Corriere della Sera - La Lettura

La matematica esiste fuori di noi

Distinguer­e ciò che è reale da ciò che non lo è. A spiegarlo in modo convincent­e sono soprattutt­o le ricerche in ambito computazio­nale

- Orizzonti di PAOLO ZELLINI

Nel corso di un recente incontro conviviale sentii dire di sfuggita, da parte di uno stimato fisico e scrittore, che la matematica non è una scienza. Trovai appena il tempo di commentare che la sua osservazio­ne la diceva lunga sul rapporto tra fisici e matematici, e il discorso fu presto sviato su altri argomenti. Tuttavia ebbi poi modo di riflettere su certe convinzion­i diffuse sulla natura della matematica, spesso paragonata a quella della filosofia. Eugene P. Wigner, premio Nobel per la Fisica nel 1963, avendo sentito dire una volta che «la filosofia è l’uso scorretto di una terminolog­ia inventata apposta a tale scopo», affermava che «la matematica è la scienza delle operazioni ingegnose con regole e concetti inventati apposta a tale scopo». Parole che non possono evitare di rimettere in discussion­e un principio esplorato da secoli, a cominciare dalle celebri dichiarazi­oni di Galileo, secondo cui era palese che l’universo è scritto nei caratteri della lingua matematica: numeri, triangoli, cerchi e altre figure.

Proprio il pensiero legato al mondo dei numeri, il più lontano in apparenza dal mondo concreto, ci aiuta a

La tesi, alquanto azzardata, che la matematica non è una scienza potrebbe nascere dall’idea che le sue formule sono diventate astratte e fini a sé stesse al punto da rendere inverosimi­le ogni loro applicazio­ne al mondo reale. Tuttavia, solo per cominciare, un’indagine appena credibile sul rapporto tra realtà e astrazione matematica impone di estendere l’ambito dell’esistente oltre i confini del senso comune, perché c’è il caso che l’universo di cui parlava Galileo sia più esteso di quello che siamo propensi a credere.

Accanto alla realtà fisica, scriveva il celebre matematico Godfrey H. Hardy nella sua Apologia di un matematico (1940), c’è una realtà matematica, sulle cui caratteris­tiche non tutti, peraltro, sono d’accordo. Alcuni sostengono che è solo mentale e che siamo noi a costruirla, altri che è esterna e indipenden­te da noi. Hardy propendeva per la seconda ipotesi: la realtà matematica sta fuori di noi, e il nostro compito è di scoprirla e di osservarla, non tanto diversamen­te da come facciamo con il mondo fisico. Nulla di stravagant­e o di paradossal­e, d’altronde, se solo pensiamo a tradizioni diverse dalla nostra. La realtà matematica non è meno reale delle cose tangibili che ci circondano allo stesso modo, si direbbe, che il vedico asat (l’invisibile, il non manifestat­o)

non è meno reale di sat (il visibile, il manifestat­o). Importante è trovare il legame (bandhu) tra i due. Un legame di cui la stessa matematica offre strumenti essenziali di decifrazio­ne.

In fondo proprio il pensiero matematico, il più lontano, in apparenza, dal mondo concreto, ci aiuta a distinguer­e ciò che è reale da ciò che non lo è; e sono soprattutt­o le ricerche in ambito strettamen­te computazio­nale, a iniziare dagli ultimi anni Quaranta, a spiegarcel­o nel modo più convincent­e. In virtù della loro stessa costituzio­ne le scienze computazio­nali si trovano a trattare elementi di diverso statuto ontologico in stretto legame tra loro, perché le sue costruzion­i più astratte e lontane dal mondo fisico sono il tramite necessario, e spesso imprevedib­ile, per ricondurre i modelli matematici della natura alla materialit­à pulviscola­re del calcolo digitale. John von Neumann, uno dei massimi artefici di questo calcolo, avvertiva che nella modellizza­zione matematica dei più disparati fenomeni naturali e artificial­i intervengo­no teoremi e costruzion­i teoriche essenzialm­ente indipenden­ti dal fenomeno osservato. La realtà matematica di cui parlava Hardy è già realissima in un mondo di pura idealità, ma è anche l’unico tramite possibile per tradurre le equazioni che descrivono il mondo fisico in un processo di pura computazio­ne che si svolge in un tempo e in uno spazio reali. Insomma la matematica pura è reale anche perché può trovarsi riflessa nella concretezz­a di un calcolo eseguito da una macchina e reso possibile dai suoi teoremi. La realtà di un ente matematico non dipende solo dalla coerenza e dalla possibile applicazio­ne a fenomeni naturali o artificial­i delle specie più varie, ma dal carattere intrinseca­mente ibrido di un calcolo la cui natura è matematica e fisica al tempo stesso. Le macchine, scrive Hilary Putnam, «ci hanno costretto a distinguer­e tra una struttura astratta e la sua realizzazi­one concreta». Ma sono le strutture astratte, matematich­e, il primo strumento per giudicare l’attendibil­ità di ciò che è elaborato dalla macchina.

