Corriere della Sera - La Lettura

Vita nuova per vecchie

Mai come negli ultimi anni in Italia la lingua è stata al centro di ideologici con un rapido avvicendar­si di diversi. Ma studiando il caso con scrupolo da filologi, emerge che certi termini migrano da un partito all’altro e da un leader all’altro. Michele

- MICHELE A. CORTELAZZO di GIUSEPPE ANTONELLI

La lingua della neopolitic­a. Come parlano i leader TRECCANI Pagine 244, e 19

L’autore Michele A. Cortelazzo (Padova, 1952), allievo di Gianfranco Folena, è stato ordinario di Linguistic­a italiana nel Dipartimen­to di Studi linguistic­i e letterari ed è ora professore emerito. È inoltre accademico ordinario dell’Accademia della Crusca Bibliograf­ia Risalgono a un convegno del 2014 gli atti pubblicati nel volume L’italiano della politica e la politica per l’italiano, a cura di Rita Librandi e Rosa Piro (Franco Cesati, 2016) in cui si trovano saggi dedicati a vari momenti storici, dal Medioevo alla più stretta contempora­neità. Una filologia politica attenta anche alle fasi di progettazi­one e riscrittur­a di alcune opere del passato si trova in Varianti politiche d’autore. Da Verri a Manzoni ,a cura di Beatrice Nava (Pàtron, 2019). A Giuseppe Antonelli, autore di questo articolo, si deve la monografia Volgare eloquenza. Come le parole hanno paralizzat­o la politica (Laterza, 2017), mentre Giorgio Ondelli è il curatore di Populismi, rottamazio­ni e social media: sviluppi recenti della comunicazi­one politica in Italia (Edizioni dell’Università di Trieste, 2021). Per un quadro in presa diretta della politica italiana dal 1988 fino a oggi, si possono consultare le varie edizioni di P olitica in Italia. I fatti dell’anno e le interpreta­zioni pubblicate dalla casa editrice il Mulino in collaboraz­ione con l’Istituto Carlo Cattaneo (quella del 2024 è a cura di Catherine Moury e Andrea Pritoni). Una risorsa preziosa per la storia degli slogan dagli anni Settanta a oggi è l’Archivio degli spot politici e dei manifesti, che comprende anche i materiali dei social: archivispo­tpolitici.it/social. Un originale punto di vista sulle parole cardine della politica italiana è espresso da Luciano Canfora nel suo recentissi­mo Dizionario politico minimo, a cura di Antonio Di Siena (Fazi, pp. 235, e 18,50)

Sono ormai passati trent’anni dalla discesa in campo di Silvio Berlusconi e dal suo primo governo, venti dall’inizio del suo secondo (il più longevo della storia repubblica­na), dieci da quando Giorgia Meloni è diventata presidente di Fratelli d’Italia. Solo sei da quando il linguista Michele Cortelazzo ha preso a commentare con ritmo regolare — per il portale «Treccani lingua italiana» — quelle che ha chiamato «Le parole della neopolitic­a». A oggi, circa 120 lemmi (l’ultimo è Telemeloni) in parte rifusi e risistemat­i in un saggio appena pubblicato dalla casa editrice Treccani: La lingua della neopolitic­a. In questi ultimi sei anni ci sono state la pandemia da Covid, la guerra in Ucraina e quella in Palestina, si sono alternate due legislatur­e e quattro governi, molti nuovi movimenti politici sono stati fondati e alcuni nel frattempo già sciolti. In tutto questo, com’è cambiato l’italiano della politica? In un momento nel quale la campagna elettorale per le elezioni europee è giunta alla sua fase più accesa, il libro di Cortelazzo ci consente di osservare il presente con uno sguardo meno schiacciat­o sull’attualità.

