Corriere della Sera - La Lettura
Una poetessa trova i suoi versi in una natura piena di voci
Nella nuova raccolta di i testi più riusciti mostrano l’eco consapevole di figure come Amelia Rosselli e Mario Luzi. E soprattutto un senso paradisiaco del mondo
Aben guardare, la voce di Mariangela Gualtieri è intessuta di molte altre voci. La sua poesia, letta silenziosamente o ascoltata, pensata mentalmente o proclamata in un rito sonoro, è un’arca che contiene moltitudini. Si fa spaziosa e cava per accogliere i maestri, le maestre della dizione poetica, talvolta con i loro nomi (ad esempio in Come è tenero e intenso in poesia) e sempre con le loro intonazioni. La stessa autrice nella Nota a L’incanto fonico (2022) parla dell’«alone di voci dalle quali mi sento popolata». Una guida che fa spicco è Amelia Rosselli, che può arrivare a suggerire la grammatica del testo, fatta di riprese, variazioni e rilanci. Più indietro ancora, è Dante che offre degli spunti, degli amuleti verbali da cui ripartire, gemme da incastonare in un nuovo canto creaturale. Ma anche altri sono i nomi che vengono alle labbra del lettore: ad esempio nella sua sempre più tesa universalità e nel suo celebrare l’essere, l’ultima Gualtieri non può non ricordarci il Mario Luzi dei libri estremi, proteso a una sorta di paradiso nella metamorfosi e nel divenire della vita universale. E «paradiso» è parola-motivo che Gualtieri adopera in questo suo più recente libro, successivo alla raccolta antologica Bello mondo, pure uscita da poco. Il titolo è Ruvido umano (Einaudi), a suggerire un’umanità ancora gravida di mali, di violenze, di sfregi.
Gualtieri sa che quello è lo sfondo e oppone a esso l’incanto di un tessuto verbale che riscopre il miracolo continuo della creazione. Spesso indugia sugli animali, su una sacralità diffusa nelle cose. Inno e insieme proposta, la poesia cosmica e rituale dell’autrice cerca di riparare, di risanare, di guarire come per una sorta di «salute/ di parole»: diventa coscienza delle altre forme di esistenza («Essere albero. Essere fiore./ Non è meno di questa carne ragionante»). Il senso ultimo è, se si vuole, ungarettiano: solo sentendosi una docile fibra dell’universo, l’essere singolo e individuale può recuperare una memoria più ampia, più estesa, più capillare e riposare nell’enigma sontuoso della vita. Poesia è dunque memoria di un’appartenenza più fonda, più remota alle ragioni della vita, che continuamente sono contraddette dal risorgere degli istinti, dalla follia di morte, su cui indugiano varie poesie ispirate alla cronaca.
Una parte del libro è composta da poesie in qualche modo di occasione, scritte insomma su commissione o richiesta. Celebre, per aver circolato in rete, è quella dedicata all’inizio della reclusione pandemica in Italia (Nove marzo 2020). Eppure le vette del libro, le punte più acuminate del discorso, che si potrebbero dire di un’altezza sapienziale degna davvero di Luzi, sono nei testi germinati quasi per istinto dalla ruminazione della parola poetica altrui e dal sentimento della propria creaturale debolezza. Vogliamo dire che non è tanto l’aspetto propositivo, esplicitamente curativo della parola a dettare i testi migliori, quanto un sincero e meditato adorare e contemplare, sotto specie vivente ma con l’enigma della mortalità davanti, il fiorire breve delle nostre esistenze. Ci sono due testi in particolare che si impongono alla memoria del lettore. Uno, già citato, è quello in cui Gualtieri, muovendo da Vittorio Sereni e da Rosselli, parla dell’intensità del dire in poesia «vita mia», arrivando a sfiorare il tema del proprio offrirsi ogni volta in teatro: «Vita/ mia dove m’hai buttato» vorrebbe dire l’autrice, davanti a un pubblico casuale, in un teatro scalcagnato. Ma poi avviene il miracolo dell’ascolto e con esso il riconoscimento di una vita che non è solo di chi scrive, ma di tutti, comune, come un cordone ombelicale che ci unisce all’enigma dell’esistenza universale: «E vorrei scappare, non essere/ partita ma puntuale accade un/ miracolo incendiato — l’ascolto/ più teso e devoto che ci sia./ Quanto enigmatica sei vita./ Vita nostra e mia».
