Corriere della Sera - La Lettura
Il mostrologo
Il mostro di Firenze è morto. Forse. Perché ci hanno detto che era Pietro Pacciani, il Vampa, che in casa teneva attaccati al muro della cucina santini e foto porno. Poi ci hanno detto no, non è lui, forse al prossimo processo. Ma lui li ha fregati tutti e al nuovo processo non ci è arrivato: si è fatto venire un infarto fulminante, così se n’è andato all’altro mondo da semplice contadino e qualcos’altro: stupratore delle figlie, assassino del rivale in amore, aguzzino della moglie, bestemmiatore e guardone ma mostro no, non mostro di Firenze, almeno.
Però ci avevano anche detto che c’erano altri due con lui. Qualche volta, non sempre. E allora accontentatevi dei mostri a mezzo servizio, i mostri ogni tanto. Mario Vanni, detto Torsolo, l’ex postino di San Casciano, quello che andava al processo in pigiama e con la dentiera in mano inneggiava al Duce e augurava al pm «un brutto male». Oppure Giancarlo Lotti, Katanga, lo scemo del paese. «Corri, ci sono gli Ufo», gli dicevano. E lui correva, correva sempre.
Proprio così ce lo eravamo immaginato quell’assassino infallibile e imprendibile che fu il mostro di Firenze: un vecchio sdentato e un mentecatto al seguito di uno che amava il sesso più del vino ma pure il vino. Per loro fu inventata l’espfressione «compagni di merende», che da tempo è entrata nel linguaggio comune: un modo di ammiccare più che un modo di dire.
Pure Vanni e Lotti sono morti, loro sì con addosso una condanna ma solo per quattro degli otto (o sette, secondo le varie teorie) duplici omicidi firmati dal mostro con la sua Beretta calibro 22 Long Rifle e i proiettili Winchester con la H stampigliata sul fondello e un segno inconfondibile provocato da un difetto nella meccanica dell’arma. Esiste quindi una verità processuale sulla vicenda di uno dei più feroci serial killer italiani di sempre, se non il più feroce in assoluto. Ma chi ci crede che le cose andarono come è scritto nelle sentenze della Corte d’assise di Firenze? Probabilmente soltanto chi chiese le condanne e chi le emise.
Perché se quella Beretta calibro 22, mai trovata, non spara più dal settembre del 1985 e se chi passò per essere il mostro di Firenze è morto, la storia è ancora oggetto di riscritture e discussioni, e a tenerla viva ogni giorno, soprattutto online, è la mostrologia, scienza inesatta e aperta a tutti e a tutto. Un esercito di studiosi dedica da anni il proprio tempo a elaborare tesi alternative a quelle approvate dai giudici e a cercarne riscontro nello sconfinato territorio di atti giudiziari, documenti ufficiali e no, piste investigative imboccate e abbandonate, testimonianze, interviste, libri cresciuto a dismisura intorno agli omicidi di Baccaiano, Vicchio, Giogoli e tutti gli altri.
Portano in Rete le convinzioni maturate e animano sui blog dibattiti che non è raro si trasformino in confronti aspri, per non dire scontri. Si spaccano come interisti e milanisti, ma qui non si tratta di dire se era meglio Mazzola o Rivera. Qui ci sono tanti ragazzi uccisi, tante ragazze sfregiate dopo la morte. E ci sono tante piste che la mostrologia riesce ancora a rendere credibili: il rosso del Mugello, il legionario, i sardi — in gruppo o singolarmente — i satanisti e le sette esoteriche, i mandanti occulti, il farmacista, il medico di Perugia, la massoneria, i servizi segreti, l’americano del cimitero.
Al mostrologo di Firenze va riconosciuto che non parla mai a casaccio. Qualunque sia la sua ipotesi — e certo ce ne sarà al massimo una giusta e tutte le altre sbagliate — c’è dietro uno studio approfondito, un lavoro di ricerca che la rende solida, perfino credibile.