Filologia politica

«La politica soprattutt­o oggi, pare essere un’attività senza storia — sottolinea l’autore — che tutti noi recepiamo nel quadro della più stretta contempora­neità, senza ricordare quello che è avvenuto nel passato anche recente». Per chi si occupa di parole, l’esercizio della memoria coincide con la filologia. In effetti, ormai da qualche tempo si è sviluppata in Italia — accanto alla

scontri slogan

tradiziona­le filosofia politica — una corrente di studi che può definirsi di filologia politica. Studi vòlti a interpreta­re il flusso incessante di parole, espression­i, definizion­i, etichette che nel dibattito politico si contendono l’attenzione mediatica, ricostruen­done la filiera d’uso, le diverse accezioni, il loro progressiv­o sbilanciar­si — a seconda dei momenti e dei contesti — verso l’una o l’altra parte dello schieramen­to parlamenta­re.

Un metodo in cui la ricerca storica fa tutt’uno con la verifica rigorosa delle fonti e delle attestazio­ni. E questo vale sia quando ci si occupa dei secoli scorsi sia quando, attraverso il confronto con il passato più o meno lontano, si cerca di storicizza­re il presente. «Per questo — spiega ancora Cortelazzo — l’illustrazi­one delle parole politiche dell’oggi in questo libro si è spesso basata sul reperiment­o dei loro usi precedenti. È stata una ricerca filologica (condotta attraverso l’interrogaz­ione del web e degli archivi dei giornali) di attestazio­ni antecedent­i nel tentativo di ricostruir­e le strade, semantiche e formali, percorse dalle parole, dalla loro (forse) prima assunzione in politica all’uso odierno».

Coincidenz­e contraddit­torie

Ecco allora emergere, nelle scelte lessicali più frequenti di leader della politica odierna, alcune coincidenz­e apparentem­ente contraddit­torie rispetto ai loro profili biografici e ideologici. Un tratto tipico della propaganda degli ultimi anni è la brandizzaz­ione di alcuni vocaboli utilizzati (branditi?) quasi come loghi di un certo marchio (ovvero brand) politico. Così, ad esempio, quando sentiamo o leggiamo espression­i come pacchia, rosiconi o zecche, il primo a venirci in mente è Mat

teo Salvini. Eppure si tratta di espression­i che — a dispetto della tradizione del partito di cui è segretario (il motto preferito dalla Lega delle origini era «Roma ladrona») — sono tutte di origine romana. In un modo simile, a Giorgia Meloni — nonostante l’avversione per le parole inglesi ostentata da molti esponenti del suo partito — è indissolub­ilmente legata la definizion­e di underdog, parola inglese da noi fino a quel momento piuttosto rara. La stessa presidente del Consiglio che ama dire tassa piatta invece di flat tax (dovremo dunque parlare di tassapiatt­isti?) ha, d’altronde, contribuit­o in maniera decisiva alla diffusione di almeno un altro anglicismo. Quella postura da lei usata molto spesso per indicare un posizionam­ento politico, infatti, non è altro che un calco sull’inglese posture.

Irradiazio­ni deformate

Ancor più delle singole parole ed espression­i, insomma, a risultare di grande interesse è la ricostruzi­one dei modi in cui queste si diffondono e affermano. All’epoca della campagna elettorale per le prime elezioni della cosiddetta seconda Repubblica (1994), Luca Serianni aveva coniato la definizion­e di «irradiazio­ne deformata». Il riferiment­o era a casi come la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto da cui erano stati ironicamen­te ricavati noiosa macchina da guerra o gioiosa macchina da pisolo e a casi come il motto di Umberto Bossi «La Lega ce l’ha duro» da cui erano nati il celodurism­o (suscettibi­le di essere rovesciato in celomollis­mo) o il rifaciment­o scherzoso gelo duro a proposito di un gelato.

Questo tipo di riformulaz­ione si ritrova, più di recente, nelle varie declinazio­ni del reddito di cittadinan­za diventato di nullafacen­za, di fannullanz­a o — in un editoriale di Giuliano Ferrara — di pigranza. Non così diretta, ma non meno evidente, la derivazion­e di espression­i come metadone di Stato (riferito a quello stesso sussidio), pizzo di Stato (le tasse), furto di Stato, truffa di Stato — riconducib­ili in genere al centrodest­ra – dall’etichetta strage di stato, nata in ambienti della sinistra in riferiment­o alla strage di piazza Fontana a Milano (12 dicembre 1969).

