Corriere della Sera - La Lettura
Il mito dell’uomo onnivoro
Dialoghi di Pistoia , in programma dal 24 al 26 maggio: un’occasione per ragionare sul nostro rapporto con il cibo, meno scontato di quanto si pensi. Perché i tabù alimentari sono parte integrante di un po’ tutte le tradizioni
«Siamo ciò che mangiamo?» è il tema al centro dei
Uno dei miei primi ricordi scolastici mi rimanda a un’affollata aula delle elementari, con tanto di grembiule e fiocco blu, in cui la (unica) maestra spiegava a proposito di biologia che l’uomo (allora si diceva così) è onnivoro, un po’ come il maiale. Tornai a casa entusiasta di aver imparato quella parola complessa e la spiegai a mia madre, con cui parlavo solo in dialetto. «Ah», rispose, «vedi che devi mangiare anche le verdure! Però non siamo come i maiali!». La cosa finì lì.
Molti anni dopo mi trovai a svolgere una ricerca in Polinesia, sulle isole di Wallis e Futuna. La famiglia con cui vivevo mi faceva spesso domande sul cibo e mi chiedeva di cucinare piatti italiani. Trovai in un emporio un pacco di spaghetti Panzani (tutti lo pronunciavano con l’accento sulla «i», alla francese). Bastava un minuto di bollitura, per una pasta di grano tenero di dubbia qualità. L’etichetta diceva che erano prodotti per un’azienda francese da uno stabilimento di Mondovì, provincia di Cuneo. Li condii con un improbabile olio «italiano» imbottigliato a Port Vila, Vanuatu, e con pomodori pelati dall’aria malaticcia. Alla fine non era così male, ma i miei amici polinesiani non apprezzarono granché. Non mi chiesero più di cucinare pasta. Sempre meglio della volta in cui, carente di cibo vegetale e di alimenti verdi, proposi loro un’insalata con aggiunta di aceto. Mi è sempre piaciuto l’aceto: quando lavoravo nelle campagne con mio nonno, preparavamo una bottiglia di acqua, zucchero e aceto, la attaccavamo per il collo con una corda per imballare il fieno e la immergevamo nell’acqua fresca del canale di irrigazione. Il mio amico polinesiano Setefano disse che non aveva mai sentito un gusto orribile come l’aceto.
Non siamo onnivori. Scegliamo, selezioniamo, modelliamo i gusti fin da bambini. Capita che una società dichiari tabù, ovvero proibiti, certi tipi di cibo che sarebbero perfettamente commestibili. Le tartarughe marine, come le Caretta caretta, a Futuna sono tabù. Le uniche eccezioni al divieto sono importanti feste locali, in cui la prima carne cotta deve essere donata al capo villaggio. È noto che intere tradizioni religiose, come l’islam e l’ebraismo, hanno proibito il maiale; indù e buddhisti non amano le carni, ma in particolare non si cibano di bovini; in quasi tutte le società gli animali da compagnia sono oggetto di divieto. Qualche giorno fa, a pochi chilometri dall’arrivo di una tappa del Giro d’Italia, un gruppo di allevatori in protesta ha innalzato un cartello: «Non mangeremo mai insetti»! Perché e come un cibo diventa tabù? Perché alcune società proibiscono certi cibi?
