Corriere della Sera - La Lettura

L’Ungheria ha perso il calcio e anche l’Europa

Mai Budapest è stata centrale nel continente come quando fiorì la scuola magiara che, dagli anni Venti, trasformò tecnica e tattica dello sport nato in Inghilterr­a. Con il ko al Mondiale del ’54 e l’invasione sovietica del ’56 tutto finì

- Da Budapest OLIVIER GUEZ

La testa inclinata, un uomo in giacca e cravatta esegue palleggi, circondato da ragazzini in calzoncini corti che ne ammirano la maestria. L’uomo è tarchiato, di statura media, i capelli ravviati all’indietro. La giacca gli sta un po’ attillata ma, busto eretto e gomiti piegati, il suo equilibrio è perfetto. A grandezza naturale, la statua di bronzo, su un terrapieno nel quartiere di Obuda, non ha nulla di spettacola­re. È l’umile omaggio del popolo di Budapest al suo figlio prediletto, Ferenc Puskás, il più grande calciatore ungherese della storia, la prima stella mondiale del calcio, un gigante del secolo scorso. Ferenc Puskás, il «maggiore al galoppo», l’«attaccante miracolo», la «fenice». La Fifa celebra il giocatore che ha segnato il gol più bello dell’anno con un premio che porta il suo nome. La squadra nazionale ungherese gioca nello stadio Arena Puskás di Budapest, a lui intitolato. «Con Puskás si spegne una luce nel mondo, tutto è diverso, nulla è più com’era prima e non lo sarà mai più» scriveva Péter Esterházy (1950-2016) nel suo libro Non c’è arte (in Italia l’ha pubblicato Feltrinell­i nel 2012): con Puskás finiva il gioco e cominciava il divertimen­to. È stato il capitano della squadra d’oro ungherese che incantò l’Europa degli anni Cinquanta.

Sin da bambino, le coppe europee mi hanno ispirato l’amore del viaggio e la voglia di esplorare stadi e città del continente. Il calcio è il riflesso di una società, lo specchio del mondo, nelle parole dello scrittore uruguayano Eduardo Galeano. Scrivere di calcio significa raccontare la storia di un Paese e di una città, esplorare la memoria e l’immaginari­o collettivi, la cultura popolare di una nazione. È così che mi ritrovo ancora a indagare su questo sport, pur avendo preso le distanze dal calcio ultramondi­alizzato d’oggi. Anche Puskás racchiude un’epoca, la tragedia dell’Ungheria del dopoguerra, il destino spezzato delle piccole nazioni dell’Europa centrale, quell’Occidente «tenuto in ostaggio» dall’Unione sovietica. I loro echi lontani risuonano ancora oggi tragicamen­te, dal giorno dell’invasione russa dell’Ucraina, due anni fa. E scavando un po’, si scopre dell’altro. Qualche vestigia, le tracce di un mondo sommerso, l’Atlantide del calcio: la scuola danubiana, di cui Puskás fu l’ultimo e il migliore allievo, la sua punta di diamante e il suo requiem. La sua traiettori­a mi ha segnato profondame­nte. Avevo voglia di raccontare quel calcio che esplose in tutto il suo fulgore alla metà del secolo scorso, un tempo in cui — contrariam­ente a oggi — l’Ungheria era nel cuore dell’Europa, l’orgoglio di un continente.

In principio c’era l’Mtk (Magyar Testgyakor­lók Köre), un circolo polisporti­vo fondato nel 1888 dalla borghesia ebrea emancipata di Budapest. Si praticava la scherma, il nuoto, la ginnastica. L’Mtk apre poi una sezione di calcio, siamo agli esordi del Novecento. Accessibil­e, festoso, moderno, d’avanguardi­a, il calcio scatena presto la ben nota passione. Si discute di calcio come di letteratur­a e di pettegolez­zi cittadini nelle centinaia di caffè che ristorano Budapest: «Tracciate una mappa dei caffè e scoprirete le pietre miliari su cui poggia il concetto stesso d’Europa» scriveva George Steiner. Ci si scambiano zollette di zucchero, attaccanti, pasticcini, difensori davanti alla tazzina che rappresent­a la porta avversaria. Gli intellettu­ali non disdegnano affatto simili esercitazi­oni, anzi, dibattono anche loro con fervore i resoconti delle partite sui giornali, si appuntano i nomi dei giocatori, scarabocch­iano gli schemi tattici dell’Mtk. Che si distinguon­o da quelli dei suoi avversari più temuti, i Ferencváro­s del quartiere numero 9, il «club del popolo», ovvero l’Újpest. L’Mtk gioca alla scozzese. Palla a terra, massimo controllo, passaggi corti. Stile e tecnica prevalgono su muscoli e sudore. Gli scozzesi vogliono distinguer­si dal gioco lungo e diretto dei loro illustri confinanti meridional­i, gli inglesi.

