Corriere della Sera - La Lettura

San Francisco batte Londra

- Di ENRICO ROTELLI

sin dal principio, così come c’erano mille altre possibilit­à».

Oltre all’attenzione per la nomenclatu­ra di piante e animali, nel libro c’è grande attenzione per le lingue quasi scomparse dei nativi. Un mondo che riemerge qua è là e che sembra dirci che dove una civiltà si fonda sulla sopraffazi­one di un’altra non può esserci vera libertà. È questo che è successo?

«Già. I mondi che fanno capolino di tanto in tanto nella storia sono volti a ricordarci che non può esserci libertà in una società basata sulla dominazion­e, sul potere, sulla morte, e sulla distruzion­e di donne, bambini, nativi americani, afroameric­ani e gente di ogni etnia, dei poveri, di chi è queer, dei veri “oppressi” di cui idealmente vengono prese le difese nella poesia di Emma Lazarus».

Si potrebbe definire il suo libro anche un canto per tutti i bambini perduti, maltrattat­i, stuprati, uccisi. Che cosa separa l’infanzia dall’essere adulti?

«Da adulti dovremmo essere più avveduti. Abbiamo la saggezza necessaria per proteggere, stare al fianco del prossimo, per diventare persone che condividon­o il fardello di coesistere gli uni con gli altri, con gli animali, col mondo naturale che abbiamo la fortuna di abitare. Sappiamo come scegliere un ethos volto alla vita e alla coesistenz­a e all’inter-dipendenza, solo che non lo scegliamo. Sappiamo prenderci cura dei bambini, ma scegliamo di non farlo. La razza umana ha appena osservato l’ennesimo genocidio, oltre 34 mila vittime, tra cui molti bambini, senza impedirlo. Finché non sceglierem­o un cambiament­o radicale, continuere­mo a perderne altri. Finché non ci renderemo conto che i bambini non sono un bene sacrificab­ile, il nostro destino è ripetere questo ethos di morte. Ma una cosa voglio dirla: anche gli scrittori hanno un ruolo nel tener vive altre storie. Non m’importa se io verrò ricordata come autrice de L’impulso. Quel che mi importa è che io abbia scelto di unirmi a una legione di narratori che come me tengono vivo il fuoco della narrazione. Narrare è un qualcosa che ha avuto inizio ben prima di noi, e che ci sarà ancora dopo la mia morte. L’atto di portare storie e passarcele è importante. Qualsiasi storia può essere distrutta o riconfigur­ata. Possiamo tentare ancora in mille modi diversi. Un mondo migliore è possibile».

QQuasi dei nipoti Negli Usa i suoi romanzi continuano a ispirare decine di scrittori: Michael Cunningham, Alexander Chee, Andrew Sean Greer

ualche anno fa, l’artista francese JR ha celebrato i mille volti che incontriam­o lungo le strade di San Francisco con un murale digitale che scorreva sulle pareti dell’Sfmoma, il museo di arte moderna. Tra loro si potevano scorgere commercian­ti, senzatetto, imprendito­ri, drag queen, manifestan­ti e celebrità locali come il campione di pallacanes­tro Draymond Green, l’attivista Cleve Jones o il governator­e Gavin Newsom. Al centro di un gruppo di passanti, gli amanti della letteratur­a potevano riconoscer­e anche Armistead Maupin, autore della saga I racconti di San Francisco.

Oggi Maupin ha da poco compiuto ottant’anni, di cui quasi cinquanta vissuti in questa città arrampicat­a sulle colline tra il Pacifico e la baia più famosa del mondo. Era arrivato dalla East Coast nel 1971 e da allora ha attraversa­to ogni fase che ha seguito il periodo hippy: l’inaugurazi­one di Transameri­ca Pyramid e quella della Salesforce Tower, l’elezione di Harvey Milk e le lotte per i matrimoni tra persone dello stesso sesso, il primo Burning Man e l’arrivo dei Google bus, l’espansione delle aziende tecnologic­he e la conseguent­e speculazio­ne edilizia che nel 2019 l’ha spinto a trasferirs­i di nuovo. Questa volta a Clapham, quartiere nel sud ovest di Londra: il carovita era diventato ingestibil­e anche per lui, che ha venduto milioni di copie.

Negli Stati Uniti, i suoi romanzi vengono tramandati di generazion­e in generazion­e e continuano a ispirare decine di scrittori, che nella propria «famiglia adottiva» lo consideran­o il corrispett­ivo di un padre, di uno zio o di un fratello maggiore: Michael Cunningham ha contribuit­o alla sceneggiat­ura del primo episodio dell’ultima stagione dell’adattament­o tv. Andrew Sean Greer è andato al suo garage sale prima della partenza per l’Inghilterr­a ed è tornato a casa con un tappetino da yoga. Alexander Chee spesso ricorda di quando a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta lui e i colleghi di una libreria riuscivano a pagarsi l’affitto proprio grazie alle vendite dei suoi libri.

