Corriere della Sera - La Lettura
La frontiera dei nativi 315 anni di guerra: il massacro peggiore
Membro dei Cheyenne del Sud, torna in libreria in Italia con «Stelle vaganti». Parla della barriera tra gli Usa e il Paese vicino, ma soprattutto di quel confine raso al suolo dall’uomo bianco quando calpestò le nazioni indigene
All’alba del 29 novembre 1864, 160 anni fa, «settecento uomini ubriachi aprirono il fuoco con i cannoni» contro una distesa di tepee, le tende a forma conica degli indigeni delle praterie americane. Nel villaggio sul fiume Sand Creek, tra i confini di quel territorio che venne chiamato Colorado, erano accampati i cheyenne e alcuni arapaho. La maggior parte erano donne, anziani, bambini, perché i guerrieri erano a caccia. I cavalleggeri del colonnello John Chivington massacrarono oltre 150 persone, circa 300 riuscirono a fuggire. Inveirono sui corpi con ferocia inaudita. Li scotennarono e li mutilarono per accaparrarsi i gioielli. Poi appiccarono il fuoco. Di ritorno a Denver, vennero accolti come eroi.
L’America finì e rinacque quel giorno. Generazioni di cheyenne e arapaho, come lo scrittore Tommy Orange (1982), hanno ascoltato il racconto doloroso di Sand Creek dai loro padri. E proprio da quel racconto parte il nuovo romanzo di Orange, nato e cresciuto a Oakland, California, una delle voci più brillanti della narrativa americana. Stelle vaganti (in uscita per Mondadori) è una sorta di sequel e di prequel del romanzo d’esordio, Non qui, non altrove (Frassinelli, 2019).
Stelle vaganti è un’opera multigenerazionale, polifonica: segue un percorso genealogico che comincia con Jude Star, uno dei sopravvissuti di Sand Creek, che sposa una donna bianca, anch’essa «superstite tra le ceneri di un fuoco americano». Orange, cresciuto leggendo Kafka, Borges e Landolfi, ripercorre un secolo e mezzo di storia, prima di arrivare ai giorni nostri e di riaprire il finale del libro precedente, che costruì come un mosaico di storie narrate da punti di vista diversi e tutte tragicamente accomunate dal powwow di Oakland, una competizione dove i nativi si ritrovano per danzare e celebrare le origini. «La Lettura» ha raggiunto Tommy Orange al telefono.
Nel capitolo di Charles Star, discendente di Jude, c’è una frase che racchiude il senso del romanzo: «La memoria è una mappa senza un centro, una trappola per coloro che rischiano grosso ripensando troppo alla loro esistenza».
«Charles Star scappa dalla Carlisle Indian Industrial School, il collegio fondato nel 1879 da Richard Henry Pratt per “rieducare” gli indiani. Il motto di Pratt era: uccidi l’indiano, salva l’uomo. Rileggendo la storia ho cercato di mettere in risalto il fatto che la memoria non si manifesti secondo una linea retta. Non abbiamo il controllo della memoria».
Perché è ripartito dal primo libro?
«Due mesi prima che uscisse Non qui, non altrove mi trovavo in un magazzino a firmare le copie per i lettori. Il rappresentante commerciale aveva impostato una playlist di Spotify in cui c’era There There dei Radiohead (il titolo originale di Non qui, non altrove è There There, ndr). Finita quella canzone cominciò Wandering Star del gruppo Portishead. Non so come spiegarlo oggi, ma all’epoca, nel giro di un attimo, ho capito che avrei scritto il sequel di Non qui, non altrove. Quel libro finiva lasciando il lettore in sospeso. Sapevo già il nuovo titolo: Wandering Stars, cioè Stelle vaganti. Durante il primo tour promozionale mi trovavo in Svezia. Vidi esposti in un museo paramenti e vesti della mia tribù, con un ritaglio di giornale che parlava di un’epoca in cui i cheyenne erano nel Sud della Florida. Scoprii un pezzo di storia della mia gente. Scoprii che le prime scuole per indiani erano in Florida, in questa prigione-castello di cui parlo in Stelle vaganti. Scoprii che la prigione aveva la forma di una stella e che il nome di uno dei prigionieri era Star. Un altro si chiamava Bear Shield, come il nome di famiglia presente in Non qui, non altrove. Così è nato il sequel».
