Corriere della Sera - La Lettura
La ciurma dei bengalesi a bordo dell’aula-mondo
Parte dalle sue rubriche giornalistiche per dilatarle in forma di volume. Emerge un universo umano visto attraverso città conosciute o solo sognate: a ciascuno la sua
Da rubrica a libro: questa la genesi di Le città del mondo di Eraldo Affinati. Una rubrica quotidiana, Nelle città del mondo, sulla prima pagina del quotidiano «Avvenire» dal 1° aprile al 30 giugno 2023, con una precisa misura: 1.250 battute, pari a 77 «medaglioni» di città. Con una precisa cornice: da Roma (Quel lampo ) a Roma ( La prima volta). Una cornice raddoppiata nel volume, che si presenta strutturato in tre parti: «le città conosciute», «le città sognate», «le città inventate», ciascuna suddivisa al proprio interno in quattro sezioni introdotte da un corsivo introduttivo-riflessivo, in forma di poesia, e così composte: la prima di 30, 31, 29, 10 città; le due altre di 30, 30, 30 e 10. Il tutto nel rispetto della successione dei testi pubblicati sul giornale, qui collocati nella prima parte, salvo che per Roma. La prima volta, posta a chiudere la prima sezione. Una cornice valida anche per l’intero volume, incontrando quale ultimo medaglione, al termine della terza sezione, il palindromo Amor. Lo statuto della temperatura: a ribadire quell’«invento le città trasfigurando quella in cui vivo». E con una sorpresa: perché il medaglione originariamente pubblicato su «Avvenire» del 26 aprile, Un gatto e clic (sostituito nella prima sezione da uno nuovo: Kiel. America denaturata) diviene il paragrafo iniziale di Epilogo a Gerusalemme, che funge da specchio al Prologo a New York.
Trecento personalissimi medaglioni, dunque. Di città «che ho conosciuto e nelle quali, come scrisse il poeta, mi sono rimescolato»; città «che ho sognato senza esserci mai stato, almeno finora, dove magari andrò in futuro, a partire da adesso, oppure non mi recherò mai, lasciandole per sempre così, come effigi interiori»; di «santuari fantastici» delle «città inventate», con nomi quali Conix, Anima mia, Romito, Fulgor, Bellum (questa: «Una specie di ingorgo fantastico tra ciò che questa città ha rappresentato nei secoli addietro e quello che io vorrei fosse oggi, qui ed ora: catena di trasmissione fra storia e cultura, morte e vita, il calore animale del mio respiro affannato e il sorriso cieco degli studenti che, appena usciti da scuola, corrono verso casa»). Città «scaglie del mio inconscio/ resti di esperienze/ ancora grezze/ dettagli di un tramonto […]/ interstizi fra giorno e notte». Dove, poi, proprio questo «interstizi» svela la posizione dell’io nel riattraversamento, sottolineato da espressioni quali «non è ancora-ma non è più; eppure; tuttavia; inseriti ma estranei», nelle quali lo sguardo speculare dell’autore rileva situazioni che si offrono, o che sono colte, nelle loro «contraddizioni» o nel loro «perpetuo doppio senso», quando non proprio di «attesa», di «intermezzo, la parentesi che non si chiude»; con sì immagini e verbi di sottrazione, i quali però poi rinviano da un lato, attraverso la
Crocifissione di Matthias Grünewald vista a Colmar, alla speranza; e dall’altro, proprio negli incontri, a una ricchezza lemmatica fatta di «ancòra; sempre; verso; insieme» che si deposita su un mondo di occhi e di sguardi che si aprono a sorrisi, nella tensione a «trovare il modo di vivere insieme» nel «rispettare l’uno il mondo dell’altro».
Città soprattutto di incontri. Coi suoi amori letterari e pittorici (su tutti Mario Rigoni Stern e il Tiepolo: ma il catalogo è ricchissimo). Col proprio passato: e qui tocca alla scrittura «far vedere i fantasmi» di quella «mia infanzia e adolescenza» «selvatica», della «mia stralunata giovinezza»; di quel nonno Alfredo partigiano della Garibaldi massacrato dei fascisti e della madre che a Udine riesce a fuggire dal treno della deportazione; del suo girovagare per l’Italia coi genitori venditori ambulanti. Ma soprattutto incontri coi tanti ragazzi della Città dei ragazzi, ai quali «insegniamo gratis questa nostra strana lingua, lo facciamo qui nel vero confine, per ritrovare noi stessi insieme a voi».
Insomma: incontri con la vita. Ossia quell’«eterna divaricazione fra realtà ultima, fuori dalla portata umana, imperscrutabile, inconoscibile, e penultima, dove regna il legno storto dell’umanità e tutti, oltre la nostra volontà, siamo destinati a vivere»; quella «realtà ultima di cui nulla possiamo dire, e penultima, dove siamo noi, nella quale dobbiamo prendere posizione».
E, attraverso i ragazzi, con sé stesso: con quanto ne viene di interrogazione e verifica sulle proprie scelte di vita. Con i ragazzi stessi a fungere da guida, da lui richiamati nel suo impersonarsi, oltre che in figure anche animali e vegetali, nello «schiavo incaricato di dare lezioni ai figli del mio signore»; in «Gordon Pascià», al quale però «è stato Ibrahim, silenzioso, triste, concentrato, a mostrarmi Khartum sulla Tiburtina come probabilmente appare oggi»; nella immigrata dalla Nigeria con un figlio, concepito in Africa ma nato in Canada, alla ricerca di un mondo nuovo addetta alle pulizie, a Toronto; ma pure sognando Il Cairo nello «sguardo elettrico» del giovane Arabi; Algeri «parlando con Assia»; Dacca guidando «la ciurma allegra ma composta dei miei studenti bengalesi».
Perché questo Le città del mondo è assai più di un mappamondo, fatto roteare dall’esterno. È un universo umano, prima che geografico, che esplode dall’interno di un’«aula-mondo» senza classi, nella quale una «babele multietnica» dà vita a una babele linguistica che lievita in un «mondo-aula». Spettando poi alla scrittura di Affinati tradurre il tutto in immagini e suoni; e però abdicando a «presunte/ illuminazioni liriche»; affidandosi a quella «pulsione istintiva» «nel mio caso plasmata dalla forma sintattica/ filtrata dalle scelte lessicali e dal ritmo/ come fanno loro»