Corriere della Sera - La Lettura
Dimitri from Paris Una vita (e più) da dj
I primi esperimenti con le musicassette, la scoperta delle potenzialità del giradischi, i contratti e poi il successo con i suoi remix: un protagonista della scena disco fa un bilancio e annuncia il nuovo brano, una rilettura dei Jamiroquai
Nell’epoca in cui tutto (o quasi) è riproducibile, ha suscitato aspre polemiche la disastrosa performance di Grimes, artista canadese che in passato è stata legata all’imprenditore Elon Musk, al festival di Coachella, in California: durante il suo dj set la musica si è interrotta più volte a causa di «problemi tecnici» che la cantante ha provato a giustificare tirando in ballo i suoi assistenti, responsabili di non avere impostato nel modo corretto il software utilizzato per suonare (ma un professionista dall’orecchio allenato avrebbe saputo come gestire l’impasse). «Oggi tutti vogliono essere un personaggio: dj, fotografo, chef, regista… Il problema è che le persone non sono più educate a distinguere il vero dal falso, sono attratte soltanto dallo scandalo», osserva Dimitri from Paris, alias di Dimitri Yerasimos, 60 anni, dj e produttore francese di origini greco-turche che ha firmato alcuni dei remix disco e house più iconici di sempre. «Nel metaverso — aggiunge — i dj sono intrattenitori, non contano le capacità ma come si mostrano. Succede lo stesso con le recensioni dei ristoranti sul web: i piatti sembrano superbi, ma quando li provi spesso sono deludenti».
Cresciuto con un approccio da sperimentatore autodidatta, il 24 maggio pubblicherà la sua nuova gemma, rivisitazione di un classico dei Jamiroquai, Canned Heat (1999): «Quattro anni fa avevo già remixato Cosmic Girl e sono felice che la band mi abbia permesso di lavorare su questo brano in chiave disco. Mancava la versione extended, un ottimo motivo per recuperare il 12 pollici, ancora inedito, utilizzando le registrazioni originali invece dei beat elettronici».
Come nasce il suo interesse per la musica?
«Quando ero bambino mio padre ascoltava Bach, mia madre una specie di jazz stravagante, ma non mi entusiasmavano: ero attratto dall’opposto, dai suoni più ritmici. La prima volta che la musica mi ha rapito, avevo 12 o 13 anni, è stato mentre guardavo lo show televisivo americano Mission: Impossible, uno spin off della saga cinematografica di James Bond. Mi piacevano la batteria, la ritmica incalzante e i suoni dell’orchestra che mi erano familiari. Il compositore, Lalo Schifrin, sapeva utilizzare tecniche complesse rendendole popolari. Mi affascinava l’idea di creare opere articolate, un po’ da nerd, ma accessibili a tutti. L’immagine dell’artista maledetto non mi appartiene: le persone devono capire la tua musica, sta a te renderla comprensibile».
Da dove nasce l’idea di rieditare classici funk, soul e disco?
«A 16 anni compravo singoli su 12 pollici perché costavano meno dell’album e avevano una versione differente, più lunga, delle canzoni che ascoltavo in radio: c’erano la parte vocale e quella strumentale, a casa avevo un registratore a cassette e provavo a fondere l’inizio della strumentale con gli elementi vocali che volevo selezionare. Ho iniziato a farlo per hobby e quelli sono stati i miei primi, rudimentali re-edit».
In che modo ha scoperto che il giradischi poteva essere utilizzato come uno strumento per manipolare i suoni?