L’altro testo-culmine, che riscatta anche le parti del libro più volontaristiche e debitrici al mestiere, è Dall’alto degli anni. In esso l’autrice si confronta frontalmente con la fine della propria voce, con la necessità di spogliarsi della forma visibile, del corpo, di entrare nell’enigma (come direbbe l’amata Emily Dickinson). Ecco la seconda parte della poesia di Gualtieri: «[…] Mi toglierò/ questa pelle. Questo costume di scena/ lo deporrò. Io desidero che le piante/ gli alberi si moltiplichino su di me,/ su di me. Su di me. Quando/ mi scrollerò di dosso questo corpo./ Quando mi vestirò tutta di/ invisibilità. Fra un tempo poco./ Fra poco». Scandita da un’incalzante tecnica di ripresa che rimanda alla costruzione poetica di Rosselli, la poesia fronteggia uno scenario da cose ultime, proprio come in certo Luzi. Pensiamo ad esempio a un testo di Dottrina dell’estremo principiante (2004) come questo: «È un angelo quello che nel sogno/ mi sfila delicatamente/ di dosso l’umanità/ quasi d’una veste impropria/ intenda liberarmi/ e un’altra ne abbia in serbo/ preparata per l’eternità./ […]».
È proprio qui, in direzione del non-saputo, dell’oltre di noi, che conduce infine la voce poetica di Gualtieri, nell’attimo in cui si sveste di ogni orpello e si fa voce di un ritorno, di un compimento. Ne è consapevole l’autrice, che scrive in un testo: «[…] E io che sono/ zappatrice dò colpi innamorati/ smuovo angeli e capre per penetrare/ le segrete cose». Le cose di un sacro terreno e cosmico, che ci impasta.
Di conseguenza, addentrandosi negli alessandrini — elegantissimi, mirabilmente congegnati — del poeta francese proprio come fossero strade cittadine, De Angelis non può non avere riconosciuto come una parte consistente del suo stesso retaggio — di temi e di situazioni, d’immaginario poetico — gli sia venuta proprio da lì. E del resto Baudelaire è un poeta dallo straordinario puntiglio tecnico e filologico, un poeta artefice che confida più nell’esattezza dei calcoli e della logica combinatoria, che non nel vento bizzoso dell’ispirazione. «C’è nella parola, nel verbo, qualcosa di sacro che impedisce di farne un gioco d’azzardo. Maneggiare sapientemente una lingua vuol dire praticare una specie di stregoneria evocatoria», ha scritto; ed è un’affermazione che il poeta che lo traduce oggi potrebbe senz’altro sottoscrivere.
Se si pensa a una lunga serie di qualifiche costitutive del nostro immaginario storico-antropologico dalla metà dell’Ottocento a oggi, si deve riconoscere come soprattutto attraverso Baudelaire (e magari Walter Benjamin, che ne è stato l’interprete più lungimirante) abbiano preso la forma di un’autentica leggenda. Come perdita d’aureola, reificazione, mercificazione, straniamento, alienazione, mutamento percettivo, choc, flâneur, spleen, città tentacolare, omologazione, automatismo, uniformità, paradiso artificiale e tant’altro... Ne I fiori del male c’era già tutto, quasi che quel libro magico altro non fosse che il nostro oroscopo. E del resto, se tra le figure predilette di De Angelis c’è quella del ritorno, del tornare dove si è già stati, allora anche questa traduzione come un ritorno può essere letta e compresa.