Ognuno ha la sua verità, e riesce a esporla con tale padronanza, anche del più piccolo dettaglio, che si fa quantomeno ascoltare. Eppure i professionisti del racconto e dell’investigazione in quel mondo non sono tanti. Ci si avvicinò, quando smise di esercitare la sua professione, Nino Filastò, l’avvocato che fu difensore di Vanni. Ma non certo sul web, solo da scrittore che pubblicò due libri sull’argomento. E comunque la definizione di mostrologo uno come lui, un gigante dell’avvocatura, proprio non la meriterebbe.
Come in fondo sta stretta anche ad altri professionisti: il documentarista Paolo Cochi, per esempio, che si occupa del mostro di Firenze da sempre e oggi è anche consulente di uno dei legali che per conto dei parenti di alcune vittime si stanno battendo per far riaprire le indagini. Oppure Davide Cannella, ex carabiniere che ora fa l’investigatore privato e investiga soprattutto sugli otto duplici omicidi, in particolare sulla pista sarda.
Ma il mostrologo-tipo è un’altra cosa, uno che con la storia più nera di Firenze ha lo stesso rapporto di Bocca di rosa con l’amore: non lo fa né per noia né per professione. Lo fa per passione. E anche nel suo caso spesso la passione può portare conseguenze poco piacevoli.
Il fondatore del blog Insufficienza di prove — un’enciclopedia che tratta le questioni mostrologiche da ogni angolazione e contiene tra l’altro un elenco con i nomi e i profili di chiunque sia entrato in contatto, anche marginalmente, con la vicenda — all’inizio firmava con nome e cognome, adesso invece usa uno pseudonimo. «Ho preferito così perché cominciarono ad arrivarmi messaggi sgradevoli e anche minacciosi», racconta. Ha
scelto di chiamarsi Flanz Vinci, e il cognome è quello di uno degli indagati della pista sarda, Salvatore Vinci, sul quale il blogger ha realizzato un interessantissimo documentario dedicato al processo che l’uomo subì a Cagliari nel 1986, quando i carabinieri, non riuscendo a incastrarlo per i delitti del mostro, provarono ad attribuirgli l’omicidio della prima moglie, morta ventisei anni prima. Fu assolto.
Flanz è uno dei pochi a occuparsi della storia del mostro senza privilegiare una pista in particolare. «Perché non mi illudo di avere la soluzione del giallo. Non sono nemmeno un sardista, nonostante abbia iniziato a interessarmi ai delitti del serial killer proprio studiando la pista sarda. Credo soltanto che la verità ufficiale sia troppo traballante. Le sentenze contro Vanni e Lotti non mi convincono, e nemmeno quella che in primo grado condannava Pacciani (assolto poi in appello, ndr). Quindi siamo di fronte a una storia ancora aperta. Ma non per questo mi sento tifoso di un’ipotesi piuttosto che di un’altra. Io studio il caso e cerco di raccontarlo attraverso i materiali e le testimonianze che raccolgo. Altri facciano come credono»».
E quello che credono, alcuni, è di avere in tasca la soluzione. Antonio Segnini, informatico toscano che vive in Brianza, dal suo blog Quattro cose sul mostro sostiene la teoria che più si avvicina alla verità giudiziaria: il mostro di Firenze era Giancarlo Lotti, sostiene Segnini. Solo Lotti, però, senza Pacciani e Vanni, i compagni di merende che Katanga accusò al processo, confessando anche la sua partecipazione ad alcuni dei duplici omicidi.
Lo scarso appeal dietrologico e l’assoluta mancanza di elementi oggettivi a sostegno dei suoi ragionamenti tengono però Segnini in posizione defilata nel grande dibattito mostrologico. Lui ritiene che Lotti provasse fortissima attrazione per Barbara Locci, la prima donna a essere uccisa con la Beretta calibro 22, insieme con il suo amante Antonio Lo Bianco, la sera del 21 agosto 1968 a Signa. Tornavano dal cinema, Antonio e Barbara e Natalino, il figlio piccolo che la donna aveva portato con sé. Secondo Segnini Lotti li aveva seguiti dall’inizio della serata, e continuava a seguirli lungo la strada verso casa. Quando loro, approfittando del bambino addormentato, fermarono l’auto in un luogo appartato nei pressi del cimitero, Lotti restò a guardarli, e assistette all’omicidio. Poi prese la pistola che l’assassino aveva buttato via e se la tenne da qualche parte per sei anni. Fino al 14 settembre 1974, quando a Borgo San Lorenzo cominciarono i delitti del mostro.