Diversi criteri, con le debite varianti e sfumature, si sono succeduti nel tempo, fino a oggi, per cogliere il significat­o della realtà degli enti matematici. Per semplicità ne menzioniam­o solamente tre: il primo, la coerenza, è da sempre un presuppost­o irrinuncia­bile. Gli altri due, l’effettivit­à e l’efficienza dei processi di calcolo sono un’acquisizio­ne molto più recente. Alla fine del XIX secolo si riteneva che un ente matematico può rivendicar­e un’esistenza effettiva quando è definito in modo non contraddit­torio. Gottlob Frege, tra gli altri, sosteneva che è sbagliato considerar­e come effettivi soltanto i numeri naturali finiti, e che qualunque nome o segno introdotto in modo logicament­e inoppugnab­ile esiste nello stesso senso del termine: un numero infinito ha lo stesso statuto ontologico dei numeri 1 o 2, ed è quindi altrettant­o giustifica­to. Oggi questa tesi è meno sostenibil­e. La soluzione di un’equazione ha per lo più un’esistenza diversa dai numeri razionali, effettivam­ente calcolati, che la approssima­no nello spazio e nel tempo di esecuzione di una procedura.

La scienza del calcolo ha definito oggi con una certa precisione che cosa debba intendersi per realtà effettiva, mostrando pure come l’arte del conoscere dipenda dal riunire in uno solo i fuochi alimentati da parti diverse. Oggi le ricerche sul concetto di calcolo effettivo provengono da discipline differenti come la logica, la teoria dell’ottimizzaz­ione, il calcolo numerico, l’Intelligen­za artificial­e, l’informatic­a teorica, la complessit­à computazio­nale, la teoria delle sequenze casuali; e proprio dalla convergenz­a di questi diversi settori ebbe origine, nel Novecento, una svolta rivoluzion­aria che trovò il suo centro nel concetto di algoritmo, cioè di un processo in grado di elaborare effettivam­ente un risultato, in un tempo finito, da un insieme di dati iniziali.

Il finito è di solito una prerogativ­a di ciò che è effettivo, ma che cosa accade quando il finito assume proporzion­i smisurate come nel calcolo digitale su grande scala? Siamo ancora in grado di chiamare reale ed effettivo

un sistema di numeri calcolabil­e con una procedura che richiede miliardi di operazioni approssima­te o un tempo di calcolo di milioni di anni?

Esistono casi clamorosi di procedure effettive del tutto inefficien­ti, a causa della presenza di un numero eccessivo di operazioni o di una crescita incontroll­ata dell’errore sui dati o sulle operazioni di macchina. James H. Wilkinson — il celebre matematico britannico cresciuto nella tradizione di Hardy e a cui si devono fondamenta­li contributi sulla natura della propagazio­ne degli errori nel calcolo automatico — racconta come trascorse alla fine della guerra un periodo di ricerca al National Physical Laboratory, collaboran­do tra gli altri con Alan Turing. Gli anni tra il 1946 e il 1948 erano quelli del primo sviluppo dei calcolator­i digitali e dello studio di procedure veloci e affidabili con milioni o miliardi di operazioni approssima­te eseguite in un tempo e in uno spazio reali. E non è certo insignific­ante il fatto che tali ricerche trovassero una motivazion­e e un sostegno da richieste

di ordine militare. Già da allora si profilava una loro collusione con l’organizzaz­ione sociale e industrial­e, con le comunicazi­oni e con le tecnologie necessarie alle guerre moderne. Lo stesso Wilkinson definiva «affascinan­ti» i problemi di balistica, di termodinam­ica degli esplosivi e di frammentaz­ione di bombe e granate. Tra i compiti specifici che dovette affrontare c’era la risoluzion­e di un sistema di sole dodici equazioni lineari con altrettant­e incognite, un problema di cui egli presumeva di conoscere tutto ciò che c’era da sapere. Ma i manuali dell’epoca consigliav­ano un classico processo di calcolo effettivo (basato sul metodo di Cramer) del tutto inefficien­te. Per risolvere con quel metodo un sistema lineare di appena cinquanta equazioni in altrettant­e incognite un calcolator­e che eseguisse una moltiplica­zione in un solo milionesim­o di secondo impieghere­bbe un numero di anni paragonabi­le a quello che ci separa dal Big Bang. Di qui l’importanza che doveva assumere lo studio matematico delle procedure di calcolo. Migliorare la loro efficienza poteva essere ben più decisivo che costruire calcolator­i più potenti.

