Corriere della Sera - La Lettura
L’Italia soffre: ha un complesso d’inferiorità
Uno psicoanalista e uno storico si confrontano sulle narrazioni prevalenti del nostro Paese. Luigi Zoja: fatichiamo a riconoscere i mali del nazionalismo e del colonialismo. Fulvio Cammarano: quello nato nel 1861 è uno Stato debole, che però coltiva ambiz
Psicoanalista di grande prestigio, Luigi Zoja questa volta ha fatto sdraiare sul lettino il nostro Paese, analizzandone la storia e il modo in cui è stata narrata dal Medioevo al XX secolo. Ne è scaturito un libro elogiativo delle forze sociali, ma critico verso lo Stato unitario, Narrare l’Italia (Bollati Boringhieri), che l’autore presenterà al Salone di Torino con Gianrico Carofiglio. In anteprima Zoja ha accettato di confrontarsi per «la Lettura» con uno storico, Fulvio Cammarano, collaboratore del nostro supplemento e docente all’Università di Bologna.
Il libro sottolinea il fatto che nel tardo Medioevo e nel Rinascimento la fama e la ricchezza del nostro Paese erano al vertice del mondo, mentre l’Italia unita non si è mai neppure avvicinata a simili traguardi. Quali conseguenze ne derivano?
FULVIO CAMMARANO — Come pochi altri Paesi al mondo l’Italia s’identifica con uno spazio geografico definito e molto riconoscibile. Se ne parla quindi spesso, nella cultura nazionale, come di un insieme coerente e unitario, ma così si crea una finzione, un cortocircuito con un’identità politica mai esistita fino alla nascita dello Stato liberale nel 1861. Nel 2017 per esempio è uscito da Laterza il volume a più voci Storia mondiale dell’Italia, che prendeva spunto dalla peculiare posizione geografica della penisola per approfondire le relazioni tra il nostro immaginario nazionale e il resto del globo. Ma lo faceva sminuendo volutamente la portata politica dell’unificazione, fino al punto di non inserire tra i momenti chiave della nostra vicenda storica proprio il 1861.
È un bel paradosso.
FULVIO CAMMARANO — Ma tutt’altro che nuovo. Questa percezione rappresenta infatti la base di un’eterna discrasia fra la pretesa universalistica di una cultura di grande rilievo e l’involucro politico-istituzionale di una nazione debole, sempre in difficoltà, che coltiva progetti ambiziosi, ma difficili da raggiungere. Un divario che a mio avviso ha favorito, dai governi di Francesco Crispi in poi, politiche aggressive e magniloquenti mai sostenute da un’effettiva capacità di realizzarle.
LUIGI ZOJA — Io non sono uno storico e nel libro mi occupo soprattutto di narrazioni, che in Italia sono abbondantissime e tendono a sostituire nel dibattito pubblico la storiografia documentata. Ad esempio i nostri politici prospettano iniziative di rinnovamento e di giustizia sociale, ma aggiungono che al momento il Paese non cresce e solo quando ci sarà la ripresa dello sviluppo i loro programmi potranno essere realizzati. In realtà, a parte il boom dopo il 1945, sono circa cinque secoli che l’Italia non cresce. Nel Rinascimento eravamo al vertice del mondo non solo per la produzione artistica, ma anche sul piano della prosperità economica: gli ultimi calcoli ci dicono che il reddito pro capite in Italia era del 50 o addirittura del 70 per cento superiore a quello degli altri Paesi europei più ricchi, Francia e Germania. Forse dovremmo guardare in faccia questa decadenza piuttosto che coltivare narrazioni illusorie.
Eppure nelle opere di Dante Alighieri, Niccolò Machiavelli e altri si parla già di un’Italia «serva», «spogliata», «lacera». Il nostro era dunque uno splendore fragile, destinato a tramontare?
LUIGI ZOJA — Certamente in diversi autori affiora la consapevolezza di una crisi. Starei attento però a condensare fasi così distanti, perché tra Dante e Machiavelli passano oltre due secoli, con cambiamenti enormi. Alighieri è un autore in buona parte metafisico, mentre l’autore del Principe è un laico che anticipa la secolarizzazione e un certo cinismo moderno. Il suo capolavoro si può considerare il primo manuale dell’how to, del «come fare», nel senso che non si domanda come dev’essere l’uomo ideale, ma spiega in che modo l’individuo concreto deve agire per affermarsi.
