Corriere della Sera - La Lettura
L’Europatroval’opera chenonmorìinguerra
Francia, 1914. Il compositore Albéric Magnard spara ai tedeschi che gli attaccano la casa, loro appiccano un incendio che lo uccide. Si perde una partitura. Anzi no: «Guercoeur», in scena a Strasburgo, va in tv
Gli invasori arrivano una mattina di settembre. Anno 1914. Un drappello di ulani tedeschi avanza verso la grande dimora di campagna, il Manoir des Fontaines, a Baron, in Piccardia, dove il compositore Albéric Magnard da anni si è ritirato. Il maestro prende la rivoltella, sale al primo piano e dalla finestra di un bagno comincia a far fuoco. Uccide un caporale, ferisce un sergente. I tedeschi chiamano rinforzi, sparano, saccheggiano, danno fuoco al palazzo. Magnard muore tra le fiamme, carbonizzato come la sua quadreria (opere di Gustave Courbet, François Boucher, Rosalba Carriera…), i libri, le lettere. E soprattutto le musiche, ancora manoscritte: vanno perduti i Douze Poèmes op. 22 e la partitura orchestrale di due dei tre atti dell’opera Guercoeur, composta fra il 1897 e il 1901.
Comincia così, con un’apparente fine, come la vicenda del suo protagonista, la storia di una composizione che è, invece, storia di una rinascita. Joseph Guy Ropartz, amico ed estimatore di Magnard, sulla base dell’atto sopravvissuto (fortunosamente lasciato presso una zia) e dell’edizione per canto e piano, ri-orchestra nel 1916 i due atti bruciati. Per l’esecuzione completa, bisogna però attendere il 1931, a Parigi, con replica nel 1933; e una riscoperta in tempi recenti a Osnabrück. Ma è dello scorso aprile la nuova e più significativa restituzione dell’opera: «la Lettura» vi ha assistito in esclusiva italiana, all’Opéra du Rhin di Strasburgo, dove Guercoeur è tornata in scena per la prima volta dopo 91 anni in terra francese. Registrata dal canale televisivo «Arte», verrà trasmessa il 25 maggio, in una stagione lirica che, stilata da Veronka Köver, coglie gemme rare da 23 teatri in tutta Europa.
Non è la solita riesumazione storicistica: è la riproposizione di un capolavoro, ingiustamente negletto a fronte di tanti autori sovrastimati per mero intellettualismo. Dobbiamo l’exploit alla passione e anche al coraggio di Alain Perroux, sovrintendente dell’Opéra du Rhin; al regista Christof Loy; a Ingo Metzmacher sul podio: «Magnard — confida a “la Lettura” il direttore — aveva il senso della musica pura, sapeva unire l’intreccio dei Leitmotiv, come in Wagner, a una clarté, una chiarezza tutta francese».
Figura solitaria e schiva, Magnard nasce a Parigi nel 1865. A quattro anni un trauma lo segna per sempre: la madre muore suicida (ancora nel 1902 aprirà i suoi Quatre Poèmes op. 15 con l’aria «Je n’ai jamais connu les baisers d’une mère», «Non ho mai conosciuto i baci di una madre»...). Studia diritto, perché così vuole il padre, il potente direttore del quotidiano «Le Figaro», ma la sua passione è la musica. Nell’agosto 1886, a Bayreuth, resta folgorato da Wagner. A 22 anni, sfida il padre, entra in Conservatorio, studia armonia con Theodore Dubois, composizione con Jules Massenet; sarà poi allievo di Vincent d’Indy. Scrive quattro sinfonie, musica da camera, alcune opere, ma sempre restando ai margini dell’ambiente ufficiale. Alla morte del padre, il censo gli permette una vita di altezzosa sicurezza e libertà intellettuale. Pubblica a sue spese o in cooperativa, con la «stamperia comunista» L’Emancipatrice. Parteggia per Dreyfus , plaude al J’accuse…! di Émile Zola; difende la causa femminista («Il socialismo di oggi morirà se non se ne fa carico»), sostiene l’«Unione delle donne insegnanti e compositrici di musica». A dispetto delle convenzioni sociali, sposa (civilmente) una ragazzamadre, Julia, accogliendo come suo il figlio di lei. Alle religioni ufficiali sostituisce una personale, anticlericale spiritualità. In musica, è un wagneriano che usa i Leitmotiv, ma adora Brahms.
