Corriere della Sera - La Lettura
Sul pianerottolo con il postumano
Due vicini di casa incarnano, in quello che Walter Siti assicura sia il suo ultimo romanzo, due poli opposti: uno, vedovo e cardiotrapiantato, arranca verso i settant’anni; l’altro, ventenne, vuole smaterializzare il mondo per via tecnologica
Ese il famoso «postumano» non fosse altro che il buon vecchio umano-troppo-umano? Sì, quello di cui parlava Nietzsche. Sì, la faccenda che ogni volta che si fantastica su un avvenire eccessivo e incommensurabile si proiettano solo le proprie mancanze. Il non-ti-allargare, il ti-conosco-mascherina, esattamente.
Spiace iniziare la recensione dell’ultimo romanzo di Walter Siti (ultimo, dichiara lui, in tutti i sensi, ma di qui a credergli...), I figli sono finiti, con queste trivialità da chiacchiera accademica. Ma anche Siti se l’è andata a cercare, scrivendo un testo in cui la trama è più intessuta di perspicace (ma anche derisa, ad avere un po’ d’orecchio) discettazione sociologica che di avvenimenti narrabili. Tanto più che, come spoilera il risvolto di copertina, I figli sono finiti è un richiamo in servizio di tutti i sui temi, i suoi personaggi, le sue ambientazioni, pisane, romane, da ultimo milanesi; dei suoi stilemi inconfondibili, fin dall’esordio con Scuola di nudo, l’altissimo tasso di aforismi e sentenze, i dialoghi a miccia corta sempre arguti e stizziti, i lunghi periodi scanditi dalle virgole ma in cui ogni frase è sorretta dal suo bravo verbo, non come le asmatiche ora in voga; dell’ossessione che lo illude e lo disillude a giro di posta, quella per cui il suo desiderio mostruoso è sempre frustrato dal fatto che ogni desiderio è mostruoso, quindi normale, quindi il lubrificante con cui funziona imperterrita la macchina del capitale neoliberista anche quando tutto intorno sembra crollare.
S’incontrano nel romanzo, per caso, come tutti, due vicini di pianerottolo entrambi feriti a morte eppure sopravvissuti. Augusto, che arranca verso i settanta dopo aver patito la morte per annegamento del marito e un trapianto di cuore che gli fa sperare inutilmente di vivere da postumo gli anni che gli restano; e Astore (pronuncia Astóre), che circumnaviga i vent’anni in solitaria non avendo retto alla rivelazione delle abitudini sessuali dei genitori, e sogna di smaterializzare la fallibile umanità degli esseri umani attraverso fantasticherie di reti neurali, macchine che apprendono, futuri in cui cantano emozioni finalmente producibili a comando, come se l’umanità non fosse già per definizione cibernetica, governata cioè, etimologicamente, da una ridotta serie di input istintuali sempre uguali a sé stessi. Seguono diffidenza, curiosità, progressiva intimità, affetto vero, qualunque cosa ciò voglia dire, fino al desiderio inevitabile e sempre più impellente di rinfacciarsi l’un l’altro «io non credo nell’esistenza del tuo mondo», per riprendere un verso di quel Pasolini cui Siti ha dedicato tanto studio quanta rivalità.
Un incontro mancato? Neanche per sotrezzi gno. Sullo sfondo delle risorgenti ossessioni di Augusto, restituito al suo consueto (per lui e per l’autore) immaginario di «nudi», enormi bodybuilder preternaturali come arconti gnostici, e della sessualità via interfaccia elettronica di Astore, che dei corpi vivi non sa più cosa farsene dopo la delusione inflittagli da quelli che gli hanno dato la vita, il contatto è reale. Amici dell’uno e relazioni dell’altro impallidiscono, diventano anche loro atfunzionali, ingranaggi dell’intreccio, maschere di cui scoprire senza troppi rimpianti la natura fungibile: “Il castello crolla d’improvviso, insieme alla scenografia di cartapesta; il Gigante era soltanto servizievole, dunque nulla sarà vero mai più». Pagare gli dèi o immaginarsi nei panni di dèi futuribili sono illusioni che si rispecchiano, è su questo che i due comunicano davvero.
Col suo abituale virtuosismo (che nelle pagine iniziali potrebbe sembrare leggermente appesantito, ma poi prende quota, gli ci è voluto giusto un poco più del solito per disporre le pedine), Siti fa scorrere questo scosceso confronto tra un umanesimo senile finito letteralmente a puttane (absit iniuria verbis , ma è così e non da oggi), e un transumanesimo puerile che favoleggia ibridi incontri tra animali e macchine pur di non accollarsi il fardello di Edipo, sullo sfondo di una Milano non resa chissà quanto più asfittica dal Covid, e un universo mondo di cui si annotano le tragedie, guerre e sciagure varie, con l’asetticità di un antico annalista che non ha bisogno di cercare connessioni perché le dà per scontate, la contiguità basta e avanza. Lo stesso dicasi per la riproduzione dei gerghi del parlato, in cui Siti è sempre stato maestro (e anche qui rivale, vittorioso, di Pasolini), mutevoli e implacabili nel loro frettoloso scadere, il temuto «ok boomer» ormai già appannaggio dei trentenni, la lingua di gesso dei Tinder e affini, le venti parole massimo dei tutorial e delle disperate richieste di attenzione su Tik Tok. Se Augusto e Astore riescono a intendersi è perché il giovane non attribuisce loro più eros o carisma di quanto non ne riservi il vecchio ai suoi classici della Pléiade. Lingua immortale e lingua saponetta mancano egualmente il bersaglio. Il loro rapporto, vecchio e giovane devono guadagnarselo, senza l’immediatezza sognata, anche a prezzi di tormenti e di abiure, da grandi poeti omosessuali come Saba, Penna, ancora Pasolini. Accade così che il più solipsistico dei nostri scrittori si riveli anche il più capace di far parlare all’altro la sua lingua, purché chi legge accetti che ciò avvenga sempre attraverso un quantum di mediazione etnografica, come accadeva del resto allo speech dei professori di Pisa, dei borgatari e marchettari di Roma, dei bonzi o aspiranti bonzi della Rai, della borghesia del centro storico milanese, zona Brera, poche vie, negozi e locali esistenti o appena mascherati. E tuttavia, c’è in I figli sono finiti qualche cosa di più o, meglio, di diverso. Tra Augusto e Astore non intercorre alcun Eros. E Thanatos non è più una spezia sadomasochistica ma un’aspirazione a voltare pagina che sarebbe fatuo chiedere a Siti ma che potrebbe passare come testimone ad altri scrittori e scrittrici ancora a venire.
Non si sorprenderà nessuno se si afferma che Siti non avuto allievi. Non poteva averne, e di sicuro non ne avrebbe voluti. Ma prosecutori, magari inconsapevoli, magari inevitabilmente infedeli, magari impercettibili se non ai raggi X, chi può dirlo? Chi può scommettere con certezza che questi benedetti figli siano davvero finiti? Inevitabilmente bassa è la posta promessa a chi punta sopra l’ovvio e il probabile. Non è più eccitante scegliere il contrario?