Basi che reggano la teoria di Segnini non ce ne sono. Lo dice lui stesso: «Non esiste al momento nessuna prova diretta, ma gli eventi successivi avrebbero detto che quell’individuo» che sparò a Borgo San Lorenzo «era Giancarlo Lotti, uno dei tanti relegati ai margini della nostra società, per proprie carenze, senz’altro, ma anche per la mancanza di sensibilità degli altri sempre pronti ad approfittare di quelle carenze. Un semplice emarginato che il beffardo scherzo del destino che gli fece trovare e raccogliere la pistola di Signa avrebbe trasformato nel mostro di Firenze».
E tanti saluti alla squadra antimostro, ai profiler dell’Fbi, allo psichiatra che per conto della presidenza del Consiglio (quindi dei Servizi) collaborò con gli investigatori, alla busta con un macabro reperto inviata alla magistrata che coordinava le indagini. Il mostro di Firenze fu uno scherzo del destino. E amen.
Scherzi, piuttosto, della mostrologia,
I delitti
1. La notte del 21 agosto 1968, in un’Alfa Romeo Giulietta parcheggiata vicino al cimitero di Signa, vengono assassinati Antonio Lo Bianco, 29 anni, e Barbara Locci, 32. Il delitto è ascritto al mostro nel 1982, ma restano molti dubbi. 2. Il 14 settembre 1974, Pasquale Gentilcore 19 anni, di Arezzo, e Stefania Pettini, 18 anni, di Vicchio, vengono uccisi in località Fontanine di Rabatta, nel paese di Sagginale, comune di Borgo San Lorenzo. 3. Trail6eil7 giugno 1981 nei pressi di Mosciano di Scandicci muoiono assassinati Carmela De Nuccio, 21 anni, e il suo ragazzo, Giovanni Foggi, 30 anni, di Pontassieve. 4. Quattro mesi dopo, il 22 ottobre 1981, a Travalle di Calenzano, vicino a Prato, vengono massacrati Stefano Baldi, 26 anni, e Susanna Cambi, 24. Il 19 giugno 1982, a Baccaiano di Montespertoli, le vittime sono Paolo Mainardi, 22 anni, e Antonella Migliorini,
19. 6. Il 9 settembre 1983, a Giogoli, vengono assassinati su un furgone Volkswagen (a sinistra), con sette colpi di pistola, due ragazzi tedeschi, Jens-Uwe Rüsch e Horst Wilhelm Meyer, entrambi di 24 anni, forse scambiati per una coppia. 7. Le vittime del penultimo delitto sono Pia Gilda Rontini, 18 anni, e Claudio Stefanacci, 21 anni.
8. L’ultimo duplice delitto avviene nella campagna di San Casciano in Val di Pesa; le vittime sono due francesi: Jean-Michel Kraveichvili, 25 anni, e Nadine Mauriot, 36
che non è a numero chiuso e ognuno può dire la sua. Qualunque sia. Eppure c’è un punto sul quale anche Segnini sta sul pezzo: la morte di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco. Chi ha seguito la storia del mostro di Firenze lo sa: è lì che spara per la prima volta la Beretta calibro 22, è lì che vengono repertati per la prima volta i proiettili Winchester con la lettera H sul fondello e un piccolo e inconfondibile graffio. Ed è lì che la mostrologia — che tutto vorrebbe spiegare — non sa da che parte muoversi.