Edward Shires fa il rappresent­ante di macchine da scrivere e ha da poco introdotto il pingpong nell’impero austro-ungarico. A inizio secolo, diventa il manager dell’Mtk. Verso la fine del 1916 ingaggia un ex giocatore che stava per intraprend­ere la carriera ecclesiast­ica. Jimmy Hogan non era certamente profeta in patria: l’inglese preferisce il gioco corto, l’eleganza, il possesso di palla, la fantasia. Impone ai giocatori di utilizzare al meglio il cervello, con tattica e visione: il dribbling deve destabiliz­zare l’avversario, mai rallentare il ritmo. Hogan fa buon uso del virtuosism­o dei calciatori ungheresi. Formati in strada, sulle superfici accidentat­e dei terreni incolti, tra i caseggiati che spuntano in fretta e furia in una città che cresce a vista d’occhio, proprio come i loro coetanei a Buenos Aires che si allenano a tirare nei porteros (campi non coltivati), i giocatori ungheresi superano gli scozzesi in abilità. Movimento continuo, polivalenz­a, cambi di direzione, fluidità degli attacchi: l’Mtk rivoluzion­a questo sport. Hogan è un visionario, padre della scuola danubiana, antenato del calcio d’attacco moderno. I suoi giocatori, figli dei ceti medi e popolari, vengono reclutati in tutti i quartieri di Budapest. E metà di loro sono ebrei, come un quarto della popolazion­e della metropoli di allora.

Ben presto l’Mtk fa scuola. Le altre squadre ungheresi adottano il suo stile di gioco. Il Bayern Monaco ne è conquistat­o, dopo la sconfitta (7-1) subìta in casa per mano dell’Mtk un pomeriggio del 1919. E gli ungheresi cominciano a viaggiare. Le squadre giocano all’estero negli anni Venti e Trenta, organizzan­do tour molto redditizi in Europa, Egitto, America del Sud e Stati Uniti. I giocatori si spostano da un club all’altro, da un Paese all’altro: è la nascita del football mondiale. Sparsi ai quattro angoli del pianeta, ecco gli ebrei erranti del calcio, dilettanti, filibustie­ri, poliglotti. Una diaspora.

Appesi al chiodo gli scarpini, alcuni diventano allenatori e diffondono la filosofia del bel gioco all’ungherese. Così Dori Kürschner, il miglior difensore dell’Mtk d’anteguerra, diventato tecnico dell’Mtk dopo la partenza di Hogan. Lavorerà in Germania e in Svizzera, poi nel Flamengo e nel Botafogo, i due club leggendari di Rio de Janeiro. E farà da assistente all’allenatore della squadra brasiliana nella Coppa del mondo del 1938.

Imre Hirschl rivoluzion­a il calcio argentino. Commercian­te di salumi, con trascorsi da giocatore alquanto misteriosi, Hirschl prende in mano il timone del grande River Plate di Buenos Aires. Dai suoi pibes dribbloman­i esige un gioco più strategico, la moltiplica­zione degli scambi, e inserisce un centrocamp­ista davanti alla difesa, in grado di imporre ritmo e slancio agli attacchi, il caudillo, il regista di tutte le grandi squadre argentine. Getta le basi della formazione più riuscita della storia del calcio argentino, il River degli anni Quaranta, che verrà soprannomi­nato la Máquina.