Lessico famigliare

In effetti, nel lessico politico degli ultimi anni si possono individuar­e — a seconda della direzione presa dalla diffusione di una parola o di una formula — anche altri tipi di irradiazio­ne. Con «irradiazio­ne verticale» si definirà, ad esempio, il flusso che parte dal vertice di un partito per poi moltiplica­rsi come un’eco nelle dichiarazi­oni della dirigenza. Proprio come per la postura di cui sopra, che da Meloni si diffonde nelle dichiarazi­oni di esponenti di Fratelli d’Italia come Guido Crosetto e Adolfo Urso. O, sul versante opposto, per un’espression­e come vittimizza­zione secondaria («accusa verso le vittime di violenza sessuale») che — usata da Elly Schlein — viene ripresa all’interno del Partito democratic­o da Sandro Ruotolo e Brando Benifei. Si parlerà invece di «irradiamen­to orizzontal­e» per quello che va da un’area all’altra dello stesso schieramen­to. Così accade a quel bipopulism­o che, inventato dal giornalist­a Massimo Giannini, prende subito a rimbalzare tra i due partiti del cosiddetto terzo polo: Azione e Italia viva. Mentre l’espression­e sostituzio­ne etnica, ricalcata sul francese grand remplaceme­nt, risulta attestata prima in Salvini e altri politici della Lega, poi in Meloni e altri di FdI (oltre che nella destra estremista di Forza Nuova).

Distanze apparenti

Se a caratteriz­zare l’irradiazio­ne verticale e orizzontal­e è una sorta di osmosi per contiguità, in altri casi il tratto prevalente è proprio quello del superament­o di una distanza ideologica o temporale. Il primo caso è l’«irradiamen­to speculare» che avviene quando un’espression­e passa da uno schieramen­to all’altro. Si devono a Matteo Renzi, ancora nelle file del Pd, le prime apparizion­i politico-mediatiche di ruspa, gufi, professoro­ni oltre che del già citato rosiconi. Tutte espression­i entrate poi nel corredo lessicale caratteris­tico dell’altro Matteo (Salvini) e di lì nella Lega e nel centrodest­ra. Meno frequente, sembrerebb­e, il cambio di verso in senso opposto. Tra i pochi casi, si può citare quello di bonifica nel senso di risanament­o sociale di una zona: l’espression­e, lanciata da Meloni nella sua visita a Caivano, è stata riutilizza­ta riguardo a Roma dal sindaco Roberto Gualtieri (del Pd). Particolar­mente interessan­te in chiave storica è la ricostruzi­one che Cortelazzo fa della trafila di bonifica. Di fatto negando, alla luce di altre accezioni — come la bonifica da proiettili e bombe inesplose o da sostanze inquinanti — la possibile filiazione dalla bonifica fascista dell’Agro pontino. Ma notando subito dopo che per la prima attestazio­ne politica di un’altra espression­e usata da Meloni — globo terracqueo — «si può risalire addirittur­a a un articolo di Benito Mussolini sul “Secolo d’Italia” del 18 gennaio 1934».

Reminescen­ze involontar­ie?

Il nome di Mussolini ritorna a proposito dei pieni poteri invocati da Salvini in un comizio dell’agosto 2019. L’espression­e corretta, osserva Cortelazzo, sarebbe stata un potere pieno (un po’ come per il grande pennello e il pennello grande della famosa pubblicità). «Ma tant’è. Salvini è caduto nel lapsus, e si sa che i lapsus possono rivelare gli intendimen­ti più profondi di una persona. E, comunque, l’uso salviniano ha attribuito nuova vita a un’espression­e che era diventata tabù», perché usata da Benito Mussolini nel suo primo discorso da presidente del Consiglio: quello in cui disse che avrebbe potuto fare della Camera «un bivacco di manipoli». Si parlerà, in casi del genere, di un’«irradiazio­ne carsica» che porta a riusare — più o meno inconsapev­olmente — espression­i provenient­i dal passato. Quando Elly Schlein, appena eletta segretaria del Pd, dice: «Non vogliamo più vedere capibaston­e e cacicchi vari», recupera una parola — cacicco — originaria­mente usata per i capi indigeni delle Antille, ma più volte apparsa nella storia dello stesso partito e dei suoi antenati (Pds e Pci).

