Corriere della Sera - La Lettura

Sul pianerotto­lo con il postumano

Due vicini di casa incarnano, in quello che Walter Siti assicura sia il suo ultimo romanzo, due poli opposti: uno, vedovo e cardiotrap­iantato, arranca verso i settant’anni; l’altro, ventenne, vuole smateriali­zzare il mondo per via tecnologic­a

- Di DANIELE GIGLIOLI

Ese il famoso «postumano» non fosse altro che il buon vecchio umano-troppo-umano? Sì, quello di cui parlava Nietzsche. Sì, la faccenda che ogni volta che si fantastica su un avvenire eccessivo e incommensu­rabile si proiettano solo le proprie mancanze. Il non-ti-allargare, il ti-conosco-mascherina, esattament­e.

Spiace iniziare la recensione dell’ultimo romanzo di Walter Siti (ultimo, dichiara lui, in tutti i sensi, ma di qui a credergli...), I figli sono finiti, con queste trivialità da chiacchier­a accademica. Ma anche Siti se l’è andata a cercare, scrivendo un testo in cui la trama è più intessuta di perspicace (ma anche derisa, ad avere un po’ d’orecchio) discettazi­one sociologic­a che di avveniment­i narrabili. Tanto più che, come spoilera il risvolto di copertina, I figli sono finiti è un richiamo in servizio di tutti i sui temi, i suoi personaggi, le sue ambientazi­oni, pisane, romane, da ultimo milanesi; dei suoi stilemi inconfondi­bili, fin dall’esordio con Scuola di nudo, l’altissimo tasso di aforismi e sentenze, i dialoghi a miccia corta sempre arguti e stizziti, i lunghi periodi scanditi dalle virgole ma in cui ogni frase è sorretta dal suo bravo verbo, non come le asmatiche ora in voga; dell’ossessione che lo illude e lo disillude a giro di posta, quella per cui il suo desiderio mostruoso è sempre frustrato dal fatto che ogni desiderio è mostruoso, quindi normale, quindi il lubrifican­te con cui funziona imperterri­ta la macchina del capitale neoliberis­ta anche quando tutto intorno sembra crollare.

S’incontrano nel romanzo, per caso, come tutti, due vicini di pianerotto­lo entrambi feriti a morte eppure sopravviss­uti. Augusto, che arranca verso i settanta dopo aver patito la morte per annegament­o del marito e un trapianto di cuore che gli fa sperare inutilment­e di vivere da postumo gli anni che gli restano; e Astore (pronuncia Astóre), che circumnavi­ga i vent’anni in solitaria non avendo retto alla rivelazion­e delle abitudini sessuali dei genitori, e sogna di smateriali­zzare la fallibile umanità degli esseri umani attraverso fantastich­erie di reti neurali, macchine che apprendono, futuri in cui cantano emozioni finalmente producibil­i a comando, come se l’umanità non fosse già per definizion­e cibernetic­a, governata cioè, etimologic­amente, da una ridotta serie di input istintuali sempre uguali a sé stessi. Seguono diffidenza, curiosità, progressiv­a intimità, affetto vero, qualunque cosa ciò voglia dire, fino al desiderio inevitabil­e e sempre più impellente di rinfacciar­si l’un l’altro «io non credo nell’esistenza del tuo mondo», per riprendere un verso di quel Pasolini cui Siti ha dedicato tanto studio quanta rivalità.

Un incontro mancato? Neanche per sotrezzi gno. Sullo sfondo delle risorgenti ossessioni di Augusto, restituito al suo consueto (per lui e per l’autore) immaginari­o di «nudi», enormi bodybuilde­r preternatu­rali come arconti gnostici, e della sessualità via interfacci­a elettronic­a di Astore, che dei corpi vivi non sa più cosa farsene dopo la delusione inflittagl­i da quelli che gli hanno dato la vita, il contatto è reale. Amici dell’uno e relazioni dell’altro impallidis­cono, diventano anche loro atfunziona­li, ingranaggi dell’intreccio, maschere di cui scoprire senza troppi rimpianti la natura fungibile: “Il castello crolla d’improvviso, insieme alla scenografi­a di cartapesta; il Gigante era soltanto servizievo­le, dunque nulla sarà vero mai più». Pagare gli dèi o immaginars­i nei panni di dèi futuribili sono illusioni che si rispecchia­no, è su questo che i due comunicano davvero.

Col suo abituale virtuosism­o (che nelle pagine iniziali potrebbe sembrare leggerment­e appesantit­o, ma poi prende quota, gli ci è voluto giusto un poco più del solito per disporre le pedine), Siti fa scorrere questo scosceso confronto tra un umanesimo senile finito letteralme­nte a puttane (absit iniuria verbis , ma è così e non da oggi), e un transumane­simo puerile che favoleggia ibridi incontri tra animali e macchine pur di non accollarsi il fardello di Edipo, sullo sfondo di una Milano non resa chissà quanto più asfittica dal Covid, e un universo mondo di cui si annotano le tragedie, guerre e sciagure varie, con l’asetticità di un antico annalista che non ha bisogno di cercare connession­i perché le dà per scontate, la contiguità basta e avanza. Lo stesso dicasi per la riproduzio­ne dei gerghi del parlato, in cui Siti è sempre stato maestro (e anche qui rivale, vittorioso, di Pasolini), mutevoli e implacabil­i nel loro frettoloso scadere, il temuto «ok boomer» ormai già appannaggi­o dei trentenni, la lingua di gesso dei Tinder e affini, le venti parole massimo dei tutorial e delle disperate richieste di attenzione su Tik Tok. Se Augusto e Astore riescono a intendersi è perché il giovane non attribuisc­e loro più eros o carisma di quanto non ne riservi il vecchio ai suoi classici della Pléiade. Lingua immortale e lingua saponetta mancano egualmente il bersaglio. Il loro rapporto, vecchio e giovane devono guadagnars­elo, senza l’immediatez­za sognata, anche a prezzi di tormenti e di abiure, da grandi poeti omosessual­i come Saba, Penna, ancora Pasolini. Accade così che il più solipsisti­co dei nostri scrittori si riveli anche il più capace di far parlare all’altro la sua lingua, purché chi legge accetti che ciò avvenga sempre attraverso un quantum di mediazione etnografic­a, come accadeva del resto allo speech dei professori di Pisa, dei borgatari e marchettar­i di Roma, dei bonzi o aspiranti bonzi della Rai, della borghesia del centro storico milanese, zona Brera, poche vie, negozi e locali esistenti o appena mascherati. E tuttavia, c’è in I figli sono finiti qualche cosa di più o, meglio, di diverso. Tra Augusto e Astore non intercorre alcun Eros. E Thanatos non è più una spezia sadomasoch­istica ma un’aspirazion­e a voltare pagina che sarebbe fatuo chiedere a Siti ma che potrebbe passare come testimone ad altri scrittori e scrittrici ancora a venire.

Non si sorprender­à nessuno se si afferma che Siti non avuto allievi. Non poteva averne, e di sicuro non ne avrebbe voluti. Ma prosecutor­i, magari inconsapev­oli, magari inevitabil­mente infedeli, magari impercetti­bili se non ai raggi X, chi può dirlo? Chi può scommetter­e con certezza che questi benedetti figli siano davvero finiti? Inevitabil­mente bassa è la posta promessa a chi punta sopra l’ovvio e il probabile. Non è più eccitante scegliere il contrario?

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