La ricostruzione di Zoja mette sotto accusa il Risorgimento, sostenendo che il fascismo ne fu «lo sbocco per molti aspetti naturale». Non è un giudizio troppo severo verso l’Italia liberale?
FULVIO CAMMARANO — Compito dello storico, ahinoi, è complicare, il che va in controtendenza con il bisogno odierno di semplificazione. Il Risorgimento non può essere considerato in alcun modo la premessa del fascismo, se non adottando il senno di poi per il quale tutto si tiene.
Come interpretarlo allora?
FULVIO CAMMARANO — Con il Risorgimento si mette in moto un processo espansivo, che produrrà con il tempo importanti trasformazioni, introducendo istituti molto avanzati per l’epoca, a cominciare dallo Statuto albertino, documento che fa da spartiacque tra chi difende l’assolutismo e chi si avvia, magari obtorto collo, sulla strada della divisione dei poteri. Il Risorgimento fu il modo con cui alcuni spezzoni della classe dirigente posero fine alla divisione politica della penisola cavalcando una cultura liberale che allora era rivoluzionaria rispetto al sistema della Restaurazione. Con il richiamo al principio di nazionalità furono scardinate, anche su scala internazionale, vecchie forme di legittimazione del potere, basate sulla religione e sulla gerarchia di ceto. L’appello alla nazionalità non fu dunque di per sé l’anticamera del nazionalismo.
E l’accentramento amministrativo?
FULVIO CAMMARANO — In realtà nell’Ottocento il progetto dell’Italia unita nasce con un immaginario larvatamente federativo, che prefigura larghi spazi di autonomia. Ma immediatamente questo disegno viene bruciato dalla contingenza storica. L’Italia nel 1861 sorge incompleta, perché le mancano Roma e Venezia, e si trova ad affrontare una violenta guerra civile, il cosiddetto «brigantaggio», nelle regioni meridionali. Difficoltà che inducono la classe politica liberale a scegliere la scorciatoia dell’accentramento per salvaguardare l’unità del Paese, considerata il bene più prezioso, decisione che peraltro si rivelò poi funzionale al carattere giacobino-pedagogico degli eredi di Cavour.
LUIGI ZOJA — Io ricordo la narrazione del Risorgimento che ho ricevuto a scuola, poi quella trasmessa ai miei figli e adesso comincio a vedere quello che viene insegnato ai miei nipoti. Mi sembra che, rispetto agli altri Paesi europei, siamo ancora indietro. Nei testi italiani di storia trovo sempre un’accentuazione dell’aspetto nazionalista. Si esalta la spontaneità delle rivolte contro gli austriaci e i Borbone, mentre gli studi più specifici evidenziano che l’unica autentica insurrezione popolare furono le Cinque giornate di Milano. Ma la Lombardia era un caso molto particolare, perché Milano nell’Ottocento era già in larga misura una città borghese, come reddito e come composizione sociale, mentre non altrettanto si può dire del resto della penisola.
Che cosa significa questo dato?
LUIGI ZOJA — Ci dice che il Risorgimento fu opera della borghesia e delle classi letterate, una percentuale molto bassa della popolazione. A Milano gran parte degli abitanti sapeva leggere e scrivere. Lo stesso avveniva a Firenze. Ma in quasi tutto il resto d’Italia no. E infatti per l’unificazione si rivelò poi decisiva non l’iniziativa popolare, ma l’alleanza militare con la Francia di Napoleone
III. D’altronde anche l’intervento dell’Italia nel primo conflitto mondiale, spesso presentato come la quarta guerra d’indipendenza, fu voluto da una minoranza, per quanto entusiasta. Il futuro generale Angelo Gatti, una sorta di storico ufficiale delle forze armate, sottolinea all’epoca che le manifestazioni per l’ingresso in guerra sono significative a Milano e a Roma, inesistenti nel resto del Paese.
e a cura di
Ma non si tratta di aspetti già da tempo messi a fuoco dagli studiosi?