«A scuola i miei coetanei giocavano a calcio e nessuno era interessato alle mie cassette, pensavano fossi un freak. Poi, in un negozio di dischi semiclandestino nel seminterrato di un palazzo ho conosciuto Dee Nasty, il primo dj hip hop francese, e ho scoperto lo scratch (l’arte di alterare i suoni muovendo avanti e indietro il vinile, ndr): da quel giorno per me è cambiato tutto, non avevo idea che si potesse utilizzare il giradischi in quel modo. Ho iniziato ad allenarmi per 4-5 ore al giorno, nel frattempo ho comprato una tape machine (apparecchio per la registrazione e riproduzione sonora, ndr) e ho continuato a realizzare edit su cassetta: li ho inviati alle radio e un’emittente mi ha offerto
Canned Heat
Le immagini un programma settimanale. Nell’85 ho inciso il mio primo remix di un gruppo new wave francese che imitava i Depeche Mode, subito dopo ho rieditato in forma non ufficiale, per la stazione radiofonica in cui lavoravo, i primi due singoli di Stéphanie di Monaco: il produttore francese Yves Roze li ha ascoltati e mi ha proposto di remixare il terzo singolo… Un genere molto cheesy pop (commerciale, ndr) ma entrare in un grande studio di registrazione con consolle ultraprofessionali per me era un sogno».
Quando è decollata, invece, la sua carriera da dj?
«Dopo 15 anni in radio e alcune esperienze nei club, ho ricominciato negli anni Novanta: in quel periodo i locali hanno iniziato a ingaggiare i dj, che hanno smesso di essere resident o “impiegati”, aprendo la strada a un fenomeno poi diventato dominante e che permane tuttora. La radio mi ha aiutato perché, senza vedere le persone davanti a te, devi immaginare la loro reazione: per questo i miei re-edit devono essere suonabili per me e anche per gli altri. Mi chiedo sempre: “C’è davvero bisogno di remixare questo brano?”. Se intervengo su un pezzo molto noto, penso agli Chic o alle Sister Sledge, voglio che il ricordo sia lo stesso ma cambiarlo abbastanza da sorprendere gli ascoltatori. Quando suono ho sempre la sensazione che il pubblico non sia all’apice del divertimento, io invece voglio che risponda al massimo».
Qual è la genesi del suo album più celebre, «A Nigh at The Playboy Mansion»?
«Ero alla Miami Music Conference, che è un po’ come il Festival di Cannes dei dj, con Respect Is Burning, il team con cui organizzavo eventi a Parigi, e la rivista “Playboy” voleva sponsorizzarci. Abbiamo accettato in cambio di un’operazione di co-branding sulle magliette con il logo del magazine, che in quegli anni era molto popolare. La richiesta successiva è stata di andare a suonare a Los Angeles nella villa di Hugh Hefner, il proprietario, ma serviva un motivo valido e abbiamo rilanciato con la proposta di realizzare un concept mix album… un’ottima scusa per organizzare una festa in quel posto dall’aura mitologica. È filato tutto liscio, abbiamo firmato un accordo con Virgin France e il gioco era fatto. Ricordo un volume della Taschen sulla Playboy Mansion con immagini di party epici degli anni Settanta, l’estetica si raccordava alla perfezione con l’immaginario della disco… Ho selezionato tracce per lo più classiche, altre nuove, le ho mixate su vinile e ho registrato tutto dal vivo nel mio studio a Parigi. Nel corso degli anni ho incontrato molte persone che mi hanno detto: “Quel disco mi ha cambiato la vita”, ma nessuno di noi pensava che potesse avere tanto successo. Al contrario, è stato decisivo nel lanciare la mia carriera internazionale».
Gli artisti temono l’impatto dell’Intelligenza artificiale sulla creatività umana e sul diritto d’autore: lei che cosa prevede?
«Sono curioso di vedere se uscirà il remix di un finto Dimitri from Paris creato dall’Intelligenza artificiale… Immagino che i grandi artisti resteranno, gli altri scompariranno. Tutti rielaborano, io lo faccio da una vita, succede da sempre con i campionamenti… In compenso i prodotti dell’intelligenza artificiale saranno tracciabili come avviene già con gli Nft (i certificati di proprietà sulle opere digitali, ndr). Non sono contrario alla tecnologia ma serve di sicuro una qualche forma di regolamentazione».
Se potesse riportare in vita qualcuno, una persona cara o che le è stata di ispirazione, chi sceglierebbe?
«Teddy Pendergrass e Nick Ashford: avevano voci stupende, anche se molto diverse tra loro, e mi manca ascoltarle. Oggi ci sono molti cantanti R&B, ma non hanno la stessa estensione e profondità vocale».