Corriere della Sera - La Lettura
La borgata mastica foglie amare
Attore di televisione («Romanzo criminale») e di cinema («C’è ancora domani»), Vinicio Marchioni rivela anche un talento da narratore di osservanza pasoliniana. Il suo «Tre notti» è un romanzo di formazione affollato di varia umanità
Romanzo pasoliniano non solo per la citazione in esergo, l’esordio di Vinicio Marchioni, regista e attore (è suo, tra gli altri, il volto del Freddo nella serie tv Romanzo criminale, di Paolo Florio ne I leoni di Sicilia e dell’amore di gioventù di Delia in C’è ancora domani), che evoca lo scrittore friulano per l’ambientazione borgatara, la messa in scena di un’umanità tanto fragile quanto autentica e uno stile che a tratti ammicca al dialetto, dando vita a un romanzo politico in senso lato, giocato sulla nostalgia di un mondo ormai scomparso e, tra le righe, sulla denuncia dello scempio urbanistico e morale degli ultimi decenni.
Le tre notti evocate nel titolo sono il fulcro intorno a cui si svolge la maggior parte della vicenda, scandite con puntualità cronachistica in un andirivieni di prima e dopo, per lo più di ore, talvolta di anni, intorno all’evento scatenante, la morte di cancro, a soli trentanove anni, di Dante, il padre di Andrea, quindicenne di borgata protagonista di una storia di formazione costruita fra affondi nella memoria, eventi quotidiani anche minimi e i loro riverberi sull’interiorità di un ragazzo posto anzitempo di fronte al dramma, popolata di personaggi maschili per lo più irrisolti, insicuri e sempre a caccia di sogni — come avvertono i versi pasoliniani — ma capaci di slanci sinceri, e di poche figure femminili incarnazione di buon senso e concretezza.
È il pomeriggio del 29 novembre 1991 quando Andrea, il fratellino e la loro madre fanno visita a Dante, che morirà di lì a poche ore, nella casa di campagna dei nonni, costruita mattone dopo mattone dagli uomini di famiglia con uno sforzo epico. Il giovane non riesce neppure a comunicare con il genitore, ormai stordito dalla morfina, verso cui prova una rabbia profonda: anni prima li ha abbandonati, ha lasciato un lavoro sicuro, è andato a vivere con un’altra donna e si è paurosamente indebitato. Così, preda di un groviglio di odio e rancore, sceglie la fuga a bordo della vecchia 127 del nonno e giunge fortunosamente a casa della coetanea Martina, cui è legato da un rapporto di sesso gioioso e profonda amicizia, dalla fiducia nell’educazione e nel rispetto come «forma di amore più alta fra due esseri umani» e dal sogno di fondare un circolo dove ascoltare musica, leggere, vedere film. Anche Martina ha perso il padre, morto quando lei aveva sei anni, e la notte ha la casa sempre a disposizione, perché la madre preferisce lavorare con il buio e di giorno dormire e non vedere «quant’è brutto il mondo». In tasca Andrea ha l’ultimo pacchetto di sigarette di Dante, dove ha rinvenuto la chiave del sottoscala della casa di borgata a Montesecco: l’uomo ha sempre proibito a tutti l’ingresso, ma ora quel veto può essere eluso, e la chiave diventa una sorta di oggetto magico che accompagna il ragazzo nei tre giorni in cui cerca di scoprire chi fosse davvero suo padre e rifiuta di dare notizie di sé alla madre, una figura dolente, ancora innamorata dell’ex marito, schiacciata dai debiti di lui e ora in ansia per la sorte del figlio.
Sono gli amici di Dante, avventori di un bar in cui il ragazzo per anni si è sentito a casa fra fumo e alcol in quantità, ad aiutare Andrea a ricostruire un volto paterno mai sperimentato, la figura di un uomo che ha pagato a caro prezzo i propri errori e su cui la vita si è abbattuta inclemente. Mentre le indicazioni cronologiche «staccano» le diverse scene della vicenda con passo cinematografico, come in un caleidoscopio avvolto nell’aura mitica della borgata, dove leggenda e realtà spesso sono tutt’uno, i personaggi si moltiplicano, ognuno con il proprio soprannome e tutti fedeli alle regole della borgata, un codice d’onore di autoprotezione in virtù del quale non si toccano donne e bambini e ci si fanno i fatti propri: si compone così l’affresco di un’umanità afflitta e ferita eppure generosa e solidale, che piange l’amico fraterno e intanto fa quadrato attorno a suo figlio per una sorta di educazione sentimentale verso il futuro.
Tra quegli amici ci sono il titolare del bar, il manovale che il sabato trasforma il locale in un ufficio di scommesse clandestine per racimolare un gruzzolo con cui mandare i figli a studiare lontano, il primo omossessuale dichiarato della borgata, l’ex studente di filosofia che ha conosciuto la galera e crede solo nella Resistenza e negli uomini che hanno fatto la Costituzione, senza i quali, profetizza, l’Italia sarà di nuovo in mano ai barbari. Tocca a lui, nella seconda notte, prendere per mano Andrea e insegnargli che è il momento di lasciare andare la rabbia e quel padre così tanto odiato negli ultimi anni.
Da ultimo entra in scena uno zio acquisito del ragazzo, sposato e con due figlie prima di trovare il coraggio di rivelare la propria omosessualità, ora finalmente vissuta in una casa provvisoria di un casermone in costruzione a nord della borgata, arredata con gusto esagerato. Con lui, in una catabasi in un locale notturno per gay, di fronte a un omoerotismo ora sfacciatamente esibito ora taciuto come un marchio d’infamia agli occhi dei pregiudizi maschilisti della borgata, Andrea si prepara a tornare a casa e a salutare per l’ultima volta il padre. D’altronde, come diceva il nonno con una massima degna della scatola di cioccolatini di Forrest Gump, la vita è come un’insalata, ha bisogno di condimento e qualche foglia amara bisogna pur di ingoiarla, «se no non si mangia». Anche se per chiudere davvero i conti con quel passato Andrea dovrà attendere ancora molti anni.