Corriere della Sera - La Lettura
Una storia è chi racconta una storia
Debutta con un intreccio che esalta l’arte dell’affabulazione: lo ambienta sull’isola di Linosa, mai nominata eppure riconoscibile, e tesse insieme lingua e dialetto, un mistero e l’indagine per svelarlo, bambini e adulti
L’isola e il tempo (Einaudi) di Claudia Lanteri è il nuovo titolo della collana Unici della casa editrice torinese. Il romanzo della scrittrice siciliana, de facto un esordio, ci pone, in realtà, davanti agli occhi un’opera di una maturità — stilistica, compositiva, linguistica e di immaginario — notevole. L’isola e il tempo è un romanzo complesso da definire, da una parte si potrebbe parlare di giallo (a smentire i pregiudizi sulla scrittura femminile e il romance) e dall’altra è un testo di grande impatto, con una lingua misurata con un amalgama interessante tra dialetto e scrittura colta, che smentisce a sua volta una presunta tendenza della narrativa italiana a preferire la trama allo stile.
Il romanzo è narrato in prima persona, quella di Onofrio/Nonò/Nofriu, che appunto racconta una vicenda che avviene sul finire degli anni Cinquanta nell’isola, Linosa, mai nominata con il suo nome, ma evocata, descritta con amore e profonda partecipazione dall’autrice. La storia è semplice: in un giorno assolato viene trovata una barca alla deriva e al suo interno ci sono due occupanti, un uomo (Bruno Surico) e il cadavere di donna (Margherita/Dasy). Da questo ritrovamento nascono una serie di domande che sono il motore della narrazione, che procede appunto come una investigazione: come sono arrivati nell’isola? Che cosa nasconde la morte della donna? Perché Nonò non si fida del racconto del sopravvissuto? Quale terribile segreto contiene il manoscritto che Margherita aveva con sé? Che fine hanno fatto gli altri componenti della barca? Che cosa accadrà dopo l’arrivo sull’isola di una sopravvissuta al disastro, la piccola Mattia, che inizialmente non parla e poi racconta storie di orrendi mostri? A porsi queste domande è sopratutto Nonò, il quale tenta di rispondervi nell’unico modo che conosce ovvero raccontando negli anni, a persone diverse, bambini, turisti, persino fantasmi, la storia della barca, del cadavere e della bambina; episodi, che di volta in volta cambiano, si confondono, s’allontano, s’avvicinano e infine toccano la verità.
Tramite l’inchiesta e la voce di Nonò la scrittrice siciliana descrive la vita isolana, ritratta con un amore e un’impeccabilità di tono rare: «Un suono intermittente sale piano dal fondo della via; prima un colpo leggero, seguito da due colpetti ravvicinati, come il principio di una musica. Svolto l’angolo e mi ritrovo in mezzo ai piedi un gruppo di miei compagni scuola, che dopo tanti anni sono usi di giocare alla bríccica». Sbaglierebbe, comunque, chi vedesse in tale esempio di prosa soltanto il debito alla grande narrativa siciliana (Giovanni Verga certo, ma anche molto Vincenzo Consolo, a nostro avviso), perché Lanteri costruisce una struttura narrativa molto complessa dove appunto i tempi della narrazione, il presente, il passato prossimo e quello remoto si incrociano e confondono: il tempo non è semplicemente il tempo arcaico dell’isola, quello ciclico della natura, ma è il kairós , l’attimo della rivelazione ultima.
Nonò racconta una storia per scoprirne il segreto e per mostrarlo agli altri, le continue discese in mare, le ricerche nei fondali indicano che il racconto e la narrazione per Lanteri possiedono qualcosa di orfico, di discesa negli inferi e di tentativo di portare in superficie il segreto indicibile. C’è qualcosa nella ricerca di Nonò e nel suo rapporto con Mattia che ricorda L’isola, celebre poesia contenuta nel Sentimento del tempo di Giuseppe Ungaretti (forse il titolo nasce da un’unione tra il titolo della lirica e il titolo della raccolta?), proprio per il medesimo discendere, inseguendo fantasmi, inseguendo larve e suoni e trilli.
L’isola e il tempo del titolo, quindi, via via che la narrazione procede diventano il luogo e momento in cui l’uomo prova a conoscersi. L’investigazione non è più poliziesca, ma creaturale e filosofica, perché cerca di rispondere alla domanda: chi sono io? Nonò lungo le pagine del libro chiede attenzione, vuole la fiducia della gente che segue il suo racconto, quasi il protagonista coincidesse con il gesto di narrare. Come leggere quest’identificazione? Nonò, e Lanteri con lui, è convinto che l’ultima risorsa rimasta all’uomo, ciò che lo definisce e che ne definisce il destino, sia il racconto: raccontare storie è il modo decisivo di conoscere il mondo, di fare esperienza della vita e delle cose.
L’isola e il tempo è un atto d’amore per l’arte della narrazione, Nonò come un aedo stanco, vecchio, considerato il matto, lo spostato del paese, visita le tombe di chi è morto, seppellisce cani (uno dei capitoli più toccanti), tiene viva la memoria dei luoghi e nel visitarli li ri-canta e nell’incanto delle parole riviviamo l’arrivo della donna morta, lo stupore di Nonò, il mutismo di Mattia e, come invitatati a un banchetto, non importa quanto povero di pietanze (pane, fagioli, peperoni), noi stupefatti ascoltiamo quest’ultima incarnazione di Odisseo. Non ci chiediamo se ciò che viene narrato sia vero o falso, se la fantasia abbia avuto ragione sulla realtà, ma sospendiamo la nostra credulità e con Nonò ascoltiamo Mattia raccontarci dei mostri marini di cui pullula il mare e non facciamo come gli adulti nel romanzo che girano le spalle perché noi sappiamo che dietro i mostri c’è una verità che solo il racconto ci può mostrare: «Buona notte lombrichi, cicale stridule, buonanotte ragni nei nidi, buona notte anche a quell’unico sopravvissuto pulcino. Sonno vieni e coglimi, toglimi subito da queste centomesse, che sono stufo di questa solitudine amara. Eppure la notte ritornano eserciti farmi compagnia».