Corriere della Sera - La Lettura

Né Pakistan né Italia: la patria è l’abbraccio

In un romanzo che in realtà è soprattutt­o un memoir, Saif ur Rehman Raja rivisita la conquista della propria identità (o mancata identità). Con lieto fine

- Di CARMEN PELLEGRINO

Toccare il vero nome delle cose. Tentare di contraddir­e le peggiori tautologie che, orientando il modo di vivere, pretendono di definire anche i confini del cuore, rendendo faticoso, se non impossibil­e, l’esplicarsi della vita stessa. Fa questo Saif ur Rehman Raja, alla prova del suo esordio in narrativa. Una prova difficile, che tiene insieme il suo passato e il presente, il Pakistan dov’è nato e l’Italia dove vive, i tabù di genere, il razzismo, la violenza, la rabbia, la speranza infine.

Una prova narrativa riuscita. Toccare — non leggerment­e — il nome delle cose, a partire da quello assegnato alla nascita, nome mai correttame­nte pronunciat­o in Italia: si scrive Saif ma si pronuncia Sef, non si stanca di ripetere la voce narrante che coincide senza sotterfugi con quella dell’autore. Nel libro fanno la loro comparsa i ricordi secondo un lineare andamento cronologic­o: siamo nel campo dell’autobiogra­fia, ma c’è qualcosa di più. Nelle 224 pagine — numerate anche in arabo — a prendere la parola per farsi voce non è solo un ragazzo trasferito­si in Italia a 11 anni, dopo un’infanzia trascorsa in Pakistan tra sacre spezie e strade affollate e accaldate, ma intere generazion­i di «bastardi», costretti a quella condizione di doppia assenza di cui ha scritto Abdelmalek Sayad: a sentirsi «fuori luogo» nella terra di approdo, come nella terra d’origine dopo la partenza.

Nato a Rawalpindi nel 1994, Saif ur Rehman Raja sospetta presto di non essere conforme a quanto ci si aspetta dal primogenit­o di una famiglia musulmana. Scopre che è bello cucinare con sua madre, imparare i misteri delle spezie, ballare, pettinare i capelli delle cugine: cose da femmina! Saif ha 9 anni quando intuisce che è arrivato il momento di crescere, e alla svelta. La madre Shakeela, sofferente di cuore, deve raggiunger­e il marito che da tempo vive in Italia per farsi curare, ma non può portare con sé i suoi tre figli, deve lasciarne uno in Pakistan, il più grande che deve sacrificar­si per gli altri. Saif guarda l’aereo che porta via sua madre e i fratellini, lontano da lui e vicini al padre, questo padre a tratti inaccessib­ile che conosce a stento. Rimane lui a terra. Ma è casa quella in cui resta?

«La gente continua a parlare. Mettono il sale sulle mie ferite. Sembra si divertano. Vorrei essere invisibile. A volte, non esistere. Non mi vogliono qui. Lo percepisco. Sono un ospite. Senza i genitori: una presenza indesidera­ta.

Sento di essere un peso per tutti. Tranne per dadi Sakina e lui. Il signor Malik. Mi rende felice il signor Malik, alle tre del pomeriggio, quando lo raggiungo per imparare l’inglese. Lui non commenta. Anzi: cerca di capirmi, di ascoltarmi, di lasciarmi esprimere. È sempre gentile e delicato». Passeranno due anni prima che Saif riesca, con un volo che lo porterà in Italia, a ricongiung­ersi con i suoi tra le montagne di Belluno. Ma in quei due anni, Saif avrà dovuto imparare a cavarsela da solo, a difendersi da tutti. È dal signor Malik, alle tre del pomeriggio, che un giorno subisce uno stupro. «Sembra non sia successo niente. Sembra un giorno qualunque. Mi rimanda a casa, da solo. Mi minaccia, non devo dirlo a nessuno. Me lo dice ancora una volta. Non con il suo solito tono docile».

Addestrato a parare i colpi, Saif in Italia dovrà sperimenta­re una nuova condizione: qui è il pakistano, ha la pella scura, è musulmano, mangia con le mani, non parla italiano E poi c’è questo: è ormai consapevol­e della propria omosessual­ità e non intende nasconderl­o. «Non ho bisogno di un figlio frocio. Di un malato». Persino sua madre, la sua alleata, colei che gli ha trasmesso i segreti delle spezie, persino lei con la quale Saif si confida non vuole sentire, non vuole vedere. Nessun abbraccio sembra possibile per il ragazzo respinto di qua e di là, «che io soffochi tra i monti di Belluno o che io anneghi nei bagni di sudore a Rawalpindi, nulla cambia. Due terremoti che continuano a spingermi di qua e di là… I miei due Paesi sono le racchette e io la pallina. Sembrano entrambi non volermi». Intanto, cresce, studia, si laurea, consegue un dottorato, scrive racconti, e continua a sentire su di sé il peso insopporta­bile delle ingiustizi­e, delle discrimina­zioni. «Io non sono pakistano. Io non sono italiano. Io sono altro. Io sono oltre».

Poi a un certo punto qualcosa cambia, almeno nella sua vita privata. Sperimenta l’amicizia con ragazzi ai quali non importa nulla dei loro privilegi da pelle bianca e da leggi del suolo e del sangue. Soprattutt­o, incontra Carlo, il cui amore vince su ogni cosa. «Carlo che annulla tutte le differenze che il destino ha violenteme­nte inculcato tra di noi e tra i nostri popoli […] Finché la morte non vi separi, dicono. Io non voglio che la morte ci divida. Io spero che Allah esista per avere la possibilit­à di vivere con Carlo per l’eternità».

Verrà, poi, anche il giorno in cui nessuno dovrà sentirsi straniero nel luogo in cui ha scelto di vivere e di fare famiglia, che vuol dire prima di tutto creare armonia per sé e per gli altri. Verrà, si spera.

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