Corriere della Sera - La Lettura
UNA NOTTE LUNGA 45 ANNI
Nata in Germania, figlia di esuli iraniani, finalista dello Strega Europeo, scrive contro il silenzio
Quando, a seguito del movimento Donna-Vita-Libertà, Mohammad Hassanzadeh venne ucciso in strada, fu necessario difendere il suo cadavere. Questo, le persone in Iran lo sanno: le spoglie mortali dei loro cari troppo spesso vengono rubate e sottratte per insabbiare omicidi di Stato e impedire la sepoltura, un altro momento di potenziale protesta. Quando Mohammad Hassanzadeh venne ucciso, fu il suo amico Shahriar Mohammadi a rimanere tutta la notte accanto alla sua salma per proteggerlo.
Ancora oggi non riesco a dimenticare la foto circolata sui social media, per quanto sia tutt’altro che spettacolare. È solo l’istantanea di una notte terribile, non c’è nulla in essa che voglia mitizzare o mistificare quanto è ritratto. Shahriar Mohammadi siede in terra, gli occhi rivolti al corpo dell’amico, che riposa avvolto in una coperta al centro di una stanza per il resto completamente vuota. La foto è sfuocata, l’inquadratura storta, a malapena riconosciamo Shahriar
Mohammadi. Eppure, riusciamo a vedere la sua stanchezza; si appoggia in parte al pavimento, in parte alle ginocchia. Un corpo che, se non fosse costretto a fare esattamente il contrario per una notte intera, si affloscerebbe.
Alle prime luci dell’alba, Mohammad Hassanzadeh viene sepolto e qualcuno spara a Shahriar Mohammadi che sta tornando a casa dopo il funerale. Quando è stata scattata la foto, nessuno poteva immaginare che quella sarebbe stata l’ultima notte della sua vita. L’Iran è ricco di storie come questa e lo siamo anche noi nella diaspora. Noi che viviamo notti senza paura e senza morte. Notti piene di lacrime, ma ormai da tempo le lacrime non contano più. Perché in Iran è notte da quarantacinque anni. Da quarantacinque anni aspettiamo che giunga il mattino. Anche se non abbiamo ancora compiuto quarantacinque anni — io ne ho trentacinque — sono quarantacinque anni che aspettiamo la luce. Io aspetto da quarantacinque anni che arrivi il mattino.
In un’infinità di contesti culturali la notte è metafora di dolore e di oppressione; dobbiamo lasciarcela alle spalle per raggiungere la felicità. Quanto è seducente l’idea che una notte che si conclude segni una fine e un giorno che comincia una liberazione. Tuttavia, la metafora tace che la notte è destinata a tornare, che ogni nuovo giorno è solo un’interruzione della notte, non la sua fine. Nel caso della Repubblica islamica dell’Iran sembra sempre che la notte possa finire da un momento all’altro, solo per tornare con tutta la sua forza, ancora più nera di prima.
Il titolo del mio romanzo Di notte tutto è silenzio a Teheran incarna narrativamente la soggettività delle mie voci narranti. È chiaro che si tratta di una menzogna — come succede in tutte le metropoli, a Teheran non c’è mai silenzio — eppure la sedicenne Laleh, che pronuncia questa frase, non mente quando insegue questo pensiero. Quando per la prima volta torna in Iran dopo esserne sfuggita con i genitori e il fratello, sono giorni pieni di festeggiamenti nella cerchia famigliare e solo le notti le offrono momenti di quiete. E dentro questa quiete sente la madre e le zie dare voce in un sussurro alla vera realtà, scambiarsi segreti che di giorno non posso essere pronunciati.
«Silenzio»: questa la conclusione errata di chi non ascolta attentamente. Dopo le proteste del settembre del 2022, proteste inizialmente molto rumorose, oggi sembra infatti che tutto sia silenzioso in Iran. Le strade si sono svuotate, le esecuzioni hanno raggiunto livelli record, il mondo — giustamente — guarda a Israele e Gaza, perché la Repubblica islamica ha fatto in modo a suon di sangue che fosse così. Da fuori si potrebbe credere che la notte sia tornata, che la breve luce delle proteste abbia avuto l’unica conseguenza di produrre una sofferenza ancora più grande. Si potrebbe credere che il giorno abbia fallito ancora una volta. Eppure la frase «Di notte tutto è silenzio a Teheran» o, ancora meglio, «Di notte tutto è silenzio in Iran» continua a essere il trabocchetto che è sempre stata. Perché se da un lato il buio rappresenta il coltello alla gola, dall’altro è anche lo spazio sicuro del contraccolpo. In Iran le persone hanno dimostrato nei decenni passati che la loro vita nell’oppressione non può essere scambiata per consenso al regime.
