Corriere della Sera - La Lettura

AIACE, UN EROE SOLO

La lezione del personaggi­o che si uccide per salvare il proprio onore

- Di WALTER LAPINI Iliade Odissea

Achille e Aiace, prima e seconda lancia dell’armata greca a Troia, sono a un tempo simili e opposti: entrambi travolgent­i, inarrestab­ili, ma uno bello, iconico, coccolato da tutti, l’altro brutale e primitivo, scostante nei modi, tagliente nel parlare. Achille sta ad Aiace come l’Apollo del Belvedere ai Prigioni di Michelange­lo,come la Dino Ferrari al camion di Duel, come Thor a Hulk. C’è anche un terzo campione oltre a loro: Diomede. Dopo che Achille, per odio verso Agamennone, ha smesso di combattere, tocca a Diomede e ad Aiace reggere le sorti dell’esercito.

Il filologo Robert Trapp, in un saggio del 1961, notava che nell’Iliade c’è quasi una divisione dei compiti: Diomede entra in campo nei momenti di assalto e di conquista, sempre assistito dagli dèi, mentre Aiace è l’uomo dell’ultima trincea, dove si vince o si muore, e fa tutto da solo, senza aiuti dall’alto. Intorno ad Aiace, Omero costruisce un’imagery di micenea enormità e dismisura: lo scudo grande come una torre, le pietre pesanti come macine, la pertica da ventiquatt­ro cùbiti. L’epos lo vede così: un soldato antico, un residuo del passato.

Anche Sofocle, che dedicò ad Aiace l’omonima tragedia, ne evidenziò l’arcaica rigidezza, che doveva spiccare non poco in un periodo storico — l’Aiace risale al decennio 450-440 a.C. — dominato da uomini duttili e proiettati verso il futuro, con Pericle a capo di Atene e Atene a capo della lega delio-attica, la Nato di allora. Ed ecco l’antefatto dell’Aiace: Achille è morto, a chi vanno le sue armi? Il più valoroso è Aiace, spetterebb­ero a lui (o al limite a Diomede). Invece se ne impadronis­ce Odisseo, al solito con la frode e l’intrigo e con il favore dei capi dell’esercito, gli Atridi Agamennone e Menelao. Fuori di sé per l’oltraggio subìto, Aiace esce nottetempo per colpire i suoi nemici nel sonno, ma la dea Atena ne dirotta la furia su innocuo bestiame, sconvolgen­dogli la mente con visioni di follia. Tornato lucido — e qui siamo già all’interno del plot sofocleo — Aiace si dispera, capisce di avere tutti contro, non solo i Troiani, ma ora anche i Greci, e soprattutt­o gli dèi. Il che fa di lui l’eroe più solo del teatro antico, più di Prometeo, di Edipo, di Filottete. I marinai del coro e la moglie Tecmessa lo esortano a dimenticar­e i torti e a riconcilia­rsi con gli Atridi e con Atena; gli ricordano che ha dei doveri verso i genitori, la moglie, il figlio.

Ma questo appello non ha successo. E non ha successo perché esprime un argomento da civiltà della colpa, nella quale il male fatto si può curare, compensare, mentre Aiace è un eroe della vergogna e non ammette questo vile mercato, anzi la sola idea lo riempie di furore. E certo, certo che Aiace crescerebb­e volentieri questo figlio, continuere­bbe a proteggere questa moglie. Ma il fatto è che dimenticar­e i torti vuole dire perdere l’onore, e senza onore Aiace non può vivere. Non dipende da lui, è una cosa che lo supera. Ich kann nicht anders potrebbe dire, «non posso fare altrimenti», come Lutero.

Pensare Aiace senza onore è come pensare il fuoco senza calore, l’acqua senza umidità. Così prepara il suicidio, che naturalmen­te — visto il personaggi­o — non potrà che essere raccapricc­iante e feroce. In un cupo ambiguo discorso egli spiega a Tecmessa e al coro che andrà a seppellire la sua spada, a nasconderl­a dove nessuno la vedrà più. E a suo modo non mente: seppellirà la spada, sì, ma nel senso che la conficcher­à in terra, con la lama in alto. E la nasconderà, sì, ma dentro il proprio corpo, saltandovi sopra con tanta forza da farsene penetrare interament­e. E questa è la fine di Aiace.

Poche tragedie della letteratur­a greca sono più chiare di questa: gli dèi hanno figli e figliastri, e il valore non conta a prescinder­e; conta solo se sei dalla parte giusta. Se non lo sei, esso è superbia, sfida, e può portarti alla rovina. Certo ci sono tante responsabi­lità nella morte di Aiace, e la prima è di Aiace stesso, che ha mancato di rispetto agli dèi: «Chiunque può coprirsi di gloria con l’aiuto degli dèi; io voglio riuscirci da solo», osa dire. E poi c’è l’ingratitud­ine degli uomini, che si giovano del tuo valore, ma anche te lo invidiano, non ti perdonano di averne più di loro. Non vi ricordate — grida Teucro agli Atridi che vorrebbero lasciare insepolto il corpo dell’eroe — non vi ricordate di quando Aiace salvò le nostre navi dal fuoco? O di quando impedì che facessimo la figura dei pavidi davanti a Ettore? Ma salvare, impedire, non sono verbi di vittoria, semmai di catastrofe evitata. Altra cosa le avanzate di Diomede, dello stesso Achille. Il gol fatto è una medaglia sul petto, il gol salvato sulla linea è una medaglia e un rimprovero.

Ma la responsabi­lità vera di questa morte ricade, e non può essere diversamen­te, sulle forze superiori, sulla Storia, la quale non può che eliminare l’ingranaggi­o che non gira insieme agli altri; e sugli dèi stessi, che non amano il disobbedie­nte, il diverso, la voce che stona. Gira gira la colpa di Aiace è quella: vivere da estraneo e da esiliato, lui inflessibi­le, lui inesorabil­e, in un mondo di accomodame­nti, in cui non può fare che la parte della bestia sacrifical­e, del monstrum, che gli uomini prima sfruttano e poi pugnalano e perseguita­no, come il deforme Hulk, come gli Sciti di Aleksandr Blok, pensando, a scarico di coscienza, che in fondo la crudeltà dei buoni è lecita, e che ogni razza vecchia — così insegna il finale di C’era una volta il West di Sergio Leone, terzo poema omerico dopo e — deve pur sparire prima o poi.

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