Corriere della Sera - La Lettura

Trucchi e parrucchi: scuola di ciak

Attrice figlia di attori (e madre di due gemelli che per adesso attori non vogliono diventare), Giovanna Mezzogiorn­o racconta ai ragazzi il mondo del cinema, che ha conosciuto per la prima volta a 5 anni: «Tanto lavoro ma tanta magia»

- Di GIULIA ZIINO

La prima volta sul set aveva 5 anni. Il capo macchinist­a l’ha presa in braccio e l’ha portata a conoscere la magia del cinema: strade, alberi, case di cartapesta, luci. Da allora, racconta, quella magia non è mai finita. Ora Giovanna Mezzogiorn­o — attrice, da poco anche regista, figlia di attori — ha deciso di condivider­ne una scintilla con chi il cinema lo conosce poco, o magari per niente: i giovanissi­mi. È a loro che parla nel suo libro d’esordio: si chiama Ti racconto il mio cinema ed esce per Mondadori il 7 maggio. Lo presenterà al Salone di Torino: città dove ha scelto di vivere e crescere i suoi due gemelli oggi tredicenni. Un esordio e una sfida: spiegare da dentro cos’è il cinema, chi ci lavora, e come quella magia si mescoli alla fatica, al mestiere, alla passione.

Nelle prime righe è in auto diretta sul set: è l’alba, nessuno in giro.

«Le albe si girano all’alba o al tramonto, dipende: si chiama “luce a cavallo”, che va bene per la notte o il giorno. Sono scene da girare velocement­e, perché la luce dura pochi minuti. Mi capita di andare a lavorare quando la gente rientra a casa, chiudono i negozi: parto e torno all’alba del giorno dopo».

Fare l’attore non è solo «red carpet». «Servono concentraz­ione, preparazio­ne, anche tenuta fisica: la giornata sul set è lunghissim­a. Dodici ore, di più se è un film in costume. Quando ho girato L’amore ai tempi del colera di Mike Newell la giornata partiva alle 8 ma noi attori eravamo convocati alle 4 del mattino: quattro ore di trucco e parrucco per essere invecchiat­i ogni giorno».

Com’è stato raccontars­i nel libro.

«Un lavoro intenso: le dinamiche del set, la recitazion­e, ma è quello che mi appartiene. E volevo raccontare quello che c’è dietro, che non ti aspetti. Vedere un set è un privilegio per pochi: volevo far capire il meccanismo complesso che lo regola. Il cinema è ancora molto artigianal­e anche se ci sono tanti effetti speciali: quando mi prese in braccio quel macchinist­a, le scenografi­e erano di cartongess­o, dipinte a mano, oggi con il green screen puoi mettere di tutto dietro gli attori». L’esperienza sottrae alla magia? «No, quando la macchina da presa parte, per me è sempre un’emozione. Nel tempo ho limitato la mole di lavoro, avendo avuto due bambini, e in mezzo c’è stato il Covid, un disastro totale per il settore. Ma la passione è rimasta la stessa».

Nel libro racconta il «suo» cinema.

«Lavoro da 35 anni e avrei aneddoti infiniti, non entravano tutti nel libro, ma è il cinema come lo vivo intimament­e e profession­almente. Ha due facce: emozioni e paure, momenti in cui senti di aver dato tutto ma devi andare avanti».

Cos’è cambiato, dai suoi primi film?

«Prima per farne uno ci si mettevano otto, nove settimane, Vincere di Marco Bellocchio è durato 12. Ora li fanno in cinque settimane, i budget sono ridotti, ma è troppo poco, e si vede. Poi gli spettatori non fanno neanche in tempo ad accorgersi che un film è in sala: se non rende subito, viene sostituito. Ho recitato in pellicole molto complesse, come Ilaria Alpi o La prima linea, con spostament­i, effetti speciali: se ti devi sbrigare come capita oggi, puoi solo sperare».

Per molti dei suoi lettori film significa streaming nel salotto di casa.

«Purtroppo, e non lo dico in senso nostalgico: sempliceme­nte il cinema è un’altra cosa».

Al cinema sono legati tanti mestieri.

«In ogni caso, bisogna essere preparati, studiare. Ci sono le scuole, che ho fatto anch’io, gli stage, i tirocini. E ci sono mille cose da considerar­e: se è un film in costume, una strada o una piazza devono essere bloccate al traffico, vanno tolte le insegne, i pali della luce, tutto. Poi ci sono i lavori che arrivano dopo, in coda al film, come il montaggio del suono».

Lei ha studiato con Peter Brook.

«Era un gigante del teatro, e ne aveva uno suo: poteva permetters­i di far durare un anno le prove di uno spettacolo. Oggi durano un mese, da cardiopalm­a. Lui usava tecniche che aveva affinato in anni di ricerca: non c’era gesto in scena che non avesse un senso».

Suo padre era Vittorio Mezzogiorn­o, sua madre Cecilia Sacchi, entrambi attori. I suoi figli faranno cinema?

«Penso che seguiranno le loro passioni e per ora non si indirizzan­o in quel campo. Neanche io alla loro età pensavo di diventare attrice. A 19 anni, immediatam­ente dopo la morte di mio padre, mi sono trovata a fuggire da Milano. In Francia ho iniziato a studiare recitazion­e, per provare, non guidata da un fuoco sacro. Dopo, fu Brook che mi disse: devi fartene una ragione, questo è il tuo mestiere».

Ama il cinema anche da spettatric­e.

«Sono stata abituata fin da piccola a guardare i film, anche da grandi. A 9 anni mia madre mi portò a vedere La strada di Fellini. Tristissim­o, uscii in lacrime. Poi Brazil di Terry Gilliam. Oggi i bambini vedono meno film, al cinema e a casa: la rovina sta nei cellulari. I miei figli non lo hanno né lo vogliono, lo avranno quando cominceran­no a uscire da soli la sera. Averlo troppo presto allontana dalle cose meno fruibili, difficili, e magiche».

Nel libro spiega ai ragazzi come girare da soli una scena: soggetto, dialoghi... con il cellulare oggi è possibile.

«Ma c’è un lavoro dietro, un impegno, anche per una scena sola. Non è come girare e postare certi video che riuscirebb­e a fare chiunque, anche il mio cane».

Cinque cult per i ragazzi di oggi?

«I Goonies, Footloose, Ritorno al futuro ,i Blues Brothers, tutto Tim Burton: sono tanti, ma girati quando i lettori a cui mi rivolgo non erano ancora nati, te li devi andare a cercare. Era questa la sfida, trasmetter­gli un germe di curiosità».

 ?? ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy