Corriere della Sera - La Lettura
Una donna, due amori e la Cina nell’anarchia
Ambientato nel caos sociale e politico d’inizio Novecento, il nuovo romanzo di ha una protagonista dai doppi legami sentimentali e ruota intorno alla ricerca della «città che non c’è». «È l’umanità che funziona così», dice l’autore
C’è un uomo che compare dal nulla con una bimba in braccio, nella Cina alla fine della dinastia Qing e della Repubblica (1912). Vedremo poi che a comparire dal nulla, nella vita di quell’uomo, erano stati una donna e un altro uomo. Legami, affetti e una geografia impossibile avvolgono il nuovo romanzo di uno dei maestri della narrativa cinese d’oggi, La città che non c’è: con una trama turbinosa e una prosa screziata, Yu Hua interroga le geometrie universalmente variabili dei sentimenti e dei desideri. «Gli eventi rappresentano sia il caos in cui versava la Cina ai primi del Novecento sia la società d’allor, certo, ma il fulcro del racconto è la rappresentazione dell’umanità nel senso più ampio. Che è il vero fine della letteratura», spiega Yu.
Xiaomei, la protagonista femminile, è il perno di una storia tutta doppia: la narrazione in due parti, il nord e il sud, i due mariti. Questa struttura è un omaggio alla capacità della donna di conciliare gli opposti e dare equilibrio?
«È il personaggio più complesso, Xiaomei. Sarebbe stato facile dipingerla in modo negativo, era molto più difficile descriverla in una luce positiva. Una donna piena di contraddizioni, attratta da due estremi. Mi sono sforzato di capirla, e comprendere la natura umana significa comprendere anche la società. Xiaomei incarna entrambe le cose. Non è stata costretta a compiere certe azioni: no, ha agito di sua volontà. Ma la società agisce sulla sua natura. Xiaomei è calata nel contesto sociale dell’epoca, le sue reazioni emotive e i comportamenti non sono svincolati, e questa è la sua tragedia: è spaccata a metà, una scissione non volontaria. S’innamora di due uomini contemporaneamente: quando è con Lin Xiangfu pensa a Qiang, quando è con Qiang pensa a Lin Xiangfu e alla figlia, e non trova pace».
Lei scrive: «Le donne si mostravano
più calme e reattive degli uomini nell’affrontare la situazione». E che era «un’epoca in cui vigeva la supremazia del maschio e le donne erano considerate inferiori». Come va in Cina oggi?
«La Cina aveva raggiunto la parità di genere già all’epoca di Mao Zedong, e la posizione della donna è rimasta invariata. Nelle città, poi, il femminismo è diffuso, specie tra gli intellettuali. Se si utilizzano termini offensivi verso un uomo, al massimo si riceverà una risposta personale da parte sua. Ma, se ci si rivolge a una donna, è probabile che si riceverà una reazione da parte della collettività, che include parecchi uomini. Tuttavia abbiamo un problema reale: gli uomini godono di un vantaggio evidente nel mondo dell’occupazione. I datori di lavoro preferiscono assumere uomini perché temono che, una volta sposate e con figli, le donne si dedicheranno più alla famiglia che al lavoro. È una visione errata che deriva da un modello di pensiero tradizionale. In effetti, tante donne eccellono nel lavoro anche dopo il matrimonio e i figli».
Un falegname nel libro dice: «Non si poteva fare una distinzione tra mansioni nobili e meno nobili». Nella frase va letta la sua inquietudine per i giovani in difficoltà nel mondo del lavoro in Cina?
