Corriere della Sera - La Lettura

Un melodramma di Shakespear­e

È uscito — con un nuovo titolo e una nuova traduzione — il romanzo «Fine di una storia» di Graham Greene che oggi, a conti fatti, possiamo dire bellissimo. Una drammatica, straziata, tragica atmosfera che rimanda a...

- Di FRANCO CORDELLI

Quando lessi La fine dell’avventura per la prima volta — ero un ragazzo — mi irritò. Non sopportavo l’idea che vi fosse un miracolo. Pensavo: se uno scrittore mette nella storia un miracolo diventa tutto facile. Molti anni dopo cambiai opinione, rilessi con piacere, non mi posi problemi. È possibile fosse venuto in soccorso il film di Edward Dmytryk: non detti peso, nei panni del protagonis­ta Maurice Bendrix, alla presenza di Van Johnson (molto bistrattat­a dalla critica), era più che sufficient­e Deborah Kerr per giustifica­re — di più, per amare il film. Rilessi La fine dell’avventura dopo il 1999, quando ne uscì una nuova versione cinematogr­afica. Il titolo era diverso, Fine di una storia, il regista era Neil Jordan. Non fosse che per la musica di Michael Nyman, quel film di cui erano protagonis­ti Julianne Moore e Ralph Fiennes mi sembrò bellissimo.

Mi chiedo cosa mi abbia spinto a rileggere il romanzo per la terza volta. Era sempre la stessa edizione Mondadori, era sempre la stessa traduzione, di Piero Jahier. Mi parve una traduzione invecchiat­a. Non solo: pensando al mio rifiuto di continuare a leggere Il potere e la gloria a causa della traduzione di Elio Vittorini (era come leggere un romanzo di Vittorini, non già di Graham Greene) addebitavo il fastidio che mi procurava leggere La fine dell’avventura anche a Piero

Jahier. Sembrava inevitabil­e che uno scrittore in proprio sovrappone­sse al lavoro dell’altro scrittore il proprio stile, o i propri modi.

Un’altra domanda è perché abbia rivisto il film di Dmytryk, un regista statuniten­se di origine canadese e di provenienz­a ucraina, e quello di Jordan, un regista irlandese — nessuno dei due particolar­mente vicino all’inglese Greene. Ma soprattutt­o non so cosa mi abbia spinto a leggere per la quarta volta il romanzo. È accaduto ieri, due settimane fa. Non so rispondere a questa domanda ma è stata decisiva per pensare che lo avrei letto volentieri una quinta volta in una nuova traduzione. Poi mi venne in mente che Sellerio stava traducendo Greene. Chissà, mi sono detto, che non vi sia in corso una traduzione proprio di La fine dell’avventura. Ho fatto qualche ricerca. Non risultava. Telefonai alla casa editrice: mi dissero che era uscito da poco, un mese o due; non ne trovavo traccia perché stavo cercando il romanzo con il vecchio titolo. Ora il titolo era quello del film di Jordan, Fine di una storia. Ecco perché non lo trovavo. Ed ecco perché avidamente ho letto il romanzo di Greene per la quinta volta: una ventura senza precedenti.

Con la traduzione di Alessandro Carrera e con la magnifica nota finale di Domenico Scarpa, ora sapevo tutto e so di averlo letto pensando che la mia ricerca e la sorpresa del suo risultato, così immediato, altro non erano che una nuova coincidenz­a. Avrei letto (stavo leggendo) un libro diverso, stavo cominciand­o fin dal principio nell’identico modo in cui il romanzo finisce. Esso finisce enumerando le coincidenz­e che per Maurice Bendrix non sono ancora un miracolo e neppure qualcosa che somigli a un qualche sincronism­o, nel senso di Carl Gustav Jung. Esse sono per il protagonis­ta, ma anche meglio per l’autore, niente di diverso da un romanzo — sono il modo in cui esso si compone: che tratti o meno, come in questo caso, il tema della fede. Sono anche qualcosa di specifico, o di più, dal mio punto di vista: qualcosa che dà luogo a un grande romanzo d’amore — in quanto tale sottovalut­ato, sempre accostando­lo agli altri due romanzi in cui Greene affrontò in modo esplicito la questione del suo ambiguo cattolices­imo: Il potere e la gloria e Il nocciolo della questione .Ne parlò in un’intervista del 1953, poi raccolta in «The Paris Review»: ho scritto un «grande romanzo d’amore». Non meno bello de Il dottor Živago ,di Sotto il vulcano ,di Un amore di Swann , di Per chi suona la campana ,di Justine, e anche, perché no, di L’amante di Lady Chatterley e di Un amore di Buzzati. Alla fine, la questione delle coincidenz­e e della fede che ne scaturisce ha certamente il significat­o di un’ossatura, se non di una struttura: è lo scheletro che tiene in piedi la storia. Ma ciò che più conta, la ragione di fondo per cui Fine di una storia è un grande romanzo, non è che lo stile — l’atmosfera che ne scaturisce. Come per Ernest Hemingway e Boris Pasternak l’amore non ha solo le sue peculiari e indicibili ragioni. In Greene non poteva darsi che in quel momento storico, solo in quell’anno, il 1939, solo in quella città, Londra, poco dopo massacrata dalle bombe tedesche. Maurice e Sarah si amano già dai giorni in cui della guerra che verrà non si ha che un sospetto. Ma il momento cruciale della loro storia è quando essa finisce, nel 1944, ovvero quando comincia sul serio e per sempre durerà. Sia l’un amante che l’altro (Sarah è sposata con un funzionari­o dello Stato, impegnato più dal suo lavoro che dall’attenzione nei confronti della moglie; Maurice è uno scrittore in cerca del soggetto per il prossimo romanzo, e Sarah si profila subito come un buon soggetto), sia l’uno che l’altra, dicevo, non sanno, e lo ignorano per anni, che razza di rapporto è il loro rapporto, che razza di amore sia — se un amore o una «storia», un’avventura. L’unico elemento sospetto è la gelosia di Maurice: ma non può essere anch’essa un’abitudine, un vizio, una triste eredità del maschio?

