E non sei mai abbastanza al sicuro. Non in questo mondo».
Ma è chiaramente un’utopia. Winslow non si sforza nemmeno di nasconderlo. Anzi, vuole che sia tragicamente chiaro che Danny Ryan farà dieci passi verso l’orizzonte solo per trovarselo dieci, o forse cento, passi più lontano.
Ma se il riferimento dichiarato di Winslow, l’Eneide, era stato voluto da Augusto per legittimare la storia romana, l’epica di Winslow ci mostra come ogni grande sogno americano sia stato costruito sul sangue e sia destinato a spegnersi nella polvere. Come nella trilogia de Il padrino, anche Danny sul finale della sua storia cerca la propria legittimazione, la scorciatoia per rimanere ai vertici, ricco, potente e rispettato, senza rischiare di finire in prigione o di morire ammazzato o, peggio, di piangere al funerale di una persona cara (in Winslow niente è mai romantico come un funerale: nessuna coppia può condividere una gioia, ma quelle che sopravvivono possono condividere un dolore). Il suo sogno si scontra, però, con l’ineluttabile realtà del suo passato, che come un serpente spunta dalle dune del deserto e rivela le fondamenta insanguinate dell’impero. Sottoterra, eppure presenti, reperti scomodi che potrebbero riaffiorare con un semplice scavo, perché Città in rovine è un romanzo di archeologie, in cui tutti possono scavare nel passato di tutti e tutti sanno «maneggiare una pala».
Winslow si prende il suo tempo, riempie con perizia il caricatore di tutte le pistole che prima o poi spareranno, trasformando una bega immobiliare in una storia inevitabile di sangue: non si può tornare indietro, una volta superati certi confini. Mentre regna una pace apparente, la scrittura tesa, scarna, ritmata lascia che il lettore percepisca in sottofondo il rumore di una locomotiva, di un ingranaggio pesante e perfetto che inizia ad attivarsi soffiando. Il cigolio delle bielle che prendono velocità prima di portarci verso una destinazione obbligata. Quando si arriva alla fine ci si sorprende della grazia — in mezzo a tutto questo sangue — del viaggio. Appare con lampante luminosità la verità: i personaggi sono stati coraggiosi o codardi, hanno amato o disprezzato, hanno ammazzato senza pietà o sono scampati alla morte per un pelo: ma il finale che ci spetta, anche se non lo sapevamo — è questa la grandezza di Winslow — era ineluttabile sin dalle prime righe.
«Gli addii sono difficili», scrive il grande romanziere nei ringraziamenti del suo ultimo libro. «Dopo una lunga e meravigliosa carriera — molto più bella di quanto avessi mai sognato — posso solo dire un semplice e sincero “grazie” a tutti voi». Grazie mille anche a te, Don. E che non sia davvero un addio.
Come un poema Nel giro di tre volumi prima Danny fugge da una città in fiamme, poi si ritrova esule, quindi fonda un impero