C’è molto dell’idealismo di Magnard, nella figura di Guercoeur (fusione di guerre e coeur, «guerra» e «cuore»: un cuore in lotta...): creazione del compositore, come tutto il libretto, altro tratto wagneriano, Guercoeur è un eroe-poeta, che salva il popolo dalla tirannide — non a caso, Darius Milhaud paragonerà Magnard ad André Chénier. Quando la scena si apre, il protagonista (in questo allestimento, il baritono Stéphane Degout, voce di nobile pienezza), appena defunto, si ritrova sbalzato in uno strano paradiso: che Christoph Loy ambienta in un nero infinito, popolato da «eletti» silenziosi e attoniti, in abiti novecenteschi. A reggere questi cupi Campi Elisi, un quartetto di divinità femminili, Bonté, Beauté e Souffrance (Bontà, Bellezza, Sofferenza), con al vertice Vérité. Magnard ne stende la purezza quasi estatica in una musica priva di facili pittoricismi o sfocature impressioniste, limpida ma empatica, sempre cangiante (fino a quattro variazioni di passo, Moderé-Animé-Retenez-Moderé, in sei battute...), con melodie plasmate secondo un ricorsivo profilo arcuato; e suadenti corali, anche a otto parti, che Metzmacher fa riecheggiare, all’inizio, da fuori scena, con splendido effetto: «Douce inconscience! Le temps n’est plus. L’espace n’est plus», «Soave oblio! Il tempo non esiste più. Lo spazio non esiste più»... Come il Siegmund wagneriano, Guercouer chiede, però, di poter rinunciare all’atarassia di questo mesto Walhalla: vuole vivere, agire, tornare sulla terra, al suo grande amore, Giselle, che gli ha giurato fedeltà eterna. Vérité acconsente. Le dee lo aspergono con acque lustrali, fine tocco di ritualizzazione creato da Loy: «Come una purificazione o un battesimo al contrario», spiega il regista. Souffrance (qui la densa voce di Adriana Bignagni Lesca) gli benda gli occhi: il congedo vale una rinascita.
La scena ruota, il nero assoluto si trasforma in bianco accecante, onde più netta si stagli la cruda realtà del mondo terreno, reso da Loy speculare all’aldilà.
Le prove per Guercoeur non tardano. Giselle (il soprano Antoinette Donnefeld, ardente e fascinosa) si è consolata in fretta: ora vive con Heurtal, «discepolo» di Guercoeur. All’apparire del compagno creduto morto, il suo grido lacerante si scioglie in una confessione che è forse l’onda più toccante dell’opera, per delicatezza di melodie infinite. Stretta dal rimorso, Giselle invoca un perdono-benedizione che Guercoeur, come purificato da tanto dolore, concede, per avviarsi alla seconda disfatta. Il popolo è in rivolta (e qui Loy scatena spettacolari dinamismi, con masse corali dalle notevoli capacità sceniche); e nello scontro delle fazioni, Guercoeur nuovamente muore.
L’atto finale ci riporta all’afflato mistico e al nero paradiso dell’esordio, dove il protagonista viene riaccolto, reso saggio non dalla Compassione (come il Parsifal wagneriano: «durch Mitleid wissend»), ma dalla Rinuncia. Vérité profetizza «tempi nuovi», nei quali, grazie alla «fusione delle razze e delle lingue», l’uomo apprenderà il «culto della pace»; e, avvolta in una musica di fluida luminosità, invoca per Guercoeur beatitudini quasi panteiste: «Si confonda la tua anima nell’anima delle cose! Sii l’aroma dei fiori e il canto dei poeti! Sii la calma delle sere e il sogno delle vergini!». Il coro intona in cadenza plagale la parola ultima, «Speranza!». Sul nero fondale si accendono le stelle di un nuovo firmamento.