Corriere della Sera - La Lettura
Capaci, Puglisi Il mio urlo contro la mafia
Ha raccolto testimonianze; condotto ricerche; studiato incartamenti e processi. Così, dopo avere raccontato l’epica partita della Nazionale al mondiale di calcio del 1982 (Italia-Brasile 3 a 2, Premio speciale Ubu 2003); la Palermo rasa al suolo dalle bombe degli Alleati prima dello sbarco (Maggio ’43, 2004); e, più di recente, la tragedia dei migranti nel Mediterraneo (L’abisso, 2018, Premio Ubu 2019 - Miglior nuovo testo italiano), a cinquant’anni (compiuti il 2 aprile), Davide Enia, tra i più apprezzati rappresentanti del teatro di narrazione, sceglie per la prima volta «di parlare di mafia».
La nuova creazione, Autoritratto, sarà al Festival dei Due Mondi di Spoleto (Auditorium della Stella, 29 giugno - 7 luglio), con il patrocinio della Fondazione Falcone. «Serviva dopo L’abisso — esordisce l’attore, autore e regista siciliano — un lavoro che fosse in grado di calibrare il rapporto col presente, e mi permettesse di utilizzare nuovamente il teatro come strumento performativo e rituale. Ho scelto di affrontare il linguaggio che mi ha “strutturato” come essere umano, il linguaggio in cui ’a megghiu parola è chidda ca ’un si dice, la migliore parola è quella non detta, quella che si configura come prima soglia dell’omertà».
«Benché per ragioni anche legate al mio lavoro io abbia una memoria potente — chiarisce Enia — della bomba che il 23 maggio 1992 uccise Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta non ricordo nulla. L’impatto emotivo di quella notizia mi ha causato una rimozione sfrontata. Per mesi ho inseguito il ricordo, finché non ho pensato di ridurla in arma teatrale». Affrontare per davvero Cosa nostra, prosegue l’arti
sta, «significa iniziare un processo di autoanalisi. A Palermo abbiamo tutti pochi gradi di separazione da Cosa nostra. Il mio primo morto ammazzato l’ho visto a otto anni, di ritorno da scuola; don Pino Puglisi, il prete ucciso dalla mafia, era mio professore di religione al liceo; Borsellino abitava di fronte a casa nostra».
Per il regista, l’organizzazione criminale «è uno specchio che riflette tragicamente le dinamiche di familismo e patriarcato amorale delle nostre famiglie. So che quello che sto per dire è terribile, ma le bombe del ’92, tra le quali affronto l’esame di maturità, sono state una liberazione. Perché tutta l’inquietudine, l’angoscia che provavamo, trovava una risposta: non si poteva più fingere che Cosa nostra non ci riguardasse».
A spezzare la dittatura del silenzio saranno le parole di un esponente dei corleonesi divenuto collaboratore di giustizia, Giovanni Brusca. In un’aula di tribunale racconterà l’omicidio di Giuseppe Di Matteo, 13 anni, ucciso l’11 gennaio 1996 per punire il padre Santino, primo «pentito» di mafia. Quel bambino morto ammazzato, rivelerà in seguito Giuseppe Monticciolo, carceriere con Brusca e Vincenzo Chiodo, «sconfisse la mafia». «Nominare le cose, dirle, svelarle — riflette Enia — è l’unica possibilità di scardinare l’organizzione criminale che Buscetta definì il regno dei discorsi incompiuti. Per distruggere i gangli del pensiero mafioso bisogna par-la-re. La vera rivoluzione deve essere prima di tutto culturale. Come disse lo scrittore siciliano Gesualdo Bufalino, la mafia sarà vinta da un esercito di maestri elementari».
Gli strumenti linguistici per affrontare questo nuovo lavoro, spiega l’attore, «sono quelli propri della mia terra: il cunto; l’abbaniata, il canto dei vecchi venditori, che contestualizza già una geografia precisa del mondo; l’utilizzo del corpo in uno spazio vuoto, che permette la ricostruzione dell’immaginario. Com’ero a 16, 17, 18 anni, quando il corpo mi si svegliava e attorno a me come mosche venivano ammazzate le persone? Questo è il punto in cui l’autoritratto diventa sia quello dell’artista in scena — il punto in cui il racconto di fatti personali, intimi diventa racconto politico — sia quello di una generazione, di un bacino linguistico; e, in maniera più sottile, quello di ogni spettatore che si confronta col lavoro, utilizzandolo come specchio». Ad accompagnare Enia sul palco saranno le musiche di Giulio Barocchieri. Con una piccola rivoluzione: «Volevo i suoni elettronici degli anni Novanta, un sound con graffi e sporcature, come già la chitarra elettrica ne L’abisso».
Un monologo in cui troveranno spazio le storie di padre Puglisi («un uomo capace con la sua mitezza di frantumare la dottrina feroce dei corleonesi. In una intercettazione Riina lo dice chiaramente: “Chi minchia è questo prete che vuole comandare nel mio quartiere?”. La sua eccezionalità era nella sua mitezza, una virtù dei forti») e del piccolo Giuseppe Di Matteo, il cui omicidio «segna uno spartiacque nella coscienza collettiva. È l’apparizione del male, l’inimmaginabile che accade. Diceva Levi: disprezzare l’altro, non riconoscerlo, metterlo in una condizione di inferiorità, porta fatalmente al lager. Nel caso di Di Matteo c’è una camera della morte in cui un bambino che, dopo 779 giorni di prigionia in condizioni spaventose, viene strangolato e sciolto nell’acido. Un’azione così abietta da rendere impossibile ogni aggettivazione».
Per le sue ricerche l’autore si è avvalso dell’aiuto di tre ex dirigenti della Dia, la Direzione investigativa antimafia: «Nello spettacolo li chiamo Generale, Capitano e Commissario, il grado con cui sono stati pensionati. Uomini straordinari, che hanno sacrificato la vita alla lotta alla mafia. Mi hanno raccontato l’impostazione delle indagini, la lettura della realtà; hanno cercato di “tradurmi” come pensano i mafiosi. È importante continuare a cercare nuove angolazioni per raccontare ciò che è successo. Non solo per pacificarci, ma per poterci dotare di prospettive attraverso cui cambiare le cose. E lasciare alle generazioni future strumenti migliori di quelli che abbiamo ereditato».