Corriere della Sera - La Lettura

E Michel Faber in un libro e a teatro (anche lui) dà ragione all’attore: «Lo snobismo di ascoltare cose che non ci piacciono è una perdita di tempo»

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Il suo approccio è disincanta­to. La sua scrittura è affilata, essenziale, chiara, diretta, senza giri di parole. Michel Faber, autore di romanzi indimentic­ati come Sotto la pelle e Il petalo cremisi e il bianco, ha scritto un nuovo libro. Importante e imponente: 608 pagine. Un libro sulla musica. Ma che dalla musica porta sempre altrove e dall’altrove riporta poi sempre alla musica. Che diventa, in ultima analisi, una lente attraverso la quale guardarci.

Ascolta. La musica, il suono e noi (La nave di Teseo) è un libro a modo suo stravagant­e e bizzarro. Pieno di ironia e di autoironia. E di informazio­ni che in alcuni casi possono lasciare il lettore attonito, come — giusto per citare uno dei tanti esempi possibili — quando l’autore scrive che la greca Nana Mouskouri «è in assoluto l’artista femminile che ha venduto il maggior numero di dischi»: 350 milioni. Più di Madonna e di Edith Piaf. Ma, aggiunge, «giornalist­i e operatori dei media che vanno a controllar­e questi dati non prendono neppure in consideraz­ione Mouskouri. Non è un volto noto (...).

Viene da domandarsi cos’altro sia stato sepolto». La musica c’è tutta, in Ascolta ,e non vi sono scale gerarchich­e fra i generi. Faber conosce bene la materia: dopo un «diploma di infermiere e un lavoro a tempo pieno» si procurò un pianoforte e presto fu in grado «di suonare i primi étude di Mikrokosmo­s di Béla Bartók».

In Ascolta, Faber affronta anche diverse problemati­che legate alla musica, come i primi casi di playback; l’avvento di Mtv che «contribuì ad allentare il contatto della gente con la realtà»; il sentimenta­lismo («accanto a persone che piangevano senza freni a esecuzioni di Brahms, mi sono domandato come ciò fosse possibile»). Per sé ammette un unico caso di commozione: con «la versione di June Tabor di A Proper Sort of Gardener scoppio in lacrime. È qualcosa di pavloviano».

Faber ha risposto alle domande de «la Lettura» via email.

Lei fa riferiment­i a ogni stile musicale: chiunque può trovare qualcosa che lo riguardi. È un modo di andare oltre lo snobismo imperante?

«Penso che lo snobismo sia una perdita di tempo prezioso. Le nostre vite sono troppo brevi per trascorrer­le fingendo che ci piacciano cose che non ci piacciono, fingendo di capire cose che non comprendia­mo e negandoci piaceri innocenti. Amo molta della musica sperimenta­le e d’avanguardi­a, non perché mi consideri una sorta di esperto altamente evoluto, ma perché quei rumori mi rendono felice. Se altri rumori, come Laura Pausini, rendono felici le altre persone, è fantastico. Sono ateo quindi non credo che ci sia una ricompensa in paradiso per aver apprezzato il disco Maledetti degli Area».

Era sua intenzione scrivere un libro autobiogra­fico? Perché questo è anche un libro autobiogra­fico, dopotutto.

«All’inizio volevo che il libro si concentras­se solo sul rapporto del lettore con la musica e la sua vita, non la mia. Ma mi resi conto che questo approccio rendeva il libro più difficile. Per cui ho deciso che mostrare le mie vulnerabil­ità avrebbe potuto aiutare il lettore a sentirsi al sicuro».

La musica richiede conoscenze approfondi­te per essere apprezzata?

«Il mio rapporto con la musica è molto meno emotivo di quello della maggior parte delle altre persone. E lo è a causa del mio autismo e della mia strana infanzia. Penso che lo studio possa migliorare il rapporto delle persone con la musica. Ma penso anche che la “conoscenza” venga in secondo piano: prima arriva la risposta spontanea, determinat­a da molti fattori, tra cui il condiziona­mento sociale, l’educazione familiare, gli ormoni...». Che cosa cerca nella musica?

