Corriere della Sera - La Lettura
In carcere per 33 anni Innocente
Le intercettazioni risolutorie, che avrebbero sciolto un giallo lungo 33 anni, erano in lingua sarda. Per tradurle gli esperti del tribunale hanno impiegato circa 29 mesi, un tempo che è andato a sommarsi al resto, vita sottratta al detenuto modello Beniamino Zuncheddu. È una delle tante iniquità che hanno accompagnato il caso giudiziario più lungo della Repubblica. Quello di un servo pastore finito dentro per la strage del Sinnai, in cui morirono tre uomini mentre un quarto si salvò per caso (era il 1992).
Il libro — Io sono innocente edito da De Agostini (pp. 256, e 18) — scritto dall’avvocato Mauro Trogu e dallo stesso Zuncheddu parla di beridadi (verità, in lingua sarda) che non coincidono con la giustizia processuale. Riflessione su un metodo così imperfetto da risultare allarmante, con magistrati che quasi affondano nella zona grigia del pentitismo, poliziotti dai metodi opachi, giudici troppo pigri per fare un banale sopralluogo. Ma anche riflessione su un sistema giudiziario in cui la «sana cultura del dubbio» stenta a decollare.
In quest’epoca di strapotere inquirente, Zuncheddu, servo pastore dai 17 anni, quando con la licenza media si avventura sulle alture per badare a pecore e capre, possiede solo l’ostinazione dei veri innocenti. Lo invitano, dopo 26 anni in cella, maturata la possibilità della condizionale, a farsi furbo e confessare per uscire. Ma lui continua a ripetere: «Se non ho comprato perché devo pagare?». Lo dirà anche il 27 gennaio 2024 durante la conferenza stampa organizzata dal Partito radicale per festeggiare la sua assoluzione. Dietro le indagini difensive che porteranno all’istanza di revisione del processo c’è la determinazione di un avvocato inizialmente scettico («La mia fiducia nella giustizia mi impediva di pensare che vi fosse un uomo innocente dietro le sbarre da decenni», dirà). Infine l’assist del caso: l’intercettazione in cui il testimone principale del processo, il superstite del massacro Luigi Pinna, svela l’imbroglio a sua moglie.
L’identificazione di Zuncheddu quale killer fu frutto di coercizione. Una foto mostrata da un poliziotto ambizioso che invitava il superteste a puntare il dito contro il servo pastore. I veri colpevoli? Li individuerà, forse, l’inchiesta riaperta dalla Procura di Cagliari. Si dubita e si freme leggendo questa storia. Ci si interroga sul significato di quel sostantivo — giustizia — e ciò che ne resta dopo 33 anni di carcere vissuti nella consapevolezza della propria innocenza.