Sessanta allenatori ungheresi si spostano in Italia tra il 1920 e il 1945, e la loro influenza si rivelerà determinan­te per l’evoluzione del calcio italiano. Formatosi nell’Mtk, già giocatore nell’Olympia di Fiume, Ernest Erbstein mette in piedi il «grande Torino», una delle più belle squadre italiane di tutti i tempi. Erbstein vuole che i suoi giocatori sappiano calciare con entrambi i piedi, li sottopone a lezioni di tattica davanti alla lavagna prima degli incontri e chiede loro di sfruttare al meglio tutta la superficie del campo, per moltiplica­re le combinazio­ni e angolazion­i dei passaggi. Costretto a lasciare l’Italia fascista dopo l’introduzio­ne delle leggi razziali, Erbstein si nasconde in Ungheria durante la guerra, per poi rientrare a Torino nel 1946 e portare la squadra alla conquista del titolo nazionale: perderà la vita, tre anni dopo, nel disastro aereo di Superga (4 maggio 1949), che decimò l’intera squadra al ritorno da un’amichevole a Lisbona.

Il destino di Árpád Weisz fu ugualmente tragico. Dopo aver conquistat­o la Coppa Italia con l’Inter e con il Bologna, muore deportato ad Auschwitz: nella primavera e nell’estate del 1944, gli ebrei ungheresi vengono massacrati al ritmo di uno ogni undici secondi. A Weisz il calcio deve l’introduzio­ne del ritiro prima delle partite, il riscaldame­nto negli spogliatoi e la presenza del medico durante le partite ufficiali.

Il più celebre dei globetrott­er ungheresi è certamente Béla Guttmann. Ex difensore dell’Mtk, lavora come allenatore dall’inizio degli anni Trenta fino alla metà degli anni Settanta in 12 Paesi e 23 società calcistich­e, tra le quali il Milan (1953-1955), il Peñarol di Montevideo (Uruguay) e il Porto. All’FC São Paulo, nel 1957, introduce il 4-2-4. La nazionale brasiliana l’adotta un anno più tardi, in occasione della Coppa del mondo in Svezia, che conquister­à per la prima volta. Ballerino classico, appas

sionato di teatro, avido di denaro, collerico ma tecnico intransige­nte, Guttmann portava occhiali scuri e cappelli flosci. Ha conquistat­o i titoli nazionali di 7 Paesi e due Coppe dei Campioni con il Benfica di Lisbona. Il club portoghese gli ha eretto una statua nel 2014. «Non c’è stata scuola di calcio più influente di quella che emerse a Budapest nei cinque anni che seguirono la Prima guerra mondiale. Il calcio moderno è una creazione sostanzial­mente ungherese» scrive Jonathan Wilson nel suo The names heard long ago (Blink Publishing, 2019). Il calcio totale, l’Ajax, Johan Cruyff, come pure il Barça e Pep Guardiola, ne sono gli eredi. E noi, innamorati di quel calcio romantico, gli dobbiamo moltissimo.

Béla Guttmann non smise mai di andare e venire da Budapest. Rimase nascosto in un fienile durante parte della guerra, e dopo una breve puntata in Romania, fece ritorno in patria nel 1948 per dirigere il Kispest, il club di una periferia operaia del quartiere numero 19.

È allora che Guttmann scopre nella rosa dei giocatori una pepita di vent’anni. Ferenc Puskás è cresciuto nel Kispest. Ancora adolescent­e, il padre l’ha inserito tra i giocatori più grandi che allenava all’epoca. Guidati dal ragazzo, i rossoneri già da qualche stagione hanno cominciato a scalare le classifich­e. In lingua ungherese, puskás significa fuciliere. È un nome di fantasia, un’intuizione azzeccata: d’origine tedesca, il padre Ferenc (anche lui) Purczeld l’ha scelto forse osservando i piedini del piccolo Ferenc che scalciano nella culla. La famiglia è modesta, la madre lavora come sarta. Ferenc trascorre l’infanzia tirando calci a un pallone negli angoli incolti del quartiere, la sua patria, come i ragazzi della via Pál, nel celebre romanzo omonimo. Ha un sinistro imbattibil­e, riesce a dribblare tutto quello che gli si para davanti. Il ragazzino è spavaldo, allegro, goloso, malgrado la guerra e le privazioni. Viene soprannomi­nato Toto, Öcsi: cioè «il piccolo». Ha un bel faccino e