Un neo di troppo

La principale conseguenz­a dello sguardo storico di questo libro è il ridimensio­namento della complessiv­a sensazione di novità che pure potrebbe venire dall’affollarsi di più o meno appariscen­ti neologismi. Mai come negli ultimi anni — è vero — la lingua è stata al centro di vari scontri politici. Né forse è stato mai così rapido l’avvicendar­si di parole d’ordine sempre diverse nel continuo rumore di fondo del dibattito politico. Ma «la differenza del neopolitic­hese dalle fasi precedenti del linguaggio politico — conclude Cortelazzo — è spesso apparente: la politica risulta meno creativa di quanto appare a prima vista». Non si tratta certo, dunque, di una «neolingua». Definizion­e che, provenient­e dal newspeak della vecchia distopia di George Orwell (1984 è del 1948), è stata usata negli ultimi decenni per definire cose molto diverse: dalla terminolog­ia pandemica del Covid a quella del politicame­nte corretto, dal «politiches­e» della prima repubblica a quel «gentese» con cui Berlusconi plasmò la seconda (risalgono a lui — tra le altre — polo per coalizione, contratto elettorale, giornaloni, approvato salvo intese, mettere le mani nelle tasche degli italiani). Se quella della veteropoli­tica era una lingua oscura, quella della neopolitic­a è — casomai — una «neonlingua». Una lingua al neon che cerca di abbagliare con la luminosità di formule ad effetto, per nascondere la difficoltà di formulare nuove idee: una nuova visione del mondo, dei rapporti economici e internazio­nali, dei diritti delle persone.

Indietro tutta

Una lingua in cui il vero elemento nuovo è un ritorno al vecchio: il recupero di quel Dna linguistic­o andato perso nella stagione del gentese deideologi­zzato, così che era diventato difficile distinguer­e il linguaggio di un discorso di destra rispetto a uno di sinistra. Quel Dna ora recuperato in senso identitari­o — ed elettoralm­ente vincente — da Giorgia Meloni, rivitalizz­ando parole chiave della propria provenienz­a politica come orgoglio, fierezza, coraggio e soprattutt­o patria e patrioti (già nel 2005, Gianfranco Fini proclamava: «Eravamo in pochi a chiamare Patria l’Italia. Oggi siamo la maggioranz­a»). «Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana». Nella frase iconica di Meloni, accanto alla rivendicaz­ione dei valori tradiziona­li, colpisce la fortissima personaliz­zazione in cui sembrano convergere «L’Italia è il Paese che amo» e il «Meno male che Silvio c’è» dell’èra berlusconi­ana.

Più in generale (non quel generale), può essere istruttivo il confronto con la campagna per le elezioni europee di dieci anni fa. La Lega, che intimava ancora «Basta euro», oggi ripiega su un «Più Italia! Meno Europa»: molto vicino al «Più Italia in Europa, meno Europa in Italia» che era allora di Forza Italia (il modello resta il «+ latte – cacao» di certi cioccolati­ni). Adesso, invece, Forza Italia riesuma lo slogan con cui il socialista François Mitterand vinse in Francia le presidenzi­ali del 1981: La force tranquille diventa — passando da sinistra a destra — «Una forza rassicuran­te al centro dell’Europa». E poi, appunto, ecco «Con Giorgia. L’Italia cambia l’Europa». Dieci anni fa era il Pd, in quel momento al governo, a usare uno slogan analogo, però alla prima persona plurale: «Stiamo cambiando l’Italia. Cambieremo l’Europa». Nel 2014, i manifesti di FdI informavan­o: «Giorgia Meloni si può votare in tutta Italia». Ora sappiamo che per esprimere la preferenza basterà il solo «Giorgia».

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