Corriere della Sera - La Lettura
Il divorzio tra news e social media
Ben Smith (una vita a occuparsi di informazione: «New York Times», «BuzzFeed», «Semafor») ha scritto un saggio su come cambia il giornalismo. Lo abbiamo incontrato. «Servono marchi di fiducia nell’era dell’Intelligenza artificiale»
Ben Smith manda un messaggio alla moglie, mentre parliamo nel suo salotto di Brooklyn: «Una giornalista italiana mi sta intervistando e mi ha chiesto del tuo telaio» (la moglie, Liena Zagare, è una tessitrice e un grande telaio campeggia al centro della stanza). Solo che poco dopo si rende conto di aver mandato quel messaggio al gruppo WhatsApp dei vicini di casa, anziché alla moglie, e imbarazzato si affretta a cancellarlo. Succede anche a Ben Smith, uno che ha passato tutta la vita a innovare la comunicazione.
Smith lanciò il primo blog politico di New York nel 2004, quand’ancora erano strumenti amatoriali. Il sito «Politico», uno dei primi a usarli come strumenti giornalistici, lo reclutò per le elezioni presidenziali del 2008. Era un’epoca in cui tutti divennero ossessionati dai blog («Se ti allontanavi per poche ore ti scrivevano: “Stai bene?”»), ma nel 2010-2011 «non solo il traffico, ma l’energia, i commenti, le fonti si erano spostati su Twitter. Se nel 2008 il web era nuovo, nel 2012 era vecchio. Il social web era nuovo». Nel 2012 Smith iniziò a dirigere «BuzzFeed»: l’amministratore delegato Jonah Peretti argomentava che, nel passaggio al social web, «Twitter e Facebook erano la nuova homepage» e, con un team giornalistico eccellente, bisognava occuparsi di cose che erano sui social. In seguito Smith ha scritto una rubrica di media per il «New York Times» («Uno strano lavoro in un settore in cui tutti si conoscono: è come dare un pugno in faccia a un tuo amico una volta alla settimana...»). Nel 2022 ha co-fondato «Semafor», testata interessata a un panorama globale e non solo americano. Ha scritto Traffic. La corsa ai clic e la trasformazione del giornalismo contemporaneo, edito in Italia da Altrecose (marchio editoriale frutto dell’alleanza di Iperborea e Il Post) nel 2020, quando sentiva che «era finito un periodo di brusco cambiamento, dalla carta stampata al digitale e ai social. E potevo scriverne con un inizio e una fine».
I protagonisti del libro sono soprattutto due imprenditori di internet: Nick Denton del blog «Gawker» e Jonah Peretti di «BuzzFeed» e «Huffington Post». Perché?
«C’erano diverse figure influenti ma loro capirono che era una tecnologia trasformativa del business e della politica, senza essere primariamente imprenditori: avevano visioni per i media e la società — visioni opposte — ed erano ossessionati l’uno dall’altro e in competizione. Jonah veniva dalla tradizione solare californiana che vedeva internet in modo molto utopistico: avrebbe dato voce a chi non aveva voce, connesso gli individui, e i social media in quanto pubblici avrebbero tirato fuori il meglio delle persone. Non è andata così, ma lo si pensava nel 2008, nel 2010, nel 2012. Nick credeva che media e politica americana fossero profondamente disonesti, pieni di bugie e di ipocrisia e che internet fosse un modo per strappare la maschera, mostrare le verità più oscure».
All’epoca i blogger di destra e di sinistra non erano nemici, ma accomunati dall’opposizione ai media tradizionali?
«Oggi è quasi impossibile capirlo, ma sentivano di avere più in comune tra loro che con i rispettivi alleati nell’establishment. Adesso sono diventati l’establishment, e c’è stata una ripolarizzazione: da una parte le persone che pensano che si devono preservare le istituzioni, dall’altra quelle che vorrebbero raderle al suolo...».
Quali sono le sfide dei media oggi?
«È un ambiente molto frammentario. Quand’ero a “BuzzFeed” c’era un tabellone segnapunti: Twitter. Chi vince oggi? Quasi sempre il “New York Times”, ma qualche volta “BuzzFeed” ed era incredibile. Adesso diverse pubblicazioni fanno cose diverse, le audience non passano dalla stessa piattaforma. L’homepage, che nel 2012 credevo totalmente morta, è significativa, anche se il canale principale per raggiungere il tuo pubblico è l’email, che peraltro è piuttosto simile alla carta stampata».
Dopo gli anni dell’ottimismo di Obama, che cosa è successo?
«Non penso che la tecnologia determini la politica o viceversa, ma quel primo periodo dei social, di Facebook in particolare, coincise con un attivismo giovanile che rese Obama un candidato straordinariamente efficace e con altri esempi nel mondo. Allo stesso tempo, il modo in cui funzionava il coinvolgimento e in cui poteva essere ottimizzato era divisivo. Lo vedemmo con “BuzzFeed” su cose non politiche: il colore di un vestito che ad alcuni sembrava blu, ad altri nero, era letteralmente divisivo, la gente ne dibatteva animatamente, e il sistema di Facebook lo vedeva come coinvolgimento. Trump, ma anche Bolsonaro e Boris Johnson, hanno sviluppato uno stile politico di destra che consiste nel dire qualcosa di scandaloso, sessista o razzista in modo che l’establishment lo respinga e le persone rifiutate dall’establishment vedano lì la prova che sei dalla loro parte: uomo del popolo anche se hai miliardi o hai studiato a Oxford. Non penso che quello stile di populismo di destra sia stato costruito per Facebook o che sia un prodotto di Facebook. Ma funzionava anche su Facebook. Qualcuno pensa che Trump fosse una creatura dei social, ma non è su Facebook e Twitter da tre anni e mezzo, e i sondaggi non sono cambiati. Sono stati parte della sua ascesa, ma solo parte di essa».
Molto è cambiato con Elon Musk.
«Prima c’era un matrimonio tra news e social media, ora è un divorzio. Ma è anche un’opportunità per gli editori: offrire marchi di fiducia nell’era dei deepfake e dell’Intelligenza artificiale...».
In Italia questi cambiamenti da carta a digitale e social sono stati più lenti.
«Può essere un bene. Il “New York Times” è andato online 10 anni prima che ci fosse il modo per fare soldi su web, ha dato tutto gratis per 10 anni, un disastro».