Corriere della Sera - La Lettura

Una storia è chi racconta una storia

Debutta con un intreccio che esalta l’arte dell’affabulazi­one: lo ambienta sull’isola di Linosa, mai nominata eppure riconoscib­ile, e tesse insieme lingua e dialetto, un mistero e l’indagine per svelarlo, bambini e adulti

- Di DEMETRIO PAOLIN

L’isola e il tempo (Einaudi) di Claudia Lanteri è il nuovo titolo della collana Unici della casa editrice torinese. Il romanzo della scrittrice siciliana, de facto un esordio, ci pone, in realtà, davanti agli occhi un’opera di una maturità — stilistica, compositiv­a, linguistic­a e di immaginari­o — notevole. L’isola e il tempo è un romanzo complesso da definire, da una parte si potrebbe parlare di giallo (a smentire i pregiudizi sulla scrittura femminile e il romance) e dall’altra è un testo di grande impatto, con una lingua misurata con un amalgama interessan­te tra dialetto e scrittura colta, che smentisce a sua volta una presunta tendenza della narrativa italiana a preferire la trama allo stile.

Il romanzo è narrato in prima persona, quella di Onofrio/Nonò/Nofriu, che appunto racconta una vicenda che avviene sul finire degli anni Cinquanta nell’isola, Linosa, mai nominata con il suo nome, ma evocata, descritta con amore e profonda partecipaz­ione dall’autrice. La storia è semplice: in un giorno assolato viene trovata una barca alla deriva e al suo interno ci sono due occupanti, un uomo (Bruno Surico) e il cadavere di donna (Margherita/Dasy). Da questo ritrovamen­to nascono una serie di domande che sono il motore della narrazione, che procede appunto come una investigaz­ione: come sono arrivati nell’isola? Che cosa nasconde la morte della donna? Perché Nonò non si fida del racconto del sopravviss­uto? Quale terribile segreto contiene il manoscritt­o che Margherita aveva con sé? Che fine hanno fatto gli altri componenti della barca? Che cosa accadrà dopo l’arrivo sull’isola di una sopravviss­uta al disastro, la piccola Mattia, che inizialmen­te non parla e poi racconta storie di orrendi mostri? A porsi queste domande è sopratutto Nonò, il quale tenta di risponderv­i nell’unico modo che conosce ovvero raccontand­o negli anni, a persone diverse, bambini, turisti, persino fantasmi, la storia della barca, del cadavere e della bambina; episodi, che di volta in volta cambiano, si confondono, s’allontano, s’avvicinano e infine toccano la verità.

Tramite l’inchiesta e la voce di Nonò la scrittrice siciliana descrive la vita isolana, ritratta con un amore e un’impeccabil­ità di tono rare: «Un suono intermitte­nte sale piano dal fondo della via; prima un colpo leggero, seguito da due colpetti ravvicinat­i, come il principio di una musica. Svolto l’angolo e mi ritrovo in mezzo ai piedi un gruppo di miei compagni scuola, che dopo tanti anni sono usi di giocare alla bríccica». Sbagliereb­be, comunque, chi vedesse in tale esempio di prosa soltanto il debito alla grande narrativa siciliana (Giovanni Verga certo, ma anche molto Vincenzo Consolo, a nostro avviso), perché Lanteri costruisce una struttura narrativa molto complessa dove appunto i tempi della narrazione, il presente, il passato prossimo e quello remoto si incrociano e confondono: il tempo non è sempliceme­nte il tempo arcaico dell’isola, quello ciclico della natura, ma è il kairós , l’attimo della rivelazion­e ultima.

Nonò racconta una storia per scoprirne il segreto e per mostrarlo agli altri, le continue discese in mare, le ricerche nei fondali indicano che il racconto e la narrazione per Lanteri possiedono qualcosa di orfico, di discesa negli inferi e di tentativo di portare in superficie il segreto indicibile. C’è qualcosa nella ricerca di Nonò e nel suo rapporto con Mattia che ricorda L’isola, celebre poesia contenuta nel Sentimento del tempo di Giuseppe Ungaretti (forse il titolo nasce da un’unione tra il titolo della lirica e il titolo della raccolta?), proprio per il medesimo discendere, inseguendo fantasmi, inseguendo larve e suoni e trilli.

L’isola e il tempo del titolo, quindi, via via che la narrazione procede diventano il luogo e momento in cui l’uomo prova a conoscersi. L’investigaz­ione non è più poliziesca, ma creaturale e filosofica, perché cerca di rispondere alla domanda: chi sono io? Nonò lungo le pagine del libro chiede attenzione, vuole la fiducia della gente che segue il suo racconto, quasi il protagonis­ta coincidess­e con il gesto di narrare. Come leggere quest’identifica­zione? Nonò, e Lanteri con lui, è convinto che l’ultima risorsa rimasta all’uomo, ciò che lo definisce e che ne definisce il destino, sia il racconto: raccontare storie è il modo decisivo di conoscere il mondo, di fare esperienza della vita e delle cose.

L’isola e il tempo è un atto d’amore per l’arte della narrazione, Nonò come un aedo stanco, vecchio, considerat­o il matto, lo spostato del paese, visita le tombe di chi è morto, seppellisc­e cani (uno dei capitoli più toccanti), tiene viva la memoria dei luoghi e nel visitarli li ri-canta e nell’incanto delle parole riviviamo l’arrivo della donna morta, lo stupore di Nonò, il mutismo di Mattia e, come invitatati a un banchetto, non importa quanto povero di pietanze (pane, fagioli, peperoni), noi stupefatti ascoltiamo quest’ultima incarnazio­ne di Odisseo. Non ci chiediamo se ciò che viene narrato sia vero o falso, se la fantasia abbia avuto ragione sulla realtà, ma sospendiam­o la nostra credulità e con Nonò ascoltiamo Mattia raccontarc­i dei mostri marini di cui pullula il mare e non facciamo come gli adulti nel romanzo che girano le spalle perché noi sappiamo che dietro i mostri c’è una verità che solo il racconto ci può mostrare: «Buona notte lombrichi, cicale stridule, buonanotte ragni nei nidi, buona notte anche a quell’unico sopravviss­uto pulcino. Sonno vieni e coglimi, toglimi subito da queste centomesse, che sono stufo di questa solitudine amara. Eppure la notte ritornano eserciti farmi compagnia».

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