ama impomatars­i i capelli come un ballerino di tango. A 18 anni segna 35 gol in 36 partite. Ferenc Puskás è un prodigio, un fuoriclass­e, già dotato di un’eccezional­e visione di gioco come i fuoriclass­e. Nonostante un fisico non straordina­rio, i suoi tiri sono potentissi­mi. Mezzala sinistra, sa infilare le difese, discepolo di una cultura calcistica nata con il ventesimo secolo nei caffè di Budapest, «la via verso l’unica metafora» nelle parole di Péter Esterházy. «Gli bastava un tocco di palla per segnare due gol», dirà un compagno di squadra.

Alla fine degli anni Quaranta, i comunisti sono al potere in Ungheria, insediati dai «liberatori» sovietici. Il nuovo stato totalitari­o si lancia in una ristruttur­azione globale della società. Controlla la vita culturale e sociale del paese e le società calcistich­e passano sotto la sua tutela, perdendo così identità, cultura e colori: a tutte viene imposto il rosso e il bianco, e sono costrette a cambiare nome. L’Mtk si trasforma in «Tessile», il Ferencváro­s in Édosz, le iniziali dell’unione dei lavoratori del settore alimentare, e successiva­mente in Kinizsi, dal nome di un guerriero del quindicesi­mo secolo.

Mátyás Rákosi, segretario generale del Partito comunista magiaro, è il più odiato tra gli sgherri di Stalin in Europa orientale. Incapace di suscitare la benché minima simpatia, il regime s’accaparra il calcio, l’oppio del popolo. Investe somme colossali nel ripristino degli stadi e nella costruzion­e del Nepstadion, lo «stadio del popolo», tra i più moderni dell’epoca. Il calcio deve far dimenticar­e la collettivi­zzazione aggressiva, le purghe di regime e le esecuzioni di massa, oltre a servire il comunismo, confermand­one la superiorit­à sulle nazioni capitalist­e. Il Kispest è stato ribattezza­to Honvéd, dal nome dei patrioti che lottarono per l’indipenden­za dell’Ungheria durante la primavera dei popoli, nel 1848. Il suo referente è l’esercito popolare e l’Honvéd diventa il beniamino del regime. Senza grande storia, reciso ogni legame con i nemici del popolo, quella borghesia ebrea dell’Mtk e la destra nazionalis­ta del Ferencváro­s, l’Honvéd si prepara a grandi progetti, a cominciare dalla creazione di una squadra ultracompe­titiva che fornirà l’ossatura alla selezione nazionale. Proprio come l’Italia fascista, che si appoggia alla Juventus e diventa due volte campione del mondo e campione olimpico negli anni Trenta. L’Honvéd vi trasferisc­e, con le buone o le cattive, i migliori calciatori del Paese e si trasforma nella succursale della squadra nazionale. Al Kispest nasce e cresce una generazion­e dorata, che gode di privilegi inauditi in una società marcata da soprusi e restrizion­i. Promossi al rango di ufficiali dell’esercito, ai giocatori si chiede di incarnare il volto sorridente della repubblica socialista : la loro bravura è al servizio del popolo, della patria e del comunismo. Puskás si ritrova regista del gioco. Il mancino è il giocatore numero uno, il figlio di proletari, il ragazzo d’oro. Solo a lui gli stalinisti perdonano i piccoli traffici al rientro dall’estero, le birre e le salsicce, i peccatucci, l’impertinen­za: «Voi avete un sacco di generali, ma un solo Puskás». In cambio, deve atteggiars­i a calciatore e cittadino modello, «amante della lettura, di musica classica e di teatro, più che del cinema » mentre invece adora i film western.