LUIGI ZOJA — Il problema è che i frutti del lavoro degli storici non arrivano ai testi scolastici e si trovano poco anche nei manuali universitari. Manca una narrazione più moderna, che sottolinei i danni generati dal nazionalismo risorgimentale, prodromo del fascismo, e sia in linea con il processo di superamento delle barriere tra gli Stati e di costruzione dell’unità europea nel quale siamo entrati dopo il Manifesto di Ventotene.
Questi rilievi chiamano in causa gli storici. Che ne dice Cammarano? Non siete riusciti a modificare la narrazione dominante della vicenda unitaria?
FULVIO CAMMARANO — Il Risorgimento non è stato un fenomeno di massa, ma neppure una congiura di poche élite e comunque quel nazionalismo nella prima metà del XIX secolo fu funzionale a diffondere un’idea di partecipazione popolare e democrazia in cui la nazione era, come scrive Federico Chabod, «in indissolubile connessione con la libertà e l’umanità» e in contrasto
con ogni forma di autocrazia e di legittimazione teocratica. Una realtà destinata a degenerare rapidamente con il nazionalismo antiliberale e antiparlamentare avviatosi negli anni Settanta dell’Ottocento. È da lì che prende forma il nazionalismo del XX secolo in cui siamo ancora immersi e che per forza di cose continua a nutrire l’inerzia di alcune trattazioni manualistiche. Ricordiamo però che per cambiare la narrazione dominante non basta il lavoro degli accademici: serve soprattutto l’impegno della cultura politica nel suo complesso.
LUIGI ZOJA — Le mie obiezioni non riguardano infatti le opere degli storici, delle quali anzi mi sono servito: ho apprezzato molto per esempio gli studi di Alberto Mario Banti. Il problema è semmai il funzionamento delle istituzioni ufficiali italiane, che sono ancora troppo opache e accentratrici. Non si fa nulla per favorire la conoscenza della storia da parte del pubblico, al contrario di quando avviene all’estero. Il risultato è che non ci interroghiamo sul perché il liberalismo risorgimentale ha presto rinunciato ai valori che l’avevano ispirato.
Può fare qualche esempio?
LUIGI ZOJA — Pensiamo ai due massimi intellettuali italiani di fine Ottocento, Giosue Carducci e Giovanni Pascoli. Da giovani sono repubblicani e guardano con simpatia al socialismo nascente, ma poi diventano monarchici e nazionalisti. Negli scritti privati di Carducci si trovano persino accenti antisemiti che anticipano il fascismo. E allo stesso modo Pascoli, di fronte alla guerra coloniale in Libia, nel discorso La grande proletaria si è mossa esalta la «missione civilizzatrice» dell’Italia sui barbari: e il suo diritto, perché il Nord Africa era stato romano. Una narrazione isterica: anche Londra e Parigi erano appartenute a Roma!
FULVIO CAMMARANO — Il nazionalismo, fenomeno di carattere europeo, mostra da noi una particolare aggressività, ma non è certo un fenomeno di massa dal punto di vista della presenza politica. Quello che ne favorisce la penetrazione culturale in molti strati della popolazione è connesso alla competizione coloniale e al senso di frustrazione per il mancato destino di potenza internazionale che inizia con Crispi e con le prime forme di modernizzazione amministrativa e di più estesa alfabetizzazione, aspetti essenziali per ricondurre l’espansione nell’ambito del progresso e dell’avanzamento della civiltà.
LUIGI ZOJA — Direi che questo ragionamento conferma la tesi secondo cui l’Italia è affetta da un complesso nazionale d’inferiorità, accentuato dalle umiliazioni che ci sono state inferte dai nostri stessi alleati nella Prima guerra mondiale e poi nella fase successiva all’armistizio dell’8 settembre 1943.
Il libro si sofferma sull’esperienza coloniale italiana e nota che già prima dell’avvento del fascismo essa aveva connotati razzisti. Ma non vale lo stesso per tutti i Paesi europei? L’Italia è più indietro di altri nel fare i conti con quelle pagine buie del suo passato?
FULVIO CAMMARANO — L’intero fenomeno coloniale, a prescindere dalle caratteristiche che assume nelle diverse realtà nazionali, ha un carattere razzista. Si basa infatti sul principio della res nullius, sull’idea che esistano spazi e ricchezze liberamente disponibili alla conquista europea in quanto non appartenenti a nessuno. Ciò significa considerare politicamente inesistenti e umanamente inferiori le popolazioni di quelle zone del mondo, ritenute barbare o infantili a seconda del grado di resistenza che frapponevano.
