Corriere della Sera - La Lettura
Hanno assoldato il killer sbagliato
Il regista Richard Linklater si ispira a un sicario che in realtà era un infiltrato della polizia. Ne è uscita una pellicola che è noir, thriller, azione, commedia. «Indago il concetto di identità. Nell’era di Tinder ci rappresentiamo come non siamo»
«In una strada carina e tranquilla, in un quartiere carino e tranquillo a nord di Houston, vive un uomo, carino e tranquillo. Ha 54 anni, alto ma non troppo, con corti capelli castani già virati sul grigio intorno alle basette. Ha morbidi occhi marroni. A volte indossa degli occhiali con la montatura di metallo che gli danno l’aria da professore». Iniziava così l’articolo Hit Man di Skip Hollandsworth pubblicato nell’ottobre 2001 sul mensile «Texas Monthly». Richard Linklater, amico dell’autore, lo aveva letto all’epoca dell’uscita, colpito dal racconto, incredibile ma verissimo, della vita di Gary Johnson, il killer più richiesto della città, con oltre sessanta incarichi all’attivo per sparare, accoltellare, avvelenare, soffocare i loro nemici, rivali in amore, ex partner. Quello che i suoi committenti non hanno mai sospettato era che il sicario, che si presentava con nomi come Mike Caine, Jody Eagle, Chris Buck, lavorava da infiltrato della polizia, come lui stesso raccontò vent’anni fa al giornalista, per arrotondare i magri guadagni da professore. Un materiale umano persino troppo ricco e carico di colpi di scena per essere trasformato in film, pensava il regista della trilogia Prima dell’alba, Before Sunset. Prima del tramonto e Before Midnight edi Boyhood. Fino a quando un altro amico, l’attore Glen Powell, lo ha convinto del contrario. Lo hanno realizzato a quattro mani, uno regista, l’altro protagonista, entrambi produttori e sceneggiatori. Passato a Venezia 80 fuori concorso (ma in molti lo avrebbero sognato in gara), Hit Man arriva in sala il 27 giugno con Bim.
«Avevo girato già un film da un articolo di Skip, in passato, un’altra storia di cronaca nera vera — racconta Linklater a “la Lettura” — ma inimmaginabile: Bernie, su un dipendente di un’impresa di pompe funebri che diventa assassino. Ma per quella di Gary Johnson, pur continuando a risuonarmi in mente, non trovavo la via per farne una commedia dark. Mi ha convinto Glen che, scoperta la storia durante la pandemia, si è immaginato calato nelle diverse identità assunte con gran naturalezza da Gary. E scrivendo ci siamo inventati quella di Ron, una specie di suo alter ego palestrato e sicuro di sé, che perde la testa, ricambiato, per una cliente, Madison (Adria Arjona, ndr)».
La figura del sicario solletica da sempre l’immaginazione, è uno dei personaggi chiave di tanta letteratura noir ancora prima che di cinema tv.
«Infatti è più letteraria che reale. Il nostro film è un’opera di decostruzione di quest’immaginario. Dobbiamo chiederci: perché vogliamo credere che esistano killer che risolvano i nostri conflitti?».
E che risposta vi siete dati?
«Credo sia una forma di vigliaccheria e, insieme, di incapacità di accettare il conflitto. Ci è stato insegnato a non essere troppo aggressivi, ma la fantasia che la tua vita sarebbe migliore se qualcuno sparisse ti lavora dentro. Ti pago per lavare la macchina, tagliarmi i capelli, vendermi droga: lo si considera alla sorta di un servizio per il consumatore».
Persino uccidere?
«Mi ha colpito come i video delle persone convinte di trattare l’accordo per eliminare qualcuno avessero toni per niente drammatici. Me lo ha confermato il vero Gary Johnson, che nella sua incredibile vita ha anche insegnato Psicologia e Filosofia. Le persone vogliono credere all’esistenza di un mondo sotto copertura a tal punto che le forze dell’ordine devono intervenire per prevenire questi potenziali delitti. L’ho trovato insieme divertente e spaventoso. Le cito un esempio recente».
Quale?
«Un annuncio, pubblicato per scherzo, di ricerca di potenziali killer: “Vorresti uccidere qualcuno? Segnati qui” . Diverse persone hanno iniziato a farlo fino a quando è intervenuta la polizia».
Ha conosciuto il vero Gary Johnson?
«Ci ho parlato spesso al telefono. Purtroppo è morto appena prima che cominciassimo a girare, mi è dispiaciuto molto. Era un veterano del Vietnam, era diventato un maestro zen, ha avuto un funerale buddhista».
Il film mescola molto generi: noir, thriller, azione, «screwball comedy». Johnson era d’accordo?
«Sapeva che lavoravamo al film ispirato alla sua vicenda, ha solo commentato: “Mi sembra una buona cosa. Skip mi ha detto che sei un bravo ragazzo, gli credo, fai pure”. Ci ha lasciato fare».
È anche un film sulla ricerca di identità.
«Credo che in questo secolo, con l’esistenza di diverse forme di alter ego virtuali, la questione sia più attuale che mai. Le cose possono essere manipolate, puoi creare un personaggio, presentarti diverso da come sei. Tutti lo fanno sul web, dai politici alla gente comune. Anche sulle app tipo Tinder le persone mettono versioni migliorate di sé stesse. Non dico sia necessariamente negativo o illegale, solo che il concetto di verità, e anche di identità, è più sfuggente».
Avete spostato la vicenda da Houston, perché?
«Abbiamo ambientato il film a New Orleans: sono due città che hanno molto in comune. Lo spirito del sud, sangue caldo, una bella vena di pazzia».
La sua filmografia è composta da titoli e generi molto diversi. Forse il filo rosso potrebbe essere proprio la costruzione di sé.
«Credo di averci pensato per la prima volta da quando avevo 4 anni: “Chi siamo? Come siamo diversi?”. Ci rifletto su da allora. Mi sono sempre interessate le persone colte nel processo di scoperta della propria natura. Sono ossessionato dall’idea di come siamo tutti simili e allo stesso tempo così diversi».