Il libro si apre con una delle pagine più buie della guerra tra l’uomo bianco e i nativi. «Più anni in guerra con gli indiani che con altre nazioni. Trecentoquindici anni»: dal 1609, con le prime colonie, al 1924, quando ai nativi venne concessa la cittadinanza americana.
«Sono cresciuto ascoltando i racconti del massacro di Sand Creek. È il punto di avvio della devastazione delle mie tribù, Cheyenne e Arapaho. Ho imparato la storia di Sand Creek da mio padre, che la imparò da suo padre. Questo romanzo è una lezione di sopravvivenza».
Il titolo s’ispira anche alla Bibbia, che Jude legge in prigione perché «parla di quello che era accaduto e che stava succedendo» alla sua gente.
«Sono nato in una famiglia religiosa, mia madre, bianca, era cristiana evangelica. Scoprire come gli indigeni si confrontarono con le Sacre Scritture, imposte dalle scuole, era un modo per elaborare un bagaglio emotivo».
Il mutismo accomuna alcuni personaggi, come Jude Star e Opal Viola, «silenziosa come una pietra». È un atto di resistenza, di ribellione?
«Per Jude il mutismo deriva dal trauma di essere sopravvissuto a Sand Creek. Più avanti nella vita ritroverà la parola. Il silenzio di Opal è protettivo: non vuole insegnare le tradizioni ai nipoti, per proteggerli. È un’esperienza che ho vissuto anch’io. Mio padre era imbevuto della tradizione cheyenne, ma parlava poco del passato. Non voleva riportare a galla un dolore antico, non voleva che quel dolore arrivasse a noi».
Restituendo umanità alla figura di Richard Henry Pratt compie un gesto di «pietas» letteraria: sotto la sua direzione passarono quasi 5 mila bambini e bambine di 77 nazioni tribali.
«Pratt non era tra i peggiori. La maggior parte degli americani voleva risolvere il problema indiano uccidendo gli indiani. Pratt provò con l’educazione».
Victoria Bear Shield legge malvolentieri Mark Twain e odia il modo in cui Jack London descrive gli indiani. Che cosa ne pensa delle liste di proscrizione dei classici negli Stati Uniti?
«Twain usa termini spregiativi per i nativi, li ritrae come persone orribili. Una volta, parlando con lo scrittore Ocean Vuong, ci trovammo d’accordo sul fatto che è giusto che queste opere siano ancora sugli scaffali, invece di cancellarle. Bisogna capirne il contesto».
La dipendenza da droghe e alcol è un tema portante di questo e del libro precedente, che arriva fino al presente.
«La devastazione portata dai bianchi nelle vite dei nativi spesso poteva essere sopportata solo con l’uso di droghe e alcol. È un effetto del colonialismo. Le nostre cerimonie sono state vietate per mezzo secolo. Quando tagli i legami di un popolo con la spiritualità che dà un senso al mondo, il salto verso la dipendenza è veloce. L’alcol e la droga hanno riempito un vuoto».
La vittoria di Joe Biden nel 2020 è passata anche per il voto nativo, cruciale per esempio in Arizona, conquistata per qualche migliaio di preferenze. Come voteranno le comunità indigene alle elezioni del prossimo 5 novembre?
«Tendono a votare per i democratici. Il voto del 2024 non premierà Donald Trump. Biden non è granché ma Trump è un politico e un essere umano orribile».
Che cosa ne pensa della gestione del confine e dei flussi migratori da parte di Biden, al centro di aspre critiche?
Il timore «È così da sempre: i nazionalisti di tutto il mondo hanno paura che gli immigrati conquistino i loro Paesi»
«Il confine è un disastro. Le critiche una vecchia storia: nazionalisti di tutto il mondo hanno paura che gli immigrati conquistino i loro Paesi, politici di tutto il mondo parlano e annunciano misure per inasprire i confini. È così da sempre».