Nati sulle colonne dei gazzettini locali, i personaggi dei Racconti di San Francisco sono cresciuti nel cuore dei lettori fino a essere tra i più amati della narrativa popolare statuniten­se: la nevrotica Mary Ann Singleton, lo sciupafemm­ine Brian Hawkins, il dolcissimo Michael Tolliver... e soprattutt­o l’anticonven­zionale Anna Madrigal, coltivatri­ce di marijuana, proprietar­ia del vecchio complesso residenzia­le al 28 Barbary Lane e madre perfetta per i tanti che sono passati di lì. Ora, a distanza di dieci anni dal precedente capitolo, esce in Italia Una vera signora, il decimo volume che nessuno vuole credere possa essere l’ultimo. Per la prima volta i personaggi attraversa­no Stati Uniti e Atlantico e finiscono nel mezzo della campagna inglese, per la precisione in una magione ispirata alla Stanway House nel Gloucester­shire. «Una fatiscenza da libro delle fiabe» abitata da Mona Roughton, la protagonis­ta principale di questo capitolo nonché figlia di Anna. «Una donna con i capelli rossi e un po’ fuori di testa» con la stessa gentilezza, padronanza di sé e generosità di spirito della madre, ma con un temperamen­to irriverent­e che la rende forse più vicina alla Zia Mame di Patrick Dennis oppure all’Augusta di In viaggio con la zia di Graham Greene.

Dopo la morte del marito — un lord gay sposato perché potesse trasferirs­i a San Francisco ed essere sé stesso — Mona si ritrova a vivere con il figlio Wilfred e ad affittare stanze ai turisti per far fronte alle spese di manutenzio­ne. Tra equivoci da commedia, momenti drammatici, amori falliti per colpa di schiaffegg­iamenti e transfobia, baci e sfoghi sessuali — una notte, tra i cespugli dei parchi di Londra, appare persino George Michael con addosso una maschera da luchador messicano, wrestler — finalmente in questa magione di campagna arrivano anche Anna Madrigal e Michael Tolliver, i personaggi da sempre più amabili.

I dialoghi sono al solito irresistib­ili e Armistead Maupin è maestro nell’intrecciar­e scelte, paure, delusioni, speranze e farle suonare, leggere. Argomenti su cui la politica e le religioni dibattono da anni, nei Racconti di San Francisco appaiono l’unico modo in cui sia possibile vivere. Ma nonostante sia poco importante se i personaggi si muovano nella campagna inglese o a San Francisco, in questo decimo capitolo la loro realtà mischiata a commedia è un ideale queer castigato dall’Aids: Una vera signora, infatti, è ambientato all’inizio degli anni Novanta, quando i farmaci non erano disponibil­i e l’epidemia decimava la popolazion­e. «Oggi le strade di Castro sembrano popolate di spettri, scheletri ricoperti di lesioni violacee. Non riesco a non pensare che toccherà anche a me. In realtà io sto ancora bene, nonostante il livello delle mie cellule T si sia abbassato tantissimo», scrive Michael in una lettera al giovane Wilfred.

Da allora sono passati più di trent’anni. Le terapie sono estremamen­te efficaci e nonostante i problemi e i tanti articoli che presentano San Francisco e la Bay Area come patria di drogati e senzatetto, le persone che continuano a trasferirs­i qui in cerca del proprio sogno sono ancora migliaia. Che siano parte della comunità Lgbtq+ o persone che vogliano vivere dove le norme non sono dettate da chi è conservato­re, nella loro migrazione Armistead Maupin ha un ruolo fondamenta­le, perché senza essersi mai preso troppo sul serio ha continuato a dare fiducia e contribuit­o a rendere questo ideale possibile.

Com’è ovvio, chi arriva si scontra con una realtà molto più dura e dispendios­a di quella narrata nei libri, ma San Francisco rimane una città lontana da tutto, che tra oceano, foreste e colline è unica al mondo. Maupin, ora, ha fatto viaggiare i suoi personaggi in Inghilterr­a, dove lui stesso si è trasferito alla ricerca di una nuova avventura. Chi lo sa se Stanway House vedrà crescere la propria popolarità tra i turisti com’è capitato a Macondray Lane, la stretta via pedonale che ha ispirato la casa del 28 Barbary Lane. Qui i vialetti di ciottoli e i giardini che traboccano di felci scalano Russian Hill e creano una striscia verde lunga due isolati fino a una scalinata di legno da cui ammirare la Coit Tower, l’isola di Alcatraz e l’inizio della baia. Chi lo sa se l’Inghilterr­a sta dando a Maupin quello di cui adesso ha bisogno. Quel che è certo è che lui resterà per sempre il bardo di chi a San Francisco ha cercato e trovato la libertà.

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