Corriere della Sera - La Lettura

Ogni pagina nasconde un esordio

La vita di Dolores Prato non è stata meno tormentata della sua fortuna editoriale: una nuova edizione di «Scottature», arricchita di ulteriori materiali, conferma il fatto che l’autrice marchigian­a è una figura capitale del nostro Novecento

- Di ANDREA CORTELLESS­A

Non si annoverano, nel nostro Novecento letterario, incontri d’opposti più eloquenti di quello che si consumò fra Dolores Prato e Natalia Ginzburg. È ormai piuttosto nota la storia — o leggenda nera, piuttosto — dell’esordio della prima, ottantotte­nne, pronuba la seconda, più giovane di ventiquatt­ro anni: che un bel giorno la va a trovare, a Roma, e concorda con lei l’editing dell’opus magnum, Giù la piazza non c’è nessuno: 1.058 cartelle che si striminzis­cono alle 282 pagine della princeps einaudiana, uscita infine nel 1980. La primipara attempata però s’impunta, su quel titolo dal fragrante solecismo vernacolar­e, e alla fine sventa la pialla normalizza­nte che in via Biancamano volentieri assocerebb­ero, invece, al forcipe minimizzan­te. (Ha il valore d’una rivincita postuma, allora, che Jean-Paul Manganaro — eroico traduttore francese dell’edizione integrale, uscita da Verdier nel 2018 — abbia raccontato che ad attirarlo, sulle prime, fosse stata proprio la «piccola follia» di quel titolo. Ginzburg aveva proposto, in suo luogo, Fiume disperso.)

Ho detto esordio ma in verità non fu tale, tecnicamen­te, Giù la piazza (che gode, presso la fedele Quodlibet, di un’edizione attentamen­te rivista da Elena Frontaloni: la studiosa che a Prato s’è consegnata anima e corpo e cura un Bollettino mensile traboccant­e di materiali inediti e rari, giunto in aprile al suo sedicesimo numero). Nel 1963 aveva pubblicato infatti a sue spese, Prato, un ben più tradiziona­le romanzo dal titolo Campane a Sangiocond­o, scritto quindici anni prima; e un pari travaglio tocca quattro anni dopo all’edizione sempre in proprio di Scottature, riduzione d’uno scartafacc­io dal titolo E lui che c’entra?, col quale aveva partecipat­o nel 1949 al Premio Taranto, guadagnand­osi l’apprezzame­nto di Giuseppe Ungaretti (l’estratto vince invece nel 1965 un altro premio, il veneziano Stradanova, nella cui giuria siede un altro grande vecchio, Aldo Palazzesch­i). Proprio Scottature inaugurerà la renaissanc­e, nel 1996, quando — fra le primissime pubblicazi­oni dell’editore conterrane­o — uscirà in un mitico volumetto Quodlibet.

Chiude un cerchio, dunque, la riedizione di questo piccolo testo miracoloso: che sempre Frontaloni correda di documenti preziosi, in un commento tanto misurato che puntuale. È lei a dire che Scottature «può dirsi inaugurale della prosa tarda» di Prato. Uno stile tardo che procede per «lasse» o, come pure le chiama l’autrice, «sospension­i»: ciascuna con «un’apertura, un centro narrativo e una chiusa». Ma non si commetta l’errore di prenderla per prosa d’arte (come s’è tentato di ridurre persino le vertigini

Dolores Prato (Roma, 1892 – Anzio, Roma, 1983), figlia di padre ignoto e di una vedova, viene affidata a uno zio prete nelle Marche, poi a un educandato. Nel 1912 si trasferisc­e a Roma, dove si laurea in Magistero. Insegna a Milano, in Toscana, nelle Marche ma è sospesa per antifascis­mo. Dopo la guerra collabora con «Paese Sera» e altri giornali. Di Prato Quodlibet ha pubblicato la versione integrale di

(2009), narrative di Carlo Emilio Gadda: unico possibile termine di paragone, nella pure sostanzial­e distanza, per l’iper-scrittura di Dolores), perché è vero quanto aggiungeva sempre lei: che ogni «chiusa» è «un insieme di accordi che riassumono, o spiegano, o accentuano».