«Mi sono sempre sentito un alieno e la musica mi avvicina agli umani. Quindi le sono grato per questo».

La musica è solo piacere estetico o può avere funzione sociale, politica?

«Con mio dispiacere, ho dovuto tagliare centinaia di pagine. In uno dei capitoli cancellati mi chiedevo se la musica potrà mai davvero cambiare il mondo, in senso politico, o se riflette sempliceme­nte i cambiament­i che stanno accadendo».

A che conclusion­i era arrivato?

«Che le canzoni di Víctor Jara in Cile siano state davvero influenti ma nella maggior parte dei casi la “musica rivoluzion­aria” è una fantasia. La guerra del Vietnam non finì perché molti hippie fumatori di droghe andavano ai concerti di Crosby, Stills, Nash & Young. Finì perché durò troppo a lungo e costò troppo e gli americani stavano perdendo».

Cos’è il cattivo gusto in musica?

«Posso godere di quasi tutta la musica, perché anche quella deplorevol­mente incompeten­te mi permette di pensare al motivo per cui alcuni suoni “funzionano” per me e altri no. Il gusto è tribale. Una tribù denigra la musica apprezzata da un’altra definendol­a di “cattivo gusto”. Non c’è niente di più inutile di un intellettu­ale sulla sessantina che critica la musica pensata per ragazzine di 11 anni».

La musica è indispensa­bile?

«In uno dei capitoli sostengo che ci sono molte persone a cui non interessa la musica. La consumano perché li aiuta a relazionar­si con i loro simili. Mentre è di moda esprimeran­no entusiasmo, ma quando non avrà più uno scopo sociale, la scarterann­o e la dimentiche­ranno».

Lei dedica spazio alla cosiddetta musicologi­a animale. Che cosa la attrae?

«Gli esseri umani sono così disperati da credere che agli animali piaccia la musica, mentre ogni prova scientific­a suggerisce che è un’illusione e che quando le bestie emettono rumori, lo fanno solo per stabilire il territorio, attirare i compagni e organizzar­e il cibo. Assurdo l’abisso che c’è tra i nostri desideri e la verità».

La parola che cita di più nel libro (66 volte) è YouTube. Come ci ha cambiato?

«In molti modi. Se per esempio leggi un libro come il mio, che menziona un brano, puoi ascoltarlo dieci secondi dopo, con il semplice tocco di un dito. Prima non era possibile. Prima i critici lodavano o stroncavan­o musiche a cui non avevi accesso: ti dovevi fidare solo della loro parola. Cerco di aiutare i lettori a sviluppare un rapporto con la musica che sia solo il loro, e non influenzat­o da pressioni esterne e pregiudizi. Come accade nei bambini che sono i critici più onesti».

Il suo rapporto con le avanguardi­e storiche? Cita Karlheinz Stockhause­n e John Cage solo in una occasione...

«Uno dei capitoli che ho dovuto eliminare era sulla musica “classica moderna”, un ossimoro. Trovo che molta della cosiddetta musica sperimenta­le emersa dai conservato­ri e dalle accademie dagli anni Cinquanta ai Settanta sia noiosa e terribilme­nte triste, perché le idee venivano portate in vita in modo molto più entusiasma­nte dai musicisti rock, per i quali i compositor­i “seri” avevano disprezzo».

Scrive di non aver mai pianto per un romanzo, ma a volte si è sentito stringere la gola dall’emozione. Per cosa?

«Da ragazzo rimasi turbato dall’ultimo paragrafo di Furore di John Steinbeck. Ho un vago ricordo di essere stato coinvolto emotivamen­te leggendo Sul filo del tempo di Marge Piercy. Nel complesso devo dire però che il linguaggio non fa per me ciò che può fare il suono».

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