«Ho scritto di recente un articolo per “The Economist” sull’occupazione giovanile in Cina. L’economia rallenta, tante
L’autore I titoli di Yu Hua (Hangzhou, 1960; qui sopra) sono oggi pubblicati da Feltrinelli, che ha proposto tra l’altro Il settimo giorno (2017). Per Unicopli sono invece uscite le Lezioni milanesi (2020) Gli appuntamenti Yu Hua è al Salone domenica 12: alle 11.45 con Silvia Pozzi (che ha tradotto le risposte di Yu di questa intervista) e Ilide Carmignani (Sala Berlino); alle 17.30 con Stefania Stafutti (Sala Bianca). Yu sarà poi a Milano lunedì 13 con Bettina Mottura alla Fondazione Feltrinelli (ore 19). Murata Sayaka al Salone parla di Parti e omicidi (Edizioni e/o) domenica 12 con Irene Graziosi (Sala Bianca, 16.15) L’immagine Tabita Rezaire (1989), Satellite Devotion (2019), in mostra fino al 2 giugno alle Ogr di Torino per A view from Above nell’ambito di Exposed Torino Foto Festival aziende private chiudono, dunque i giovani ora non cercano necessariamente impieghi ben retribuiti, ma sicuri e stabili. Un lavoro ben pagato può rivelarsi instabile: buoni stipendi oggi che però domani potrebbero non esserci più. Quindi un posto sicuro vale di più. Questi lavori spesso vengono offerti da enti governativi o aziende statali. Nei tre anni di pandemia le misure di isolamento hanno comportato la perdita di introiti per molte persone senza un impiego garantito, mentre chi ne aveva uno non è stato colpito. Questo ha rafforzato il desiderio dei giovani di trovare un posto fisso».
E come sta la Cina oggi?
«Dopo oltre trent’anni di sviluppo vertiginoso, l’economia cinese attraversa un periodo di svolta e una dolorosa trasformazione. Il vecchio modello di crescita non è più sostenibile e richiede altri approcci. Il nuovo modello è già emerso, con l’impulso a settori quali auto elettriche, batterie al litio ed energia solare che occupano posizioni di leadership a livello mondiale. Eppure le nuove industrie emergenti, sebbene in rapida crescita, non bastano a risolvere il problema della disoccupazione su larga scala in Cina. I giovani, specie i laureati, si trovano di fronte a gravi difficoltà di impiego. I dati economici del primo trimestre sono positivi, ma resta da vedere se questa tendenza continuerà nel lungo termine».
I suoi libri hanno ambientazioni diverse. E il passato per certi autori è un modo per stare alla larga da temi sensibili. Perché ha scelto quel periodo?
«Iniziai a lavorare al romanzo più di vent’anni fa, continuando a scrivere in modo intermittente fino al settembre del 2020, quando infine l’ho chiuso. In Cina è uscito nel marzo 2021. Quest’opera ha compiuto il mio desiderio di scrivere sulla Cina del secolo scorso. Ho realizzato questo desiderio non con un solo romanzo, ma accostando vari romanzi. La città che non c’è ritrae la Cina durante un’epoca storica che non avevo esplorato prima. Il mio editore cinese ha creato un cofanetto con La città che non c’è, Vivere!, Brothers e Il settimo giorno che ha pubblicizzato così: “Leggi i 4 romanzi di Yu Hua per scoprire un secolo di Cina”. Il cofanetto ha avuto un discreto successo tra i lettori giovani e ottime vendite».
Dobbiamo vedere Wencheng, la «città inventata» che era «la spina nel fianco di Xiaomei, il simbolo del viaggio senza ritorno di Lin Xiangfu e della figlia», come la spinta e l’obiettivo segreto di ciascuno di noi?
«Se i personaggi maschili sono il respiro dell’opera, Xiaomei è il suo cuore pulsante. Senza di lei, non ci sarebbe il romanzo. Un lettore cinese ha scritto un commento perfetto del libro: “C’è una Wencheng nel cuore di ciascuno di noi”. Xiaomei incarna elementi che provengono direttamente dall’autore. Forse soltanto in un periodo come questo del romanzo Xiaomei avrebbe potuto affrontare una situazione così difficile con due uomini. Ho colto l’occasione per delineare il personaggio. Se una situazione simile a quella di Xiaomei si verificasse oggi, per lei non sarebbe così complicata».
Ci sono descrizioni molto vivide di ferite, torture, malattie: un’attenzione alla fragilità del corpo. C’entra il fatto che lei abbia lavorato come dentista?
«Sì, credo sia legato alla mia esperienza come dentista: tutti siamo plasmati dalla vita che abbiamo fatto».
Colpisce questo passaggio: «Nelle democrazie, i presidenti ruotano come le immagini delle lanterne magiche... non sapremo più chi ci governa”». È frutto delle sue riflessioni sugli scenari politici del suo e dei nostri Paesi?
«È la parte della storia che ho sempre voluto scrivere: dopo il crollo della dinastia Qing e la nascita della repubblica, la società cinese si trovò in una fase di anarchia. Un periodo che ha avuto un ruolo decisivo nel futuro del Paese: il comunismo entrò in Cina durante questa fase».