Fu l’omicidio zero del mostro, quello di Signa? Il primo agguato contro una coppia appartata in auto, ancora senza lo scempio del corpo della donna? Anche qui la verità processuale dice altro: fu accusato e condannato il marito di Barbara Locci, Stefano Mele, un oligofrenico certificato autore di una confessione che faceva acqua da tutte le parti. Ma ci si accontentò di avere un colpevole e la storia si chiuse lì. Perciò nel 1982, quando dopo altri quattro duplici omicidi si scoprì che il mostro utilizzava la stessa pistola e gli stessi proiettili usati per uccidere Locci e Lo Bianco, lo si cercò nella comunità di sardi trasferiti in Toscana, come Mele e Barbara. Ma fu una strada che non portò lontano, nonostante arresti e incriminazioni. Quindi l’arma e i proiettili erano passati di mano. Ma in che modo le indagini non lo hanno mai chiarito. E per molto tempo nemmeno la mostrologia. Che però alla fine una sua tesi l’ha prodotta.
L’autore si chiama Carlo Palego, analista finanziario astigiano, mostrologo per certi versi rivoluzionario perché sostenitore di una teoria che non è mai entrata nelle ipotesi investigative. Per lui la Beretta del mostro non è la stessa che sparò a Signa, è lo stesso modello e lo stesso calibro ma non è quella. Nel fascicolo del 1968 fu soltanto infilato qualche proiettile di quelli sequestrati sulle varie scene dei delitti del mostro. Perché bisognava depistare, orientare le indagini sui sardi per coprire quello che secondo lui è il vero assassino. E ne fa il nome: Joseph Bevilacqua, nato in New Jersey nel 1935 e morto a Sesto Fiorentino nel 2022, ex militare decorato per il Vietnam, trasferitosi in Italia nel 1974 (anno del primo omicidio del mostro dopo Signa) e nominato direttore del cimitero americano di Firenze. Incarico che però, secondo Palego, serviva a coprire la vera attività di Bevilacqua in Italia: responsabile e comandante della cellula dell’organizzazione Stay Behind deputata a condurre operazioni di guerra non convenzionale. E perciò intoccabile per interessi superiori. Il suo aiutante di campo — sempre stando a quello che dice Palego — era Giampiero Vigilanti, di Vicchio (dove nel 1984 furono uccisi Pia Rontini e Claudio Stefanacci), l’ex legionario morto a 93 anni quattro mesi fa che fu l’ultimo indagato e l’ultimo prosciolto per i duplici omicidi del mostro. Bevilacqua invece fu testimone d’accusa al processo contro Pacciani.
Palego racconta tutto questo sul suo canale YouTube Leviamo la maschera al mostro di Firenze, dove fa video-monologhi che arrivano a durare anche più di tre ore. Sostiene che non c’è collegamento tra l’attività paramilitare di Bevilacqua e quella di serial killer, che era la sua perversione. Ha un valido alleato in Valeria Vecchione, un’impiegata che sui blog viene definita «ricercatrice indipendente sul mostro di Firenze» e che ha avuto la pazienza di risalire al giornale dal quale il mostro ritagliò le lettere da incollare sulla busta inviata in Procura, e scoprire che dietro il ritaglio più lungo c’era un testo in cui compariva la parola acqua, «che per lui era una firma».
Perché Vecchione e Palego ne sono convinti: l’uomo che in Italia diventò il mostro di Firenze in America aveva vestito i panni di Zodiac, il serial killer che in California uccise almeno cinque persone tra il 1968 e il 1969 e che pure sembrava avere un rapporto particolare con l’acqua.
Qui però bisogna fermarsi perché si esce dalla mostrologia di Firenze. Qui entrerebbe in scena la monstrology, ma per fortuna in America questa parola la usano soltanto nei videogame.
Il 14 settembre 1974, mezzo secolo fa, nella campagna di Borgo San Lorenzo, viene uccisa la prima coppia che finirà nel fascicolo criminale più famoso d’Italia (nel 1982 un duplice delitto del 1968 entrerà nello stesso dossier, ma con tanti dubbi). Il Paese intanto s’è riempito di detective per passione. Eccone alcuni