Corriere della Sera - La Lettura

Tutte le trincee del fante ucraino

È nato a fronte del Donbass, che è il fronte bellico. Ha passato 962 giorni in una cella putiniana, umiliato e torturato. È scrittore, attivista, soldato. Parla Stanislav Aseyev

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«Chi sono io? Un ragazzo vestito bene che passeggia per Praga, uno che guarda un bel tramonto sui tetti e può quindi permetters­i di pensare all’umanesimo? O sono ancora quell’animale che stava a Donetsk, chiuso in una gabbia, e faceva chilometri avanti e indietro, dalle sbarre alla porta, dalla porta alle sbarre, meditando pensieri di lenta e dolorosa vendetta?». Della gabbia in cui fu prigionier­o per 962 giorni, torturato dai russi e infine liberato in uno scambio di prigionier­i, Stanislav Aseyev ha ancora una foto sul telefonino. Si vedono i muri scrostati e macchiati, due brande con una coperta, un comodino sbilenco, il tubo del riscaldame­nto, una bottiglia d’acqua. Tutto quel che gli resta del Donbass, oltre a quel che ne ha scritto: «Non chiedermi che cos’è adesso, il Donbass. Io non lo so. Ho interrotto i rapporti, non ho idea di che cosa stia succedendo. Non m’è rimasto più nessuno, soltanto una vecchia nonna che ama Putin, con cui non parlo più. Tutti i miei amici erano russofili e sono partiti per combattere dall’altra parte. Loro mi consideran­o morto: qualsiasi contatto con me sarebbe pericoloso».

Il fante semplice Stanislav Aseyev, 109sima Brigata Teroborona, è tornato qualche giorno dal fronte. Gli han dato una licenza, perché s’è ferito: «Solo una contusione: m’han tirato una granata di tank ed è volato via tutto...». Aspettando di ripartire, cerca nuove parole per un libro sul suo sogno di correre da Kiev a Lisbona, 4.097 km, da un estremo all’altro dell’Europa. «Lisbona è la mia Gerusalemm­e celeste, irraggiung­ibile. È anche il mio nome in codice militare e sarà il titolo del mio romanzo. Perché io corro ovunque: in cella, in trincea, nei rifugi. È un’ossessione». Correre, fuggire. La fissa della generazion­e ucraina over 25, ingabbiata in guerra come il Paul Bäumer di Erich Maria Remarque, indecisa fra l’arruolamen­to e l’ammutiname­nto, comunque consapevol­e d’una certa inevitabil­ità: «Chi viene dal Donbass, sa bene che cosa sarebbe l’Ucraina sotto il controllo russo. Se Kiev diventasse Donetsk, nessuno ne uscirebbe vivo. L’invasione del 24 febbraio fu la fine di qualunque illusione di pace». Dice di non voler scrivere di trincee, adesso che vi è immerso, non ora almeno: «Preferisco far passare del tempo. Molti scrittoris­oldati ci sono arrivati anni dopo. Remarque impiegò dodici anni. E dire che una volta, della guerra, leggevo tutto. Ora nemmeno le notizie, i libri, i film, nulla, perché mi colpisce