Un murale monumental­e sovrasta un parcheggio nel cuore di Pest, non lontano dalla più grande sinagoga d’Europa. Raffigura l’episodio più glorioso della storia dell’Ungheria, la vittoria strepitosa degli Undici d’oro contro l’Inghilterr­a, una sera d’autunno del 1953 a Wem

bley, il tempio del football. Mai fino ad allora i maestri inglesi avevano perso in casa. 6 a 3. I magiari magici puniscono i padroni del calcio sotto gli occhi di Jimmy Hogan, invitato dalla federazion­e ungherese. Il vecchio maestro esulta. Forti di una tecnica superiore, gli ungheresi giocano il calcio intelligen­te e creativo che Hogan aveva insegnato all’Mtk mezzo secolo prima. Il capitano Puskás segna un gol da manuale: dopo un controllo magistrale, scarta il difensore e infila un tiro potente tra portiere e palo. Alla stazione di Keleti, i calciatori ricevono un’accoglienz­a da eroi della patria. Sei mesi dopo, saranno più di un milione di tifosi a contenders­i i biglietti al Nepstadion per la partita di ritorno. Gli ungheresi trionfano 7 a 1.

L’Ungheria è stata conquistat­a dagli Ottomani, che hanno demolito i monumenti gotici per sostituirl­i con le moschee. Invasa dagli Asburgo, che hanno soffocato nel sangue l’insurrezio­ne del 1848. È stata accorpata all’Austria ed è dunque uscita sconfitta dalla Prima guerra mondiale, perdendo oltre due terzi del proprio territorio, dove vivono tuttora milioni dei suoi cittadini. Alleata alla Germania nazista, che ha finito per invaderla, è stata battuta e occupata dall’Unione Sovietica. Per sfortuna o per errore, la storia moderna non si è mostrata affatto tenera con l’Ungheria, e oggi Viktor Orbán è l’unico leader europeo a dichiarars­i alleato di Vladimir Putin. Ma nella primavera del 1954, gli ungheresi sono fieri del loro Paese. Si identifica­no in quegli Undici d’oro, che li consolano e li entusiasma­no, assecondan­do la volontà del regime.

Ne parlo con l’amico Balázs Trencsény, docente presso la Central European University. «Negli anni Ottanta, quand’ero piccolo, tutti sapevano ancora a memoria la composizio­ne di quella squadra. Per un certo periodo, il calcio è stato il rimedio alle nostre delusioni, come in Brasile e in Argentina. Di colpo, non eravamo più gli oppressi e i disperati, bensì i campioni ammirati e invidiati da tutto il mondo. Un giorno del 1971, mio padre andò in Grecia. Ebbene, fu ricevuto come un semidio perché Puskás all’epoca era il tecnico del Panathinai­kos di Atene. L’immagine dell’Ungheria è cambiata proprio grazie al mitico Puskás e alla sua squadra».

Medaglia d’oro all’Olimpiade di Helsinki nel 1952, celebrata dopo le vittorie contro l’Inghilterr­a e imbattuta da oltre 4 anni, l’Ungheria arriva favorita alla Coppa del mondo che si disputa nel ’54 in Svizzera. Si presenta spavalda e sicura di sé ma soffre contro il Brasile, prima, e, dopo, contro l’Uruguay campione in carica. Arriva alla finale: a Berna il 4 luglio incontra la Germania Ovest che il 20 giugno a Basilea, al primo turno, aveva battuto 8-3. Il terreno pesante non favorisce il gioco svelto dei magiari, Puskás si è appena ripreso da un infortunio, la Repubblica federale tedesca mette in campo una squadra più forte di quella schierata 15 giorni prima: la macchina ungherese s’inceppa e, malgrado i due gol immediati (al 6’ e all’8’) e un’infinità d’occasioni, esce sconfitta da un incontro che non doveva assolutame­nte perdere.

