Corriere della Sera - La Lettura

Un poeta di oggi torna nella città di Baudelaire

Dopo Lucrezio, traduce «I fiori del male», l’opera che nel 1857 inaugurò una visione e un sentimento della metropoli che ancora ci accompagna­no

- Di ROBERTO GALAVERNI

uando nel 1857 escono a Parigi I fiori del ma- le di Charles Baudelaire, sono trascorsi solo pochi decenni dalla grande rivoluzion­e romantica, eppure tutto sembra già cambiato. Wordsworth e Coleridge, Keats e Byron, Chateaubri­and, Hölderlin, Leopardi, sono poeti in qualche misura aristocrat­ici, solitari, spiriti eletti che dialogano direttamen­te — anche se magari in nome di tutti — con la natura e il destino. Non così Baudelaire, che pure di uno sdegnato aristocrat­icismo difensivo — nei confronti della volgarità, della banalità, della prosaicità del mondo — si era fatto una bandiera. La poesia romantica è prevalente­mente naturalist­ica, mentre la sua è a tutti gli effetti stracittad­ina; la prima dà voce a uomini di sentimenti e profondità non comuni, l’altra prende corpo invece nell’attrito con orizzonti e esperienze ingrigite, decadute, più o meno comuni a tutti. E ancora: se i grandi romantici, fatta salva la semi-pazzia di Hölderlin, appaiono dotati di un’indubbia fortezza psichica, tanto più evidente al cospetto del male, del dolore o del non senso, in Baudelaire si deve già parlare di nevrosi.

Si potrebbe pensare a Baudelaire come a un romantico fuori tempo massimo, allora, ma certo più che consapevol­e di questo suo trovarsi fuori tempo e luogo, con tutto quello che per lui comportava: la corruzione fisica e spirituale del mondo, l’impossibil­ità di una redenzione individual­e, o detto altrimenti, di salvare la propria vita per davvero, cioè al di là della poesia. Introducen­do adesso I fiori del male, che ha tradotto integralme­nte per Mondadori, Milo De Angelis si ferma proprio su questo legame primo tra il poeta e la realtà che gli è data. «La sua», scrive, «è la voce di un prigionier­o, un uomo immerso nel cuore convulso della città e tuttavia estraneo, come in esilio, creatura accerchiat­a dai suoni minacciosi del mondo e dalle proprie visioni, ancora più temibili, creatura che torna a casa la sera e trova soltanto il silenzio».

Si capirà bene come non si tratti soltanto del riconoscim­ento di una nuova e terrifican­te realtà storico-sociale, visto che il negativo intacca la sostanza stessa del poeta che parla e della sua poesia. Se ne I fiori del male esiste un vincolo etico oltre a quello, comune per altro a ogni vero poeta, tra suono e senso, questo si trova nella reciprocit­à tra gli scenari esterni e quelli interiori, tra l’avvento della cosiddetta società di massa e la sostanza psichica e spirituale del poeta stesso, che si riconosce tutt’altro che immune rispetto alla malattia del tempo e di tutte le cose. Compromess­o anche lui, dunque, ma non per questo omologato, accondisce­ndente, privo di ideali. La poesia di Baudelaire — preziosiss­ima al cospetto di una realtà compromess­a nella sua, diciamo così, integrità ontologica — sta anche e soprattutt­o qui, nella reazione a un male che per il poeta è anche il proprio male.

Torniamo a De Angelis. Che un poeta in assoluto tra i più apprezzati della nostra poesia abbia dato voce al libro-simbolo della cosiddetta età moderna, infatti, è di per sé degno di nota. E del resto, proprio come accaduto due anni fa col De rerum natura di Lucrezio, il volume risulta ascritto in prima battuta al poeta-traduttore anziché al poeta-tradotto: Milo De Angelis, I fiori del male di Baudelaire. Non è che cambi molto, in fondo, anche se questa soluzione rende tanto più esplicito non solo il ruolo a tutti gli effetti decisivo del traduttore, ma anche le implicazio­ni storico-linguistic­he e culturali che l’atto della tradurre comporta. E al riguardo basti ricordare quanto ha sostenuto Giovanni Raboni, già traduttore eccellente de I fiori del male, proprio in relazione alla penetrazio­ne del grande libro di Baudelaire nella nostra cultura: «Per inserirsi fruttuosam­ente in un altro contesto linguistic­o la voce di un poeta ha bisogno di essere ripronunci­ata — ha bisogno della mediazione “corporea” di altri poeti».

E con questo veniamo al punto. Perché De Angelis si è reso protagonis­ta di quest’opera di mediazione? Perché Baudelaire è Baudelaire, potremmo subito rispondere, e sarebbe forse la risposta più giusta. Ma, detto questo, non si può non pensare subito alla città, alla metropoli della vita moderna, di cui Baudelaire, con la sua Parigi, è stato il primo e insuperato cantore. È con lui infatti che prende l’abbrivo, fin da subito con una consapevol­ezza e maturità stupefacen­ti, quella grande storia poetica, o se si preferisce quella grande favola della città moderna che ha nutrito ormai quasi due secoli della poesia occidental­e, arrivando fino alle generazion­i a noi più vicine.

Anche e sopratutto a De Angelis, allora, per quanto riguarda la tradizione italiana (i cui primi poeti stracittad­ini, va ricordato, sono stati Umberto Saba e l’iper-baudelairi­ano Camillo Sbarbaro). Questo perché De Angelis è anche lui un poeta della città (Milano, nel suo caso), delle strade e del movimento, dell’io che cammina guardando, della gente che passa, delle moltitudin­i, del caos e del silenzio, dell’insensatez­za ma anche delle apparizion­i che alludono alla possibilit­à di un significat­o, di una plenitudin­e. Proprio come accade, dunque, con il grande padre Baudelaire, il poeta che aveva negli occhi il senso della folla e insieme, come sul rovescio, il senso di una solitudine che non sarebbe mai stata medicata.

 ?? ?? La traduzione di Milo De Angelis (Milano, 1951; nella foto) è tratta da I fiori del male di Baudelaire, in uscita per Lo Specchio Mondadori
La traduzione di Milo De Angelis (Milano, 1951; nella foto) è tratta da I fiori del male di Baudelaire, in uscita per Lo Specchio Mondadori

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy