Corriere della Sera - La Lettura
Bettin: l’eversione nera fu favorita da zone di complicità edi omertà nei settori più delicati dello Stato. Satta: i servizi intrattennero rapporti impropri con i neofascisti ma non parteciparono alle stragi
Arnaldo Forlani denuncia una minaccia di destra alla democrazia, il governo Rumor mette fuori legge Ordine Nuovo nel 1973. Piazza della Loggia è dunque una «strage di attacco» da parte di neofascisti che, sentendosi sotto pressione, passano alla controffensiva.
Che cosa ne possiamo dedurre?
GIANFRANCO BETTIN — Che la cosiddetta «strategia della tensione» ha avuto stagioni diverse. Non è un unico filo che si snoda linearmente, ma una vicenda complessa, che cambia nel tempo protagonisti e obiettivi.
VLADIMIRO SATTA — Su piazza Fontana bisogna puntualizzare che, prima della strage, gli anarchici avevano effettivamente compiuto alcuni attentati minori, rivendicandoli. Pietro Valpreda, su cui s’indirizzarono inizialmente le indagini, aveva minacciato sangue e morte. Ed era considerato uno scellerato dagli stessi anarchici milanesi, che lo avevano allontanato. Contro di lui c’erano diversi indizi, tra cui la testimonianza oculare di un tassista di fede comunista, Cornelio Rolandi.
Però alla fine Valpreda risultò innocente. VLADIMIRO SATTA — Dimostrarlo tuttavia richiese tempo. E ancora di più ce ne volle perché acquisisse concretezza la pista neofascista: decisiva fu la scoperta di un arsenale a Castelfranco Veneto nel 1971. Comunque gli indizi contro Valpreda non furono seminati dai veri attentatori, gli estremisti di destra del gruppo veneto di Franco Freda, quindi non parlerei di simulazione. È vero semmai che i neofascisti non rivendicavano mai i loro crimini e negavano sempre la loro responsabilità, lasciando così un alone d’incertezza sulla matrice. Passiamo al raffronto tra Milano e Brescia. VLADIMIRO SATTA — La fine del 1969 e la primavera del 1974 sono fasi profondamente diverse. Al tempo di piazza Fontana l’Italia aveva appena vissuto un biennio di intense proteste sociali, studentesche e operaie, con seri problemi di ordine pubblico. Il governo monocolore democristiano di Mariano Rumor faticava a fronteggiare la situazione, anche perché la maggioranza di centrosinistra era uscita indebolita dalle elezioni del 1968.
La destra estremista vide allora un’occasione storica per colpire. E Franco Freda, legato a Ordine Nuovo, ipotizzò che la strage potesse innescare la «disintegrazione del sistema» borghese. Ma fece male i suoi conti.
Come cambia il contesto nel 1974?
VLADIMIRO SATTA — L’eccidio di Brescia è una vendetta contro la repressione che si era sviluppata sul piano giudiziario e contro la ripresa dell’antifascismo in campo politico. Si era rafforzato l’«arco costituzionale», che accomunava forze di governo e opposizione comunista in nome dei valori della Resistenza. E la giustizia aveva imboccato la pista nera per piazza Fontana, mentre Ordine Nuovo era stato sciolto nel novembre 1973, dopo il processo ai suoi dirigenti in cui la pubblica accusa fu rappresentata dal magistrato Vittorio Occorsio, poi assassinato dal neofascista Pierluigi Concutelli nel 1976. Insomma, nel 1974 lo stragismo nero si sente alle strette e per questo torna a colpire, ma poi si esaurisce.
GIANFRANCO BETTIN — L’eversione attraversa fasi differenti. Gli attentati compiuti dagli anarchici nel 1969 favorirono i depistaggi in quella direzione, che almeno all’inizio poteva sembrare credibile. Ma su piazza Fontana si erano accumulati indizi precisi contro gli estremisti di destra già nei giorni immediatamente successivi all’eccidio, con la testimonianza di Guido Lorenzon. E ancora prima della strage ci furono le indagini su Franco Freda, a Padova, del commissario Pasquale Juliano, che furono fermate dai suoi superiori.
A mezzo secolo dai fatti, sono tuttora in corso procedimenti per l’eccidio di Brescia, contro gli ordinovisti Marco Toffaloni e Roberto Zorzi. In precedenza due estremisti di destra, Carlo Maria Maggi (morto nel 2018) e Maurizio Tramonte, sono stati condannati in via definitiva soltanto nel 2017. Come mai è risultato così difficile perseguire i colpevoli delle stragi? Forse perché i neofascisti hanno potuto contare su diffuse connivenze negli apparati di sicurezza?
GIANFRANCO BETTIN — Non parlerei solo dei servizi segreti e delle forze dell’ordine. Ci sono state nella magistratura e nella politica figure che videro con favore il dispiegarsi di una strategia aggressiva contro i fondamenti della convivenza civile. C’è un coacervo di depiganizzazione staggi, complicità, omertà che favorisce i neofascisti ed è il presupposto della sicumera che i terroristi neri ostentano, sentendosi tutelati in certe questure, prefetture, procure dagli apparati dello Stato. L’agibilità dell’estrema destra in settori così delicati viene confermata dai tanti ostacoli posti alle inchieste sulle stragi.
Per questo la magistratura procede a rilento? GIANFRANCO BETTIN — Le indagini sulle bombe hanno un grado di complessità che non va disconosciuto e non si può fare di ogni erba un fascio. Non solo dentro la magistratura, ma anche negli apparati di sicurezza ci sono atteggiamenti diversi. Però i depistaggi complicano molto le indagini. Per rimanere al caso di Brescia, certo non agevolò l’inchiesta il fatto che tra gli incaricati d’investigare ci fosse l’allora capitano e poi generale dei carabinieri Francesco Delfino, che era assai vicino a molti di coloro che poi sono risultati coinvolti nell’attentato. C’era un dispositivo eversivo che aveva vari obiettivi, sul terreno geopolitico e su quello interno, e poteva contare su esponenti dello Stato.
VLADIMIRO SATTA — Il problema di fondo è che gli attentati stragisti non vengono rivendicati, il che aumenta le difficoltà nel trovare i colpevoli. Quando i neofascisti intraprendono, con i Nuclei armati rivoluzionari, una lotta armata simile a quella dei terroristi di sinistra, vengono perseguiti con più efficacia. Quanto alle rivelazioni di Lorenzon su piazza Fontana, a non credergli è Occorsio, che sarà poi vittima dei terroristi di destra, perché il teste dice e ritratta, mentre gli elementi contro Valpreda appaiono più solidi. La pista nera per la strage di Milano prende quota solo a fine 1971, quando si scopre un arsenale nella disponibilità di Giovanni Ventura, vicino a Freda. Da quel momento gli inquirenti puntano verso la destra e Valpreda sarà scagionato.
E le connivenze dei servizi segreti con i neofascisti? VLADIMIRO SATTA — Ci sono stati depistaggi successivi agli attentati, non originati però da complicità con i responsabili. Se parliamo invece di ideazione, preparazione, esecuzione delle stragi, non si sono trovate collusioni di esponenti dello Stato, benché gli inquirenti le abbiano cercate.
Esaminiamo allora i depistaggi.
VLADIMIRO SATTA — Nel caso della strage di Peteano, tre carabinieri uccisi da un’autobomba vicino a Gorizia nel 1972, si cercò di deviare le indagini perché si temeva che l’esplosivo provenisse da un deposito dell’orstiano Stay Behind, detta in Italia Gladio, che non doveva essere scoperta in quanto parte del dispositivo segreto della Nato. Vincenzo Vinciguerra e i suoi camerati, responsabili della strage, non erano affatto in combutta con i depistatori.
E piazza Fontana?
VLADIMIRO SATTA — Quando la magistratura chiese notizie su un informatore del servizio segreto militare (Sid) che aveva avuto contatti con Freda, Guido Giannettini, ottenne una risposta negativa. E poi lo stesso Giannettini venne fatto espatriare da ufficiali del Sid. In seguito però, nel giugno 1974, il ministro della Difesa Giulio Andreotti svelò che si trattava di un agente dei servizi segreti. Giannettini fu così riportato in Italia e processato per piazza Fontana: prima condannato e quindi assolto. Il Sid aveva sbagliato per eccesso di segretezza a protezione di un suo confidente, ma non fu complice degli attentatori.
Però inquietano i rapporti tra organi dello Stato e neofascisti.
VLADIMIRO SATTA — Fin da metà degli anni Sessanta ambienti militari ipotizzarono la collaborazione di civili anticomunisti nel caso d’invasione dell’Italia da parte del Patto di Varsavia. A questo scopo ci si rivolse all’estrema destra. E accadde così che i neofascisti, forti delle frequentazioni con i militari, acquisissero la sicumera di cui parla Bettin. Si vennero a creare degenerazioni per le carenze di direzione politica, per le consonanze ideologiche tra alcuni ufficiali e l’estrema destra, per l’assenza di garanzie funzionali circa i limiti entro cui gli esponenti dello Stato potessero spingersi nei rapporti con i neofascisti. Fu un intreccio fortemente inopportuno, ma non è alle origini delle stragi.
E la difficoltà nell’individuare i colpevoli della strage di Brescia?
VLADIMIRO SATTA — Tra i fattori che giocarono in senso negativo metterei al primo posto i conflitti tra gli inquirenti, che nel tempo sono degenerati in una sorta di faide. Le sentenze sono state altalenanti. Ermanno Buzzi fu condannato in primo grado, poi assassinato in
carcere da altri neofascisti, quindi definito in una sentenza «un cadavere da assolvere», poi nuovamente ritenuto implicato. Ci furono anche errori: non tanto il lavaggio di piazza della Loggia dopo la strage, quanto l’incuria nella raccolta dei reperti dell’esplosione. Le pressioni perché si facesse giustizia misero probabilmente fretta agli inquirenti, inducendoli a seguire piste infondate. Vorrei ricordare però anche l’opera importante svolta dall’associazione dei familiari delle vittime, con iniziative di conservazione e trasmissione della memoria decisamente apprezzabili.
E ora? VLADIMIRO SATTA
— Ben vengano i nuovi sforzi in corso per individuare altri colpevoli della strage di Brescia oltre ai due già condannati, Maggi e Tramonte. Temo però che il nuovo processo non stia partendo bene, anche se spero che la mia impressione sia sbagliata.
Per alcuni il terrorismo nero va inserito in una strategia anticomunista perseguita da forze interne e internazionali. Ma il 1974, segnato oltre che da piazza della Loggia dalla strage ancora più grave del treno Italicus, prelude ai maggiori successi elettorali del Pci. Dunque il disegno stragista fallì?
GIANFRANCO BETTIN — È opportuno analizzare i fatti in una chiave storico-politica, con una prospettiva più ampia rispetto a quella che può emergere in base alle prove raccolte in tribunale. Il disegno stragista è fallito se pensiamo che avesse lo scopo d’instaurare una dittatura militare, oppure di consolidare una formula di governo piuttosto che un’altra. Ma non è fallito se riteniamo che tra i suoi obiettivi ci fosse il condizionamento della situazione politica.
Esaminiamo le varie fasi.
GIANFRANCO BETTIN — All’inizio la «strategia della tensione» produce una forte spinta verso destra. Le elezioni successive a piazza Fontana vedono una crescita di consensi per il Msi, che quasi raddoppia i suoi voti nelle politiche del 1972, spaventando la Dc. Non vengono penalizzate però le forze di sinistra, che consolidano le loro posizioni. Poi prende quota la formula dell’«arco costituzionale», contro la quale si scaglia l’estrema destra. La manifestazione di Brescia colpita dagli stragisti è convocata da un comitato antifascista composto da tutte le forze di sinistra e di centro.
Si fa muro contro l’estrema destra?
GIANFRANCO BETTIN — La crescita della sinistra, corrispondente al rafforzamento del sindacato unitario e allo sviluppo dei movimenti giovanili e femminili, non s’interrompe. All’attacco stragista l’Italia democratica, dopo lo spavento iniziale e le ferite subite, reagisce a tutti i livelli, compresi gli apparati dello Stato. Così la sinistra resiste e anzi passa alla controffensiva sul piano elettorale. Ma questo non deve indurci a sottovalutare la pericolosità delle trame eversive, che erano caratterizzate da un connubio tra diverse componenti: la manovalanza e gli ideologi neofascisti, ma anche soggetti che facevano calcoli di natura geopolitica o comunque volti a condizionare la vita italiana. Per fortuna si levarono allora nella società, ma anche all’interno dello Stato, forze decise a difendere la democrazia e la Costituzione. Ciò consentì di far fallire i progetti stragisti e più tardi di sconfiggere anche il terrorismo rosso.
VLADIMIRO SATTA — Sul piano storico-politico lo stragismo si è rivelato incapace non solo di disintegrare il sistema, ma anche di propiziare una svolta autoritaria o d’imporre una particolare formula politica. Non riuscì neppure a frenare lo sviluppo dei movimenti che percorrevano allora la società italiana. Anzi lo stragismo risultò controproducente per l’estrema destra, poiché attirò su di essa un pesante discredito e una repressione che in precedenza era mancata.
Le stragi non sono andate a danno della sinistra? VLADIMIRO SATTA — Nel periodo successivo al 1974 il Partito comunista ottiene le sue più importanti avanzate elettorali. E quando quella forza è al culmine del consenso, tanto da essere inclusa nella maggioranza di governo, non si verificano stragi nere. La svolta in senso moderato avviene in seguito alle elezioni politiche del 1979, quando il Pci abbandona la coalizione di solidarietà nazionale ed esce sconfitto dalle urne. Poi nel 1980 la Dc adotta una linea che esclude nuovi accordi con i comunisti. Ma non si può presentare il fallimento del compromesso storico come una sconfitta della democrazia.
Che bilancio possiamo trarne?
VLADIMIRO SATTA — L’ex magistrato Libero Mancuso si è rivolto agli stragisti dicendo: «Avete vinto, ma sappiamo chi siete». Secondo me è il contrario: non sempre siamo riusciti a identificare i colpevoli, ma la Repubblica ha sconfitto il terrorismo nero e rosso senza alterare la sua natura democratica. E non si sono più ripetuti fenomeni di violenza politica paragonabili a quelli degli anni Settanta.
Si dice anche che le stragi servirono a «destabilizzare per stabilizzare», cioè a rafforzare gli equilibri politici esistenti. È un’interpretazione credibile?
GIANFRANCO BETTIN — Qualcuno può avere visto con favore lo stragismo sperando che potesse consolidare al centro il quadro politico. Nel 1969 c’è un immediato spostamento a destra e poi nel 1972 nasce il governo centrista Andreotti-Malagodi. Ma se con la «strategia della tensione» si voleva precludere uno spostamento a sinistra, da metà degli anni Settanta si va proprio in direzione di un rafforzamento del Pci. Insomma, la destabilizzazione attuata per stabilizzare non ottiene risultati su quel terreno, perché la situazione resta a lungo dinamica e incerta. C’è però un altro aspetto da esaminare. Ed è la concreta realizzazione delle riforme che il Paese attendeva. La spinta innovatrice finì per impoverirsi e in parte sterilizzarsi, come era accaduto nel 1964, quando la crisi del primo governo di centrosinistra, come denunciò il leader socialista Pietro Nenni, portò a ridimensionare il programma riformatore per via degli interventi imprenditoriali e delle pressioni esercitate dall’allora presidente della Repubblica Antonio Segni. Insomma, se si sposta l’attenzione dalle formule politiche ai contenuti dell’azione di governo, forse si avverte un condizionamento politico in senso conservatore, anche se non risolutivo visto che negli anni Settanta vengono approvate leggi importanti come lo statuto dei lavoratori e il Servizio sanitario nazionale.
Nel complesso gli esiti sono positivi?
GIANFRANCO BETTIN — La democrazia italiana vive un periodo molto conflittuale, attraversa profonde difficoltà socio-economiche, subisce attacchi sanguinosi da destra e da sinistra, ma nel complesso tiene, grazie alle forze che si riconoscono nella Costituzione repubblicana.
VLADIMIRO SATTA — La tesi che si sia voluto destabilizzare l’ordine pubblico per stabilizzare l’equilibrio politico non è a mio avviso minimamente credibile. Del resto a formularla per primi furono gli stragisti neri per dissimulare le loro responsabilità.
GIANFRANCO BETTIN — Fu Vincenzo Vinciguerra, il responsabile dell’eccidio di Peteano.
VLADIMIRO SATTA — Prima ancora di lui fu Giovanni Ventura, stragista di piazza Fontana, che commissionò nel 1970, in veste di editore, un pamphlet nel quale si sosteneva che l’eccidio aveva l’obiettivo di coagulare un blocco d’ordine moderato intorno alla Dc e al Psdi. E ripetè questi concetti in un’intervista del 1977. Vinciguerra idealmente si pone sulla scia del depistaggio di Ventura con lo scopo di denigrare la Stato democratico. I dietrologi, spesso di sinistra, che ripetono la formula «destabilizzare per stabilizzare», non si rendono conto di ricalcare le tesi di due neofascisti.
Le stragi non hanno alterato il corso della storia?
VLADIMIRO SATTA — Non credo che piazza Fontana abbia determinato l’avanzata della destra nel 1972, due anni e mezzo dopo, quando ormai era emersa la pista nera. Il governo neocentrista Andreotti-Malagodi nasce nelo stesso 1972 ed è una soluzione provvisoria dovuta alle difficoltà dei socialisti. Infatti dura poco e si torna già nel 1973 al centrosinistra. Le riforme avevano incontrato gravi ostacoli a metà degli anni Sessanta, per una normale reazione conservatrice. Ma nel decennio successivo, nonostante le stragi, passano le regioni, il divorzio, lo statuto dei lavoratori, la riforma sanitaria.
Facciamo un accenno alla strage di Bologna del 1980, la più grave per numero di vittime, su cui avete posizioni diverse.
GIANFRANCO BETTIN — La strage alla stazione di Bologna del 1980 è l’ultimo colpo di coda da parte di chi pensava di poter condizionare la democrazia con l’uso della violenza. Ma il piano fallisce, perché l’Italia è cambiata ed è entrata in una nuova stagione, anche se il quadro geopolitico si è complicato per la ripresa delle tensioni tra Est e Ovest. Comunque Bologna resta una strage di matrice neofascista: credo che siano difficilmente contestabili le prove a carico di coloro che sono stati condannati nei diversi procedimenti. Ma è evidente che negli anni Ottanta gli strumenti per condizionare il quadro politico sono altri: il controllo dell’informazione e l’influenza su certi organi dello Stato
VLADIMIRO SATTA — Nel 1980 la spinta innovatrice di fine anni Sessanta si è ormai esaurita. Siamo nella fase del cosiddetto «riflusso». E nel contempo sono caduti i regimi autoritari — Portogallo, Grecia e Spagna — che avevano fornito una sponda all’estremismo di destra. Con la sentenza di Bologna sui mandanti, peraltro tutti defunti, si afferma che a commissionare la strage alla stazione del 1980 furono personaggi esperti e navigati come Federico Umberto d’Amato. Possibile che l’ex direttore dell’ufficio Affari riservati del ministero dell’Interno non si rendesse conto che un’azione stragista nel 1980 era improponibile? Secondo me è da escludere. Insomma, a mio avviso l’impianto accusatorio non funziona e le prove mi paiono inconsistenti.