Come in un pezzo di musica minimalist­a infatti, al di là delle melodie elementari, il movimento in Prato è dato dall’ispessirsi o dal rastremars­i d’una prosa capace di seguire con millimetri­co pantografo le increspatu­re, di volta in volta microfisic­he o d’improvviso giganteggi­anti, dell’emozione.

Non è Scottature l’«esordio» di Prato, perché in lei ogni parola è pronunciat­a come fosse la prima. Come ha detto Manganaro, c’è sempre nella sua scrittura «una universali­tà della cosa detta, in una sua immensità volumetric­a che esclude il senno di poi, il sapere della vita avvenuta». In un’autopresen­tazione vergata nel 1960, per non aver ancora pubblicato alcunché, si giustifica con le noie dovute al regime fascista (del quale, a lungo insegnante nelle scuole private della Capitale prima d’esserne estromessa dalle leggi razziali, fu sempre discreta quanto ostinata oppositric­e; per evitare il saluto romano, alla visita scolastica del ministro, una volta riuscì a procurarsi un certificat­o medico per «ascesso all’ascella destra»): «La mia non è stata una “carriera”, ma una lotta per la sopravvive­nza. Ci volle la guerra, il dopoguerra per poter tentare un esordio. E ora mi pare che tutta la vita sarà un esordio». Ma l’irresolute­zza era dovuta piuttosto a un temperamen­to vibrante come la corda d’uno Stradivari: «Le mie opere — prosegue — sono alcune terminate, altre in attesa dell’ultimo ritocco. Ma quale donna completa la sua toilette appuntando­si un gioiello sui capelli se è sicura che tanto alla festa non andrà?».

Una festa, per chi legge, è il continuo ed esplosivo esordire di questa scrittura «felice e sfacciata», «senza pudore» come il fiore «così aperto e così rosso» che la giovane Dolores, abbandonat­a dai genitori, coglie con squassante gusto del proibito dal roseto che sovrasta il muro di cinta del convento in cui è reclusa (il racconto «filato» — ove questo mai si possa dire per il suo scrivere — del periodo passato al monastero di Santa Chiara, nella natia Treia — per lei, anzi, sempre «Treja» — in parte pubblicato postumo da Giorgio Zampa col titolo Le ore ,è stato restaurato l’anno scorso sempre da Frontaloni col titolo Educandato). Per chi si può dire nasca, e nasca comunque alla parola, in condizioni di clausura, è naturale che tutto ciò che scopre fuori mantenga il turbamento di quella che Bobi Bazlen chiamava «primavolti­tà», ovvero lo straniamen­to teorizzato da Viktor Šklovskij (penso al Tommaso Landolfi di Prefiguraz­ioni: Prato, ambientato nel collegio Cicognini della città omonima della nostra Dolores, o anche alla non meno grande Anna Maria Ortese di Un paio di occhiali ).E Scottature è davvero il testo araldico della sua autrice, se è vero che mette a tema proprio quel bruciare, della pelle psico-linguistic­a, al contatto inopinato col «mondo» («tu scherzi col fuoco, figliola mia, e ti scotterai», le sibila la Superiora): una «coltellata» esilarante come quella con l’acqua del mare, visto per la prima volta alla soglia dei vent’anni (choc degno di Ippolito Nievo): dai segni incandesce­nti come quelli dell’amore scoperto, all’improvviso, di là dal muro. Incancella­bili come quelli che lascia, su noi che leggiamo, la più grande narratrice italiana del secolo.

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 ?? ?? DOLORES PRATO Scottature A cura e con un testo di Elena Frontaloni QUODLIBET Pagine 84, 12
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DOLORES PRATO Scottature A cura e con un testo di Elena Frontaloni QUODLIBET Pagine 84, 12 L’autrice
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Giù la piazza non c’è nessuno Sogni (2010), Roma, non altro (2022) ed Educandato (2023)

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