Ma c’è una specificità del nostro colonialismo?
FULVIO CAMMARANO — Probabilmente l’Italia, a confronto di altri Paesi, è stata più indulgente con sé stessa rispetto ai crimini compiuti in Africa. Ha influito la sua marcata tendenza, di cui parlavo prima, a sentirsi emarginata e non riconosciuta a livello internazionale come una potenza al pari delle altre, anche perché arrivata per ultima nella gara coloniale. Quindi le avventure coloniali sono state presentate come imprese più di civilizzazione che di conquista, magari richiamandosi alla vicenda imperiale dell’antica Roma.
Questa abitudine ad autoassolverci si riflette anche nei diffusi atteggiamenti di rigetto verso l’immigrazione extraeuropea?
FULVIO CAMMARANO — Non credo. L’ostilità nei riguardi dei lavoratori stranieri mi sembra il prodotto di una narrazione politica attuale, di carattere ansiogeno, che li presenta come una minaccia. Non vedo un legame con il passato coloniale.
LUIGI ZOJA — Persiste negli italiani un’immaturità di massa, rispetto a questi temi, che affonda le sue radici nell’inconscio collettivo. Ciò che rimprovero alle istituzioni e alla classe dirigente, compresa la cosiddetta sinistra, è di non aver neppure tentato di fare i conti con l’esperienza coloniale. Certo, la Francia e la Gran Bretagna avevano imperi ben più vasti e, ciò nonostante, hanno dato lezioni di democrazia ai Paesi dell’Asse, colpevoli soprattutto, come osservava lo scrittore martinicano Aimé Césaire, di aver applicato in Europa i metodi atroci normalmente in uso nelle colonie. Ma in Italia la consapevolezza mi sembra assai inferiore.
La condanna del razzismo è insufficiente?
LUIGI ZOJA — Concerne soprattutto le leggi antiebraiche adottate dal fascismo nel 1938, delle quali in effetti si dibatte. Resta in ombra il fatto, evidenziato soprattutto dallo storico svizzero Aram Mattioli, che nelle colonie italiane norme di carattere razzista erano state introdotte già prima. Nei nostri possedimenti africani vigeva una sorta di apartheid volta ad assicurare il dominio dei coloni bianchi sulle popolazioni native, alle quali per esempio veniva riservata la sola istruzione elementare, con l’impossibilità di proseguire gli studi. Peggio ancora, la nostra politica coloniale è servita da modello per gli alleati del Terzo Reich.
In che senso?
LUIGI ZOJA — Lo storico libico Ali Abdullatif Ahmida, che insegna all’università negli Stati Uniti, ha svolto ri
cerche da cui risulta che negli anni Trenta la Germania nazista mandò suoi esponenti in Libia a studiare le deportazioni compiute in Cirenaica dal generale Rodolfo Graziani. E ufficiali della SS studiarono alla scuola di polizia coloniale di Tivoli per trarre ispirazione dalle sue pratiche. La consueta narrazione del «tedesco cattivo» e dell’«italiano buono» non corrisponde alla realtà. Forse nel nostro Paese c’era una percentuale più elevata di persone individualmente generose, ma le istituzioni agirono in modo spietato: buona parte della Cirenaica fu trasformata in un grande campo di concentramento. Sono delitti che abbiamo rimosso?
LUIGI ZOJA — Negli anni Ottanta la Bbc britannica produsse una serie intitolata Fascist Legacy, «L’eredità fascista», in cui documentava i crimini compiuti dalle forze armate italiane e spiegava le ragioni per cui, dopo la guerra, gli anglo-americani lasciarono i responsabili impuniti allo scopo di utilizzare il nostro Paese in chiave anticomunista. Quella serie televisiva fu acquistata dalla Rai e chiusa in un cassetto, mai trasmessa. Con certe vicende continuiamo a rifiutare di confrontarci.
All’estero è diverso?