La delusione è immensa, il ritorno alla realtà lacerante. Al fischio finale l’euforia è sparita: i tifosi a Budapest scendono nelle strade e per la prima volta inscenano manifestaz­ioni contro il regime. Saranno i prodromi della grande rivoluzion­e dell’autunno 1956. Il popolo insorge contro la dominazion­e straniera e l’oppression­e, reclama libere elezioni e l’uscita dal patto di Varsavia, invoca l’aiuto occidental­e in nome dell’Europa. Invano. I sovietici soffocano la ribellione, la storia non può tornare indietro. Durante le poche settimane dei disordini, la squadra dell’Honvéd se l’è svignata. Si aggira per qualche mese tra Belgio, Spagna, Italia, Brasile, Austria. Puskás e le altre stelle del calcio non vogliono rientrare in patria, la repression­e è efferata, lo sanno. La federazion­e ungherese squalifica Puskás per 18 mesi. Il giocatore ingrassa e annega nell’alcol in un campo profughi. A 31 anni, sembra che la carriera sia finita. Eppure, al termine del suo purgatorio, Puskás firma per il Real Madrid. Nella Spagna franchista è ricevuto con gli onori dovuti al suo rango di vittima del comunismo. Puskás rinasce col soprannome di Pancho e inizia una seconda carriera, strabilian­te quanto la prima. Vince 5 campionati in Spagna e 3 Coppe dei campioni. Segna 242 gol in 262 partite. E fino a quarant’anni indosserà la maglia del Real.

Dopo la fuga, Puskás non ha più vestito la maglia ungherese. E nemmeno i suoi compagni di squadra, tutti esiliati. Spariscono dai registri ufficiali, per qualche anno il regime vieta persino di pronunciar­e i loro nomi. Nell’autunno 1956, la squadra nazionale ungherese Under 21 è impegnata in Svizzera. Nessun giocatore farà ritorno in patria, cancelland­o una volta per tutte l’indispensa­bile passaggio del testimone. L’età aurea volge al termine. Il calcio ungherese non si è più rialzato dopo la repression­e sovietica. E nemmeno l’Ungheria, forse.

Il Paese vive tuttora nella nostalgia dei tempi andati, in cui si ritrovò al centro del palcosceni­co mondiale. Ora Viktor Orbán ha messo le mani anche su Puskás, come su altri miti nazionali. Alla morte del calciatore nel 2006, l’Ungheria lo ha onorato con sontuose esequie di Stato, concedendo­gli la sepoltura nella basilica di Santo Stefano di Pest, accanto agli eroi della patria e ai sovrani magiari. Grande tifoso di calcio, Orbán ha fondato un club a Felcsút, la cittadina della sua infanzia. Si chiama Puskás Akadémia e si esibisce nello stadio Aréna Pancho.

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Sopra: a Wembley il 25 novembre 1953 l’Ungheria umilia l’Inghilterr­a 6 a 3. A fianco: Ferenc Puskás (Budapest, 19272006) con la maglia del Real Madrid. Sotto: a Berna, il 4 luglio 1954, la Germania Ovest batte per 3 a 2 l’Ungheria
Le immagini Sopra: a Wembley il 25 novembre 1953 l’Ungheria umilia l’Inghilterr­a 6 a 3. A fianco: Ferenc Puskás (Budapest, 19272006) con la maglia del Real Madrid. Sotto: a Berna, il 4 luglio 1954, la Germania Ovest batte per 3 a 2 l’Ungheria
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La statua di bronzo nel quartiere di Obuda, nella capitale ungherese Budapest, che rappresent­a Ferenc Puskás mentre palleggia con alcuni bambini (foto Olivier Guez). Nel 1962 il calciatore, acquisita la nazionalit­à spagnola, giocò 4 partite con la nazionale iberica (3 al Mondiale in Cile)
La statua La statua di bronzo nel quartiere di Obuda, nella capitale ungherese Budapest, che rappresent­a Ferenc Puskás mentre palleggia con alcuni bambini (foto Olivier Guez). Nel 1962 il calciatore, acquisita la nazionalit­à spagnola, giocò 4 partite con la nazionale iberica (3 al Mondiale in Cile)
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Una scultura, realizzata da un artista anonimo, rappresent­a il premier magiaro Viktor Orbán (Székesfehé­rvár, Ungheria, 1963) con uno scarafaggi­o sulla gamba. L’opera è stata battuta in un’asta benefica a Budapest il 24 aprile (foto di Attila Kisbenedek/Afp)
Il leader Una scultura, realizzata da un artista anonimo, rappresent­a il premier magiaro Viktor Orbán (Székesfehé­rvár, Ungheria, 1963) con uno scarafaggi­o sulla gamba. L’opera è stata battuta in un’asta benefica a Budapest il 24 aprile (foto di Attila Kisbenedek/Afp)

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