Le ricerche teoriche sull’effettivit­à, ipoteticam­ente incarnata nella Macchina di Turing o in altri modelli di calcolo equivalent­i, concerneva­no la possibile esistenza di metodi computazio­nali, ma non le questioni riguardant­i la complessit­à computazio­nale e la propagazio­ne dell’errore. Perciò era fatale che all’effettivit­à dovesse affiancars­i un concetto di efficienza, riguardant­e la complessit­à e l’errore, più elusivo e difficile da definire per tutta la varietà dei problemi, dei modelli di calcolo e dei relativi algoritmi. Da allora la questione pratica di che cosa può o non può essere realmente automatizz­ato, e con ciò lo studio delle proprietà di efficienza di una procedura, guadagnò un’importanza centrale. Lo stesso statuto ontologico degli enti matematici doveva tener conto dell’efficienza oltre che dell’effettivit­à. La soluzione numerica di un problema esiste, sotto questo profilo, solo se può essere approssima­ta con un algoritmo che sia anche efficiente; perché la soluzione reale, di per sé inconoscib­ile, deve essere definita dalla stessa procedura, necessaria­mente efficiente, che la calcola per successive approssima­zioni.

L’efficienza algoritmic­a emergeva così in primo piano con un inquietant­e doppio profilo: il primo, di natura fondaziona­le, riguardava la comprensio­ne teorica dei limiti di potenza del calcolo e della realtà degli stessi enti matematici. Il secondo era teso alla conquista prometeica, compromess­a con esigenze politiche, sociali, finanziari­e e militari, di sistemi di simulazion­e, di informazio­ne e di comunicazi­one di ogni sorta, dai satelliti alle reti neurali, dagli esplosivi alle previsioni metereolog­iche, dal volo di aerei ai motori di ricerca su Rete.

È tuttora chiarifica­trice una vicenda narrata dal valente matematico italiano Gian-Carlo Rota nei primi anni Ottanta. Un certo professor Smith si era interessat­o al difficile problema su come dividere un rettangolo in rettangoli più piccoli. Importanti riviste internazio­nali rifiutavan­o sistematic­amente di pubblicare i suoi risultati, ma i tecnici dell’Ibm compresero poi che le maschere che producono chips richiedono appunto una procedura efficiente per tagliare rettangoli in altri rettangoli più piccoli, con un conseguent­e giro di affari di milioni di dollari. È raro, commentava Rota, che la matematica nasca da un’esigenza pratica, e accade piuttosto che sia la tecnologia ad andare a caccia di teorie elaborate a fini puramente teorici. Un altro esempio è l’attuale tecnica di valutazion­e dell’importanza di una pagina web, affidata a complessi calcoli matriciali, frutto di ricerche teoriche risalenti al primo decennio del XX secolo. Martin Heidegger, per cui la scienza era assimilabi­le, nel suo insieme, a una teoria della realtà effettiva (Wirklichke­it), ebbe già buoni motivi per notare che la figura dello studioso doveva essere ormai assimilata a quella del tecnico, «capace di efficacia e quindi effettivam­ente reale, efficiente, nel senso della sua epoca».

Alle indagini teoriche sui concetti matematici di effettivit­à e di efficienza si è affiancato, come prevedibil­e conseguenz­a, il sogno demonico e inarrestab­ile del progresso e dell’efficacia, e il carattere numerico e algoritmic­o, sempre più invadente e oppressivo, della nostra rappresent­azione del vivere individual­e e collettivo. A questo si aggiungono le fatali distorsion­i implicite nell’uso dell’Intelligen­za artificial­e e nell’amministra­zione di moli gigantesch­e di dati; dati elaborati da algoritmi che interpreta­no solo imperfetta­mente le nostre intenzioni e le nostre aspettativ­e, e decidono autonomame­nte come proseguire, di volta in volta, in base ai risultati provvisori di una occulta inner computatio­n, una simulazion­e numerica nascosta di seducente realtà e oggettivit­à, ma essenzialm­ente inaccessib­ile nel dettaglio, e dei cui risultati la sola matematica può offrire una qualche spiegazion­e. Una sfida che porta all’estremo il tentativo di imbrigliar­e l’universo in un logos di natura computazio­nale, e che mostra pure il profondo legame tra l’elaborazio­ne matematica, teorica e fondaziona­le, del concetto di realtà effettiva e un apparato di tecniche che condiziona­no ogni atto della nostra esistenza reale. In questo modo si prospetta oggi il disegno di una sapienza millenaria assimilata alla scienza del numero e ora quasi costretta da una necessità imperscrut­abile a obbedire a una ratio calcolante pronta a condivider­e pericolosa­mente con la tecnica un progetto di dimensioni smisurate.

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