C’è molto che contraddice il silenzio in questo momento. Molte donne escono di casa senza indossare l’hijab obbligatorio; le neolaureate pubblicano per l’occasione video in cui cantano, ballano e guidano moto; chi è in prigione intraprende scioperi della fame. L’elenco potrebbe continuare all’infinito e comunque non contemplerebbe i piccoli atti di resistenza delle persone normali. Tutto ciò non muta affatto l’oscurità e, in ogni caso, sarebbe presuntuoso starsene al sicuro all’estero a parlare di speranza, senza trovarsi a correre alcun rischio. Non possiamo negare l’oscurità solo perché ci sembra seducente. Ma possiamo ricordarci che da quarantacinque anni la notte è in grado di insegnarci il suo potenziale. Che la notte è da sempre luogo di resistenza. Che quello che ha fatto Shahriar Mohammadi è un atto di resistenza, anche se da una foto sfocata non a tutti è possibile riconoscerlo. E questa resistenza ha una storia, una continuità e un futuro.
Perché in Iran tutti questi anni c’è stato il buio, ma non c’è mai stato il silenzio.
(traduzione di
«Perché il tedesco attraversa una continua evoluzione senza però trasformarsi in una farfalla…». Lo scriveva Johann Wolfgang von Goethe al diplomatico Franz Bernhard von Buchholz nel febbraio del 1814 e la sua frase, come molte sentenze del sommo poeta, suona profetica. O ironica. Si provi, infatti, da italofoni per nulla avvezzi o anche solo poco allenati alla pronuncia germanica a leggere ad alta voce il nome intero dell’epistolografo e del suo destinatario e a sentirsi leggeri come l’alato lepidottero.
Eppure il tedesco — la lingua quest’anno ospite d’onore del Salone del Libro di Torino — vola. «La — incomparabilmente — magnifica lingua tedesca», e «la sontuosa lingua tedesca», scrive Peter Handke nei suoi diari, lui che venera Goethe e venera il proprio idioma, conservato per pensare, scrivere, vivere nel suo romitaggio francese. Vola il tedesco di Goethe quando messo in musica — vertont, una delle tante espressioni sintetiche e calzanti di questa lingua, spesso intraducibili con una sola parola —, vola trasformato in un canto nei Lieder di Mozart, di Schubert, di Hugo Wolf e non solo.
Lingua formidabile per morfologia, ricchezza di lessico, possibilità sintattiche, struttura naturalmente logica, per i segreti che custodisce negli etimi, per le sorprese che riserva nella composizione e scomposizione delle parole. La lingua dei filosofi, la lingua dei poeti. Anche la lingua del potere, oggi e in vari momenti del passato, della politica, dell’economia, della comunicazione globale. Più di qualsiasi altra lingua, tuttavia, vittima di pregiudizi, preclusioni, resistenze, fraintendimenti. Perché?
Croce e delizia dei parlanti stranieri
Perché è difficile, si dice. Perché è cacofonica, si crede. Perché è poco simpatica e consta di parole chilometriche, si aggiunge. Perché è impossibile pronunciarla, impararla, capirla, si teme. «Il tedesco è un congegno perfetto e perfettamente insensato inventato da un pazzo con il mal di denti», scriveva Mark Twain negli anni Settanta dell’Ottocento. L’umorista statunitense fu arguto detrattore, anzi, accusatore della vituperata lin
Per Goethe era un idioma in perenne evoluzione che ancora non si era trasformato in farfalla, per Mark Twain la creazione di un pazzo con il mal di denti, a noi italiani suscita ancora diffidenza anche se si tratta di una delle nostre parlate nazionali (non solo in Alto Adige): la lingua ospite si presenta al Salone forte di una diffusione globale e della capacità di adattarsi bene a contesti migratori e multiculturali