LUIGI ZOJA — La Gran Bretagna si arricchì con la tratta atlantica delle popolazioni africane, ma oggi ha un museo della schiavitù, in cui quelle vicende spaventose sono illustrate senza remore. A Parigi c’è il Palais de la Porte Dorée, che era il museo delle colonie e ora ospita un allestimento dedicato al fenomeno dell’immigrazione. A Monaco di Baviera c’è un importante centro di documentazione sul nazionalsocialismo hitleriano e i suoi misfatti. Tutte iniziative che non hanno un corrispondente nel nostro Paese.
Passiamo all’Italia repubblicana. Zoja vede nel «miracolo economico» un «ritorno sotterraneo alla mentalità dei liberi comuni». Ma non si dice sempre che uno dei nostri mali peggiori è il centralismo?
LUIGI ZOJA — Volevo riferirmi soprattutto al rilancio dello spirito d’iniziativa individuale, il motore che all’epoca dei liberi comuni aveva assicurato all’Italia, secondo il grande storico francese Fernand Braudel, un vantaggio di due secoli sul resto d’Europa. Se oggi il nostro Paese resta fra le nazioni più progredite, è grazie all’ossatura economica della media e piccola impresa, che sin dagli anni Quaranta ha conosciuto uno sviluppo impressionante. Quanto al centralismo, si tratta di un vizio d’origine che risale alle scelte della monarchia sabauda, che estende la legislazione piemontese all’Italia intera, e si rafforza con la pretesa delle classi dirigenti — ossessiva in Benito Mussolini, ma presente già nell’opera di Vincenzo Gioberti — di richiamarsi all’Impero romano piuttosto che all’esperienza delle autonomie comunali.
Che cosa cambia dopo il 1945?
LUIGI ZOJA — Troppo poco. Mentre la Germania postbellica si costituisce come Stato federale, con forme accentuate di autogoverno dei Länder, in Italia il decentramento è molto timido, tanto è vero che poi la questione è riemersa con l’avvento della Lega. Da una parte quel movimento ha posto esigenze trascurate, dall’altra si è fatto portatore di una forte retorica populista. D’altronde, in realtà, bisogna parlare di due Leghe diverse. Una delle origini, localista e tendenzialmente addirittura secessionista. E quella odierna, guidata da Matteo Salvini, meno interessata al federalismo e proiettata a raccogliere consensi su scala nazionale.
Però oggi la Lega insiste sull’autonomia differenziata, che secondo alcuni mette a rischio l’unità dello Stato. È conciliabile questo disegno con il nazionalismo di Fratelli d’Italia?
LUIGI ZOJA — La maggioranza parlamentare sta cercando un punto di equilibrio tra istanze localiste e stataliste. Si stanno inventando un compromesso che però non ha molto a che vedere con la valorizzazione delle storiche diversità italiane sacrificate dal Risorgimento.
FULVIO CAMMARANO — Si tratta di un’evidente contraddizione. Già oggi la nazione è uno strumento inadatto ad affrontare problemi che hanno una portata troppo vasta rispetto alle dimensioni statali. Arroccarsi in piccoli feudi regionali è poi una risposta ancora più anacronistica: una scelta che segnala insicurezza, nonostante il clima politico favorevole alla destra. A mio avviso, rispetto al tema chiave delle scelte politiche che andrebbero sempre fatte in funzione della soluzione dei problemi, la strada da percorrere è quella europea, in confronto alla quale oggi i singoli Paesi dell’Unione rappresentano qualcosa di simile a ciò che erano nell’Ottocento gli Stati preunitari rispetto alla nazione italiana.
Non è un programma irrealistico, in un contesto di ripresa dei nazionalismi?
FULVIO CAMMARANO — L’Europa ha dietro di sé anni di faticoso e non sempre coerente lavoro volto all’integrazione e attualmente, da questo punto di vista, è ancora un cantiere aperto e a geometria variabile. Dobbiamo fare in modo che diventi un effettivo e accogliente habitat politico-culturale, in cui tutti i cittadini possano sentirsi a casa. Non si tratta di un’astratta impostazione cosmopolita, ma di una riflessione razionale circa il modo in cui la politica può aiutarci a superare le drammatiche incognite dei nostri tempi che ormai arrivano a doversi confrontare con la sopravvivenza del genere umano. L’attuale frammentazione dei poteri dovrebbe quindi essere considerata una fase ormai esaurita e da superare. Di questo si deve occupare una classe dirigente responsabile e proiettata verso il futuro.