Possiamo individuare almeno tre ordini di motivi. Il primo lo chiameremo la ragione simbolica. Nel 1966 un’antropologa inglese, Mary Douglas, pubblicò per la prima volta un libro di grande successo, Purezza e pericolo (il Mulino, 2014). Nel capitolo più noto, Gli abomini del Levitico, la Douglas si interrogava sulla lunga lista di cibi proibiti dall’Antico Testamento, dal cammello alla lepre, dai serpenti alle anguille, dai rapaci agli insetti alati, oltre ovviamente all’abominevole «porco». Che cosa spiega questo lungo elenco di cibi proibiti? Ogni società, diceva la Douglas, si regge su un sistema di classificazione che divide cose pulite o «pure» da cose «impure»: oggetti, persone e animali «normali» da altri considerati anomali. La classificazione riflette un pensiero e una cultura che vanno intesi come «sistemi», forme di organizzazione articolate e relativamente ordinate e persistenti. I tabù per la Douglas sono, non a caso, cibi e spesso animali anomali. «Non mangerete nulla di abominevole. Questi sono gli animali di cui potete mangiare: bue, pecora, capra, cervo, gazzella, daino, stambecco, antilope, bufalo, camoscio; potrete mangiare di ogni animale che ha lo zoccolo spaccato e diviso in due unghie e che rumina »( Deuteronomio, 14). Gli erbivori commestibili, in genere, hanno lo zoccolo spaccato e ruminano: lepri e conigli, però, ruminano ma non hanno l’unghia divisa a metà; e il maiale ha lo zoccolo spaccato, ma non rumina! Essi sono quindi proibiti: come le abominevoli anguille che, pur vivendo nell’acqua come i pesci, deviano rispetto alla «regola», perché non hanno squame e branchie e strisciano persino sul terreno. In un mondo creato da Dio, essere perfetto, l’ordine delle cose dovrebbe essere altrettanto perfetto, da cui la distinzione tra: pesci, animali di terra che camminano (lo strisciare è già un’anomalia, da cui lo schifo del mangiare serpenti), animali del cielo che volano, erbivori che ruminano e così via. Tutte le specie ibride o difficilmente classificabili sono anomalie, abomini, deviazioni da non ingerire, da cui i tabù alimentari.
Vent’anni dopo la Douglas, nel 1985, un antropologo americano, Marvin Harris, pubblicò quello che è probabilmente il libro più celebre di antropologia del cibo, Buono da mangiare (Einaudi, 2006). Harris proponeva un’altra via alla spiegazione dei tabù alimentari, che potremmo definire la ragione materialistica o ecologica.
Prendiamo ad esempio il solito maiale. Questo animale richiede grandi quantità di acqua: non solo per bere, ma per raffreddarsi. I contadini tradizionali della pianura padana avevano spesso delle pozze d’acqua in cui i maiali sguazzavano in piena estate. I maiali infatti sudano pochissimo e per raffreddarsi hanno bisogno di acqua. Inoltre, essendo simili a noi nel mangiare, richiedono molto cibo di cui potrebbero nutrirsi gli umani. Quando in numerose aree del Medio Oriente il clima divenne più secco, l’allevamento del maiale risultò piuttosto sconveniente. Il maiale era un pericoloso concorrente alimentare e, piano piano, scivolò tra gli animali abominevoli. E le mucche, allora, in India? Perché popolazioni sull’orlo della fame non si cibavano delle loro carni succulente? Perché, sosteneva Harris, la mucca «è meglio da viva che da morta». I bovini erano ottimi animali da trazione e trasporto e i loro escrementi fornivano materiale combustibile e da costruzione. E gli insetti, i vermi e i serpenti? Perché non li mangiamo? Per Harris è una questione di economia e di tempo: sicuramente le formiche del miele sono un ottimo alimento (infatti i nativi australiani se ne cibavano), ma quanto tempo ci vuole a raccoglierne a sufficienza per un pasto?
La ragione simbolica e la ragione materiale non sono così inconciliabili come sembrerebbero a un primo sguardo e infatti, onestamente, Harris e Douglas aprivano l’uno alle ragioni dell’altra. Entrambi però hanno forse trascurato una terza ragione che chiameremo relazionale o interculturale. Spesso i cibi proibiti sono quelli che «altri» mangiano e viceversa succede che noi mangiamo i cibi che altri proibiscono. I cristiani cominciarono a cibarsi di maiale forse anche perché gli ebrei non lo facevano. Non mangiamo gli insetti perché, nel nostro immaginario, sono il cibo di popolazioni nere, primitive e diverse da noi. Al contrario mangiamo ultimamente molto sushi perché ci rappresentiamo il Giappone come una società affascinante. I cibi buoni da mangiare sono quelli di società buone da pensare e viceversa. Mangiamo o non mangiamo i cibi degli altri per imitarli o per prenderne le distanze. A volte li respingiamo e a volte li adottiamo al punto da incorporarli come cibi delle «nostre» tradizioni. Polenta e bagna cauda , i due cibi della tradizione cuneese, sono fatti l’uno con un cereale domesticato da antichi abitanti delle Americhe, il mais, e l’altro con un pesce, l’acciuga, che non nuota certo nel Po. Però «noi» gli insetti non li mangiamo, perché sono il cibo di quelli che alcune forze politiche vorrebbero tenere ben lontani dai «nostri» confini.