Corriere della Sera - La Lettura
Un poeta di oggi torna nella città di Baudelaire
Dopo Lucrezio, traduce «I fiori del male», l’opera che nel 1857 inaugurò una visione e un sentimento della metropoli che ancora ci accompagnano
uando nel 1857 escono a Parigi I fiori del ma- le di Charles Baudelaire, sono trascorsi solo pochi decenni dalla grande rivoluzione romantica, eppure tutto sembra già cambiato. Wordsworth e Coleridge, Keats e Byron, Chateaubriand, Hölderlin, Leopardi, sono poeti in qualche misura aristocratici, solitari, spiriti eletti che dialogano direttamente — anche se magari in nome di tutti — con la natura e il destino. Non così Baudelaire, che pure di uno sdegnato aristocraticismo difensivo — nei confronti della volgarità, della banalità, della prosaicità del mondo — si era fatto una bandiera. La poesia romantica è prevalentemente naturalistica, mentre la sua è a tutti gli effetti stracittadina; la prima dà voce a uomini di sentimenti e profondità non comuni, l’altra prende corpo invece nell’attrito con orizzonti e esperienze ingrigite, decadute, più o meno comuni a tutti. E ancora: se i grandi romantici, fatta salva la semi-pazzia di Hölderlin, appaiono dotati di un’indubbia fortezza psichica, tanto più evidente al cospetto del male, del dolore o del non senso, in Baudelaire si deve già parlare di nevrosi.
Si potrebbe pensare a Baudelaire come a un romantico fuori tempo massimo, allora, ma certo più che consapevole di questo suo trovarsi fuori tempo e luogo, con tutto quello che per lui comportava: la corruzione fisica e spirituale del mondo, l’impossibilità di una redenzione individuale, o detto altrimenti, di salvare la propria vita per davvero, cioè al di là della poesia. Introducendo adesso I fiori del male, che ha tradotto integralmente per Mondadori, Milo De Angelis si ferma proprio su questo legame primo tra il poeta e la realtà che gli è data. «La sua», scrive, «è la voce di un prigioniero, un uomo immerso nel cuore convulso della città e tuttavia estraneo, come in esilio, creatura accerchiata dai suoni minacciosi del mondo e dalle proprie visioni, ancora più temibili, creatura che torna a casa la sera e trova soltanto il silenzio».
Si capirà bene come non si tratti soltanto del riconoscimento di una nuova e terrificante realtà storico-sociale, visto che il negativo intacca la sostanza stessa del poeta che parla e della sua poesia. Se ne I fiori del male esiste un vincolo etico oltre a quello, comune per altro a ogni vero poeta, tra suono e senso, questo si trova nella reciprocità tra gli scenari esterni e quelli interiori, tra l’avvento della cosiddetta società di massa e la sostanza psichica e spirituale del poeta stesso, che si riconosce tutt’altro che immune rispetto alla malattia del tempo e di tutte le cose. Compromesso anche lui, dunque, ma non per questo omologato, accondiscendente, privo di ideali. La poesia di Baudelaire — preziosissima al cospetto di una realtà compromessa nella sua, diciamo così, integrità ontologica — sta anche e soprattutto qui, nella reazione a un male che per il poeta è anche il proprio male.
Torniamo a De Angelis. Che un poeta in assoluto tra i più apprezzati della nostra poesia abbia dato voce al libro-simbolo della cosiddetta età moderna, infatti, è di per sé degno di nota. E del resto, proprio come accaduto due anni fa col De rerum natura di Lucrezio, il volume risulta ascritto in prima battuta al poeta-traduttore anziché al poeta-tradotto: Milo De Angelis, I fiori del male di Baudelaire. Non è che cambi molto, in fondo, anche se questa soluzione rende tanto più esplicito non solo il ruolo a tutti gli effetti decisivo del traduttore, ma anche le implicazioni storico-linguistiche e culturali che l’atto della tradurre comporta. E al riguardo basti ricordare quanto ha sostenuto Giovanni Raboni, già traduttore eccellente de I fiori del male, proprio in relazione alla penetrazione del grande libro di Baudelaire nella nostra cultura: «Per inserirsi fruttuosamente in un altro contesto linguistico la voce di un poeta ha bisogno di essere ripronunciata — ha bisogno della mediazione “corporea” di altri poeti».
E con questo veniamo al punto. Perché De Angelis si è reso protagonista di quest’opera di mediazione? Perché Baudelaire è Baudelaire, potremmo subito rispondere, e sarebbe forse la risposta più giusta. Ma, detto questo, non si può non pensare subito alla città, alla metropoli della vita moderna, di cui Baudelaire, con la sua Parigi, è stato il primo e insuperato cantore. È con lui infatti che prende l’abbrivo, fin da subito con una consapevolezza e maturità stupefacenti, quella grande storia poetica, o se si preferisce quella grande favola della città moderna che ha nutrito ormai quasi due secoli della poesia occidentale, arrivando fino alle generazioni a noi più vicine.
Anche e sopratutto a De Angelis, allora, per quanto riguarda la tradizione italiana (i cui primi poeti stracittadini, va ricordato, sono stati Umberto Saba e l’iper-baudelairiano Camillo Sbarbaro). Questo perché De Angelis è anche lui un poeta della città (Milano, nel suo caso), delle strade e del movimento, dell’io che cammina guardando, della gente che passa, delle moltitudini, del caos e del silenzio, dell’insensatezza ma anche delle apparizioni che alludono alla possibilità di un significato, di una plenitudine. Proprio come accade, dunque, con il grande padre Baudelaire, il poeta che aveva negli occhi il senso della folla e insieme, come sul rovescio, il senso di una solitudine che non sarebbe mai stata medicata.