Corriere della Sera - La Lettura
Anatomia di un pugno da Nobel
Sceglie la formula del romanzo — quindi senza fonti né date — per raccontare il colpo con cui Mario Vargas Llosa stese Gabriel García Márquez e per ipotizzare i motivi della fine dell’amicizia fraterna tra i due scrittori
Pur parlando di fatti realmente accaduti e documentati, e delle vite di due persone molto celebri, I giganti di Jaime Bayly (che è un buon equivalente del genios del titolo originale) è un romanzo a tutti gli effetti, cioè una storia fondamentalmente assoggettata all’arbitrio di un narratore e alla complicità di un lettore, e non un resoconto saggistico di una qualche realtà oggettiva alla quale lo scrittore sia obbligato a render conto.
I protagonisti della storia — entrambi futuri Nobel — campeggiano sulla copertina del libro, che riproduce una vecchia foto in bianco e nero. Si capisce subito che l’immagine è stata scattata in un’occasione mondana: un ricevimento in qualche ambasciata, o il vernissage di una mostra in una capitale dell’America Latina, o ancora, chissà, un premio letterario, la presentazione di un libro di uno dei due. A sinistra, un giovane ed elegantissimo Mario Vargas Llosa tiene una sigaretta fra le dita, e ride con gli occhi socchiusi a una battuta appena pronunciata da Gabriel García Márquez, più basso dell’altro di un’intera spanna. Anche lui vestito in maniera impeccabile, l’autore di Cent’anni di solitudine tiene in mano un bicchiere. All’anulare sinistro di entrambi è ben visibile una fede nuziale, e forse Patricia e Mercedes, le loro mogli, pur escluse dall’inquadratura sono lì a godersi la serata.
Questo tipo di fotografie è spesso ingannevole, perché fa sembrare amiche due persone per il solo fatto di trovarsi casualmente vicine, fatto che rende sempre un po’ fastidiosa la presenza di fotografi in situazioni sociali dove si viene a contatto con molti estranei. Ma sul legame di amicizia tra i due scrittori nessuno poteva nutrire dubbi. Entrambi erano uomini pubblici, che si erano lasciati alle spalle durissime e picaresche gavette per accedere, ancora molto giovani, a una condizione di leggende ambulanti. Ed erano vite in ogni senso straordinarie quelle che vivevano, passionali e movimentate come trame di romanzi. Si volevano bene come fratelli, si ammiravano, avevano bisogno l’uno dell’altro, e qualunque artista sa quanta importanza possiedono, nel cammino della vita, legami così profondi e rassicuranti.
Nel 1971, pochi anni dopo l’uscita di Cent’anni di solitudine, Vargas Llosa scrisse un saggio nel quale attribuiva a García Márquez prerogative di creatore di mondi addirittura divine. Ma ci sono legami che rimangono nella memoria solo per la loro fine sorprendente, e l’amicizia tra Vargas Llosa e García Márquez è sicuramente uno di questi. Fu Vargas Llosa, come è ben noto, a chiudere il conto in maniera improvvisa e plateale. Visto che il libro di Bayly, come ho già accennato, non vuole in nessun modo essere un saggio, e manca di qualsiasi riferimento bibliografico o archivistico, sono andato a controllare l’episodio nella bellissima Cronologia premessa da Bruno Arpaia al Meridiano dei Romanzi di Vargas Llosa.
È il 12 febbraio del 1976, e i due scrittori si incontrano a Città del Messico all’anteprima di un film. García Márquez, l’adorato Gabito, all’arrivo di Mario gli va incontro a braccia aperte, chiamandolo «fratello !». A quel punto Vargas Llosa, invece di ricambiare il saluto, gli tira in faccia quello che è stato definito «il pugno più famoso dell’America Latina». A non essere capaci, va ricordato, si rischia più che altro di farsi male alla mano: ma Vargas Llosa, soprannominato scherzosamente «il cadetto», era sopravvissuto all’odiata accademia militare di Lima imparando a difendersi e se necessario ad attaccare. E mentre García Márquez giace semisvenuto sul pavimento, Vargas Llosa rivendica fieramente il gesto, da intendere come la riparazione di un torto: «Questo è per quello che hai fatto a Patricia», o secondo altri testimoni «per quello che hai detto».
È da questo epicentro che prende le mosse il romanzo di Bayly, che potrebbe intitolarsi Anatomia di un cazzotto. Che cosa aveva fatto di così grave García Márquez a Patricia, moglie e cugina dell’autore de La Casa Verde edi Conversazione nella «Catedral», per meritarsi un occhio nero e la fine di un’amicizia così importante? Anche a non essere degli esperti in materia, è facile capire che, per affrontare un mistero così privato, e così deformabile a seconda dei punti di vista adottabili, Bayly si è documentato a lungo, soppesando il valore di ogni singolo indizio. Ma una somma aritmetica di fatti e indizi non equivale mai alla verità: sarebbe come confondere i mattoni con l’edificio. Se vogliamo superare una certa soglia nella conoscenza del cuore umano, e accedere alla sfera delle motivazioni profonde di un gesto, non possiamo fare a meno di ricorrere all’immaginazione. Finendo necessariamente per raccontare una persona reale come faremmo con un personaggio scaturito dall’arbitrio della fantasia.
Non è dunque a causa di un futile vezzo o peggio ancora per ottenere una maggiore leggibilità che il libro di Bayly ostenta la sua natura di romanzo. Nel racconto sono abolite addirittura le date, come a sottolineare il fatto che il tempo narrativo, con i suoi andirivieni, è in grado di rivelare rapporti tra cause ed effetti più complessi da quelli suggeriti da un semplice ordine cronologico. Il fatto è che l’inconfessabile preme e deforma l’esistenza umana con una tale potenza da rendere sospetto anche il documento più ineccepibile, la testimonianza più credibile, la confessione più sincera. E ogni volta che vogliamo dare un’occhiata al di là di questo muro, è a un atto di immaginazione che è necessario affidarci.
Quello di Bayly è un libro avvincente, che dona i suoi lettori qualcosa di più dello scioglimento di un mistero da libro giallo. Il racconto ci conduce fino al limite dell’immaginabile, in una stanza d’albergo di Barcellona, dove si ritrovano, al termine di una lunga notte alcolica, García Márquez e la moglie del suo grande amico.
Non voglio rivelare più del necessario, ma dirò solo che quanto ci viene raccontato è un vero caso di coscienza, degno dei più raffinati moralisti dell’età barocca. Ha fatto bene Vargas Llosa a troncare l’amicizia con García Márquez, in maniera così clamorosa, senza nemmeno sentire la necessità di ascoltare la sua versione? Personalmente, da semplice lettore disinteressato e divertito, mi sono fatto l’opinione che García Márquez abbia subìto un’ingiustizia, ma che, per parte sua, se la sia ampiamente meritata.
È una contraddizione, certamente: ma per come la racconta Bayly, il presunto colpevole non ha passato il limite imposto dalle regole dell’amicizia e dell’onore. Semmai, a volere entrare nella testa della parte offesa, già l’essersi trovato in prossimità di quel limite è una colpa: e così la penseranno molti lettori de I giganti. Del resto, quando un giornalista gli chiese se sarebbe tornato amico di García Márquez, Vargas Llosa rispose che in queste faccende «non si sa mai», perché «l’amicizia, come tutte le cose, è molto relativa». Avrebbe anche potuto dire che è molto più fragile di quanto si pensa quando ci si chiama «fratelli» e si crede di conoscere l’uno tutti i segreti dell’altro.