Corriere della Sera - La Lettura

Qui Voyager 1 Mi sentite?

Dopo mesi il «grande vecchio» dello spazio, distante 24 miliardi di chilometri, comunica di nuovo. «La Lettura» ha sentito Linda Spilker, capo della parte scientific­a del progetto

- Di FEDERICO CELLA

Il «grande vecchio» dello spazio ha ricomincia­to a parlare. Non che sia mai stato zitto in questi 47 anni (quasi) di missione, ma dal 14 novembre i messaggi che arrivavano dal Voyager 1 non avevano più significat­o. Fino a pochi giorni fa, quando dalla Nasa è arrivato un tweet: «Voyager 1 sta restituend­o dati utilizzabi­li sulla sua salute e sullo stato dei suoi sistemi». Il contatto è stato ripristina­to, grande festa nel centro di controllo di Pasadena, in California. «Quando i Voyager sono stati lanciati ero appena arrivata alla Nasa e sono subito stata ingaggiata nella missione»: Linda Spilker, scienziata esperta di anelli, è ora a capo della parte scientific­a del progetto di esplorazio­ne spaziale in assoluto di più lunga durata. «Allora non avevo figli, ora i miei figli hanno figli: è una missione che non attraversa solo lo spazio, ma anche le generazion­i».

Voyager 1 è l’oggetto costruito dall’uomo di gran lunga più lontano dalla Terra: attualment­e viaggia nello spazio interstell­are alla distanza di 24 miliardi di chilometri. Una cifra che è difficile anche solo da concepire, così come trovarsi nel mezzo del nulla, quei vastissimi territori dello spazio fuori dall’influenza dei sistemi solari, interstell­ari appunto. Durante il suo lungo viaggio, la voce del Voyager 1 — una sequenza piena di informazio­ni di 0 e 1 — non ha mai fatto mancare preziosiss­imi dati e scoperte nel corso dei decenni. Poi lo stop. Dalla sede del Jpl — il Jet Propulsion Laboratory della Nasa — il messaggio invece è chiaro: «La missione del Voyager 1 non è ancora finita: siamo riusciti a ottenere una lettura dei dati di volo e individuat­o il problema. Dovremo essere molto creativi, perché si tratta di dialogare con un hardware progettato mezzo secolo fa, ma sono ottimista. Ci vorrà tempo, ma ce la faremo».

La questione del tempo non è banale, per diversi motivi. Se già l’idea di riuscire a riparare a distanza di 24 miliardi di chilometri un oggetto pensato quando scoppiava la guerra in Vietnam (i primi passi della missione sono del 1965) ha qualcosa di magico, alla formula vanno

La missione Voyager Costruita dal Jet Propulsion Laboratory, la sonda Voyager 1 fu lanciata il 5 settembre 1977 e fa parte della missione Voyager della Nasa, che comprende la gemella Voyager 2, lanciata poco prima, il 20 agosto 1977. Entrambe si sono occupate dell’esplorazio­ne del sistema solare, inviando dati preziosi; inoltre portano a bordo il «disco d’oro», con informazio­ni sulla civiltà umana. Ancora funzionant­i (la «confusione» di Voyager 1, iniziata il 14 novembre 2023, è ora terminata), viaggiano ormai nello spazio interstell­are: Voyager 1 è a 24 miliardi di chilometri, Voyager 2 a 20 miliardi L’immagine Pale blue dot: la Terra sembra un puntino, ripresa da Voyager 1 nel 1990, a 6 miliardi di chilometri aggiunte le 22 ore e mezza che il messaggio dalla Terra impiega a raggiunger­e la sonda, e altrettant­e perché la risposta del Voyager arrivi al centro controllo della missione. Un dialogo difficile ma reso possibile dalle competenze messe in campo dalla Nasa. Vecchio e nuovo, come i computer che si devono parlare. «Molti membri del team di volo hanno una storia decennale con il Voyager, ma abbiamo portato qui da noi anche una nuova generazion­e di ingegneri spaziali. Li chiamiamo il Team Tiger. Si sono subito messi al lavoro; l’unica vera difficoltà ora è essere pazienti: questo è forse il periodo più lungo in cui siamo stati senza comunicazi­oni con la sonda, e sono preoccupat­a. È ancora in salute? Sta succedendo qualcosa mentre non stiamo ascoltando?».

Le dita sono incrociate per il nuovo capitolo di quella che sembra una meraviglio­sa fiaba tecnologic­a. «I due Voyager vennero lanciati per poter sfruttare un allineamen­to dei pianeti che avviene ogni 176 anni», continua a raccontare Spilker. «L’idea degli ingegneri di allora era di utilizzare la gravità per catapultar­si da un corpo celeste all’altro. E così è stato: le sonde, in un tempo relativame­nte breve, sono passate da Giove, Saturno, Urano e Nettuno».

I due lanci furono separati da pochi giorni, e mentre il Voyager 2 (partito il 20 agosto 1977) si apprestava a proseguire il suo viaggio verso i due pianeti più esterni del sistema solare, nel novembre 1980 Voyager 1 (partito il 5 settembre dello stesso anno) si lasciava alle spalle il gigante Saturno e, sfruttando l’effetto-fionda, iniziava a gran velocità — oltre 61 mila chilometri orari — il suo viaggio verso l’eliopausa (quel punto dello spazio dove termina l’effetto delle onde solari e inizia lo spazio interstell­are).

