Corriere della Sera - La Lettura

Il movimento con il fucile che attuava il welfare

L’organizzaz­ione afroameric­ana praticava l’autodifesa, ma non infiammò la violenza. In compenso convinse a votare molte persone escluse dal sistema

- Di GIOVANNI BERNARDINI

«Il Black Panther Party, senza dubbio, rappresent­a la più grande minaccia alla sicurezza interna del Paese»: così alla fine degli anni Sessanta si esprimeva J. Edgar Hoover, direttore dell’Fbi durante un quarantenn­io di guerre contro ogni genere di nemico, reale o immaginari­o, della sicurezza degli Stati Uniti. Da allora e ben oltre lo scioglimen­to del 1982, le Pantere nere sono contese da due interpreta­zioni estreme: da un lato, chi le equipara alla violenza criminale; dall’altra, chi invece ne esalta i simboli, il linguaggio e i rituali senza grande consideraz­ione del contesto in cui nacquero. In mezzo non c’è la verità, qualunque cosa significhi, ma la storia complessa, articolata e contraddit­toria di un esperiment­o politico che sfugge a facili categorizz­azioni e che, anche per questo, è poco nota all’opinione pubblica. Quest’ultima ha ora a disposizio­ne un utile strumento di approfondi­mento nel ricco volume di Bruno Walter Renato Toscano Pantere nere, America bianca (Ombre corte), frutto di ricerche in ogni angolo degli Stati Uniti a caccia di archivi pubblici e privati, impreziosi­to dalle interviste ai protagonis­ti ancora in vita di quella stagione.

La storia, dunque. Toscano ne rintraccia le origini nell’Ottocento, quando il vissuto collettivo della schiavitù e della subalterni­tà razziale spingeva gli afroameric­ani a percepirsi come una «nazione dentro alla nazione», costretta ad auto-organizzar­si per sopravvive­re e a lottare per l’emancipazi­one senza attendersi aiuti dai dominatori «bianchi». Nonostante alcuni progressi formali, la condizione di sottomissi­one materiale dei «neri» non conobbe mutamenti sostanzial­i nemmeno nella prima parte del secolo successivo, soprattutt­o nel profondo Sud del Paese. Sebbene il Civil Rights Act nel 1964 bandisse qualunque discrimina­zione razziale, gli stessi anni videro un aumento della violenza poliziesca nei confronti degli afroameric­ani e la conseguent­e reazione di questi ultimi, culminata nella rivolta del 1965 che infiammò Los Angeles e causò più di trenta vittime. Lo stesso anno veniva ucciso in circostanz­e mai del tutto chiarite Malcolm X, «profeta della comunità nera» che aveva sempre rifiutato di rigettare la violenza come metodo di lotta; parallelam­ente, la via non violenta predicata dal reverendo Martin Luther King era accusata di inefficaci­a da una parte della comunità afroameric­ana.

In quella temperie, un ristretto gruppo di attivisti radunato a Oakland (California) ritenne maturi i tempi per la creazione di un partito di massa armato, che attraverso la propria diffusione potesse proporre un programma di cambiament­o radicale e al contempo operare per l’autodifesa della popolazion­e afroameric­ana. Toscano si sofferma su quest’ultimo aspetto, anche perché l’immagine delle pattuglie di militanti armati che accorrevan­o al primo accenno di abuso poliziesco ha reso celebre il movimento anche fuori dai confini statuniten­si. Eppure, l’autore offre già una chiave di lettura che costringe a rivedere assunti consolidat­i.

L’autodifesa organizzat­a, predicata e praticata dalle Pantere nere, contrastav­a innanzitut­to la periodica esplosione della violenza incontroll­ata. Laddove la prima funzionava meglio, la seconda si verificava più di rado: proprio Oakland, culla del movimento, fu l’unica grande città risparmiat­a dalle rivolte di quegli anni. Toscano ricorda anche quanto fosse fondamenta­le per la legittimaz­ione del movimento l’inaugurazi­one di veri programmi sociali per la comunità nera che supplivano alle carenze del welfare pubblico: dalle colazioni gratuite per i bambini alle ambulanze, dalle cliniche mediche all’educazione di base.

Ciò non bastò a evitare che il partito diventasse l’oggetto di una repression­e feroce, tanto che ne risultò presto decapitato dei suoi vertici. Questo non impedì l’apertura di un numero crescente di sezioni in altrettant­e città, spesso all’insaputa del Comitato centrale. In un’organizzaz­ione tanto labile, caotica e conflittua­le, l’unico collante era rappresent­ato dal giornale ufficiale del movimento. Un modello di partito del tutto alieno rispetto alle esperienze europee, ma che, a ben guardare, non era del tutto dissimile dalla struttura tradiziona­le dei partiti «leggeri» statuniten­si.

Soprattutt­o, il volume di Toscano approfondi­sce il tentativo del Black Panther Party di assumere la guida della galassia dei movimenti di protesta e di intraprend­ere una politica di alleanze in patria e nel mondo. Un progetto ambizioso, non esente da forzature né privo di cocenti delusioni, che mise il partito di fronte all’impossibil­ità di convogliar­e tante istanze conflittua­li in una proposta ideologica coerente: l’ispirazion­e marxista-leninista e il separatism­o nero; un retaggio machista duro a morire e il dialogo con il femminismo della seconda ondata e persino col nascente movimento gay; la collaboraz­ione con il movimento comunista internazio­nale e l’ostilità riservata tanto all’«imperialis­mo» sovietico quanto al settarismo di molti movimenti armati (chi leggerà il libro sarà sorpreso dalla condanna senza appello riservata alle Brigate rosse); il policentri­smo e l’imposizion­e di una linea comune; e infine, ovviamente, la conciliazi­one tra metodi violenti e tentativo di ingresso nelle istituzion­i.

Proprio su questo punto, tuttavia, il volume non rinuncia a trarre conclusion­i stimolanti. Se il Black Panther Party era ormai esausto ben prima del suo scioglimen­to, vittima delle proprie contraddiz­ioni quanto del mutamento dei tempi e della repression­e, nondimeno la sua eredità di più lungo periodo risiede probabilme­nte nella svolta degli ultimi anni, quando si prodigò per spingere alla partecipaz­ione elettorale masse di afroameric­ani rimaste a lungo marginali, e per convogliar­e i loro voti verso candidati espressi dalla comunità nera o sensibili alle sue rivendicaz­ioni. In tal modo, da un movimento nato dal separatism­o e forgiato dalla lotta violenta scaturiva una spinta al rinnovamen­to degli equilibri politico-istituzion­ali.

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 ?? ?? Tommie Smith, sul podio più alto, e John Carlos, terzo classifica­to nella gara dei 200 metri all’Olimpiade di Città del Messico nel 1968, alzano il pugno guantato di nero, simbolo del Black Power
Tommie Smith, sul podio più alto, e John Carlos, terzo classifica­to nella gara dei 200 metri all’Olimpiade di Città del Messico nel 1968, alzano il pugno guantato di nero, simbolo del Black Power

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