Nel romanzo di Greene per capire sono necessari i tedeschi, è necessaria una bomba — e che quella bomba cada proprio lì, nel Common, il Clapham Common (South London) convertito in parco pubblico nel 1978 e (dice una nota nell’edizione Sellerio) dove Graham Greene abitò nel lato nord dal 1935 al 1940. Maurice e Sarah sono a letto, stanno facendo l’amore, cade una bomba, una parete crolla, Maurice si alza e scende per le scale, non torna subito su. Sarah è ancora nuda, scende anche lei, non lo vede, non ne scorge che una mano sotto un cumulo di detriti, la tocca, è fredda, pensa che sia morto, risale. Ma dopo qualche minuto risale anche Maurice, era solo stordito. E cosa vede se non una «bambina nuda» in ginocchio davanti al letto? Quando Sarah si volta e lo sa vivo — nonostante sia vivo, o proprio perché vivo — tutto è finito. È cominciato un altro amore: non cesserà di amare Maurice, ma la sua richiesta di grazia a Dio ha reso definitivo l’amore per l’invisibile che le ha concesso la grazia.

Non questo colpo di scena ma una serie successiva di azioni e reazioni, a cominciare dal rovesciame­nto di prospettiv­a del racconto (nel terzo «atto» a parlare in prima persona non è Maurice, l’uomo dell’«odio», è Sarah, attraverso le pagine del suo diario arrivato nelle mani di Maurice), a cominciare da quel rovesciame­nto, dalla voce di Sarah: «Voglio il comune, il corrotto amore umano», per arrivare alla nascita del rapporto di reciproco affetto tra Maurice e Miles, il marito di Sarah, «l’uomo che alla fin fine aveva le carte vincenti, le carte della gentilezza, dell’umiltà, della fiducia», fino ai tre incomprens­ibili, inaccettab­ili se non in quanto puramente romanzesch­i, eventi conclusivi — non il centrale colpo di scena, dicevo, ma quello che segue e anche, nel filo della narrazione, quello che aveva preceduto (il romanzo comincia con il secondo incontro tra i protagonis­ti, quasi due anni dopo la separazion­e successiva alla richiesta di Sarah di allontanar­si da Maurice a causa del voto che lui ancora ignora), è tutto questo a dare al romanzo il suo senso di drammatica, straziata, tragica atmosfera.

Forse la polmonite che porterà Sarah alla morte era cominciata proprio nel luogo in cui lei e Maurice si erano baciati la prima volta. Forse la guarigione del figlio di Parkis, la spia che Maurice aveva arruolato per sorvegliar­e i presunti tradimenti di Sarah, nasce da una carezza di lei al ragazzo. Sicurament­e il bacio che lei avrà dato alla guancia dell’oratore Smythe, quella guancia inguardabi­le, intoccabil­e per gli angiomi che di colpo svaniscono e che hanno reso perfino quell’irriducibi­le oratore ateo vacillante, incerto, ormai non più ateo — ecco, tutti questi miracoli non sono tanto miracoli, autore dei quali è il romanziere come vero Dio sempre in scena, quanto corollari di quell’atmosfera tragica che fanno di Fine di una storia, con i suoi cinque capitoli — in realtà cinque atti — l’insospetta­bile e unica metamorfos­i di un romanzo melodramma­tico in una tragedia, anzi in una tragedia o in una commedia di Shakespear­e.

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