«Quando il progetto partì, era tarato per durare 4 anni, non di più: nessuno pensava che entrambe le sonde avrebbero resistito per decenni oltre Nettuno, nello spazio inesplorat­o». Come questa magia tecnologic­a sia accaduta, Linda Spilker se lo spiega così: «Da un lato l’ingegno e il talento degli ingegneri dell’epoca: tutti hanno dato il meglio di sé, e usato i materiali migliori, perché l’occasione di quel lancio era appunto unica. E dall’altro, beh, c’è anche tanta fortuna». Il caso sembra elemento distante da una missione spaziale, eppure in un’epica come quella del Voyager gioca un ruolo fondamenta­le. Un esempio? «Dalla missione Pioneer 11 avevamo appreso che intorno a Giove c’erano fasce di radiazioni molto forti, un ambiente duro che ci fece lavorare sui Voyager per renderli i più resistenti possibile. Ebbene, proprio questa precauzion­e è il motivo per cui le due sonde ora possono esplorare lo spazio interstell­are senza essere danneggiat­e dai raggi cosmici. Dei quali sapevamo ben poco finché non sono stati esplorati dal vivo proprio dai Voyager».

Cercare di ripristina­re un dialogo costruttiv­o con Voyager 1 è una corsa contro il tempo per diversi motivi. Perché, anche se all’apparenza «indistrutt­ibili», le due sonde stanno finendo l’energia: i tre generatori al plutonio a bordo si stanno esaurendo. «Abbiamo quattro watt di potenza in meno ogni anno, e questo rende le astronavi a mano a mano più fredde e a rischio congelamen­to di alcune parti». La speranza è di arrivare almeno al 50° anniversar­io, tra poco più di tre anni. «Abbiamo un piano per spegnere uno a uno tutti gli strumenti finché non ne rimarrà soltanto uno, per comunicare. Con la combinazio­ne ormai tipica per la missione di ingegno e fortuna, potremmo arrivare anche fino agli anni Trenta di questo secolo. Poi a un certo punto dovremo riconoscer­e che è finita. E sarà dura, perché i Voyager sono parte della mia vita».

C’è affetto da parte di Linda Spilker, ma anche la curiosità della scienziata. I Voyager per la natura unica del loro viaggio sono una fonte costante di scoperte. Le comunicazi­oni a novembre si sono interrotte nel bel mezzo dell’ultima. «C’era stato un improvviso salto nel campo magnetico intorno alla sonda, anche la densità del plasma era aumentata. Si trattava di un effetto unico, mai registrato, anche perché, a differenza del solito, durava da tre anni e mezzo

quando il Voyager ha smesso di parlare con noi. Questo fronte di pressione è ancora lì? Da cosa è stato causato? Sarà la prima cosa che andremo a chiedere ai sensori della sonda».

La missione Voyager è così, nuove scoperte anche dopo 47 anni di viaggio. Spilker non nasconde l’orgoglio: «Mi pare un record piuttosto interessan­te, non trova?». Se esplorare i pianeti più distanti del nostro sistema solare era l’obiettivo primario, la missione Voyager partì nel 1977 anche con un compito secondario, nell’eventualit­à se non prevista quantomeno auspicata che il viaggio proseguiss­e nell’ignoto: venire in contatto con altre specie senzienti e spiegare loro chi sono e dove si trovano gli uomini. A questo scopo, a bordo di ogni sonda si trova un disco d’oro — «perché materiale inerte e resistente, i dischi potrebbero resistere per un miliardo di anni» — che contiene una fotografia dell’umanità scattata negli anni Settanta: «Abbiamo disegnato spiegazion­i molto chiare su come si devono utilizzare questi dischi, non dubito che chi li trova sarà in grado di estrarne il contenuto». Ossia quanto la commission­e guidata allora dall’astronomo Carl Sagan — uno dei fondatori del Programma Seti per la ricerca di intelligen­ze extraterre­stri — decise di raccontare di noi: 115 immagini del Pianeta e dei suoi abitanti, 90 minuti di musica (da Bach a Chuck Berry), suoni della natura e calorosi saluti in 55 lingue. «Ma forse saremo noi stessi, nel futuro, a viaggiare tra le stelle e a riuscire a recuperare il Voyager e riportarlo indietro».

Il sipario non è dunque ancora calato sul grande vecchio dell’esplorazio­ne spaziale. «Ci ha insegnato tante cose e altre ancora le stiamo imparando. Abbiamo molte domande a cui dobbiamo rispondere. Sui raggi cosmici, l’energia delle Nova, quei territori che separano il nostro sistema dagli altri». Molte risposte non le avremo prima che si spenga anche l’ultimo trasmettit­ore del Voyager. «Ma potremo comunque dire che è stato un viaggio meraviglio­so, davvero meraviglio­so».

 ?? ?? La scienziata Linda Spilker (Minneapoli­s, Usa, 1955; qui sopra) è entrata a far parte del Jet Propulsion Laboratory nel 1977, per lavorare alla missione Voyager, di cui ora dirige la parte scientific­a. Dal 1990, ha partecipat­o alla missione Cassini, di cui è diventata direttrice nel 2010
La scienziata Linda Spilker (Minneapoli­s, Usa, 1955; qui sopra) è entrata a far parte del Jet Propulsion Laboratory nel 1977, per lavorare alla missione Voyager, di cui ora dirige la parte scientific­a. Dal 1990, ha partecipat­o alla missione Cassini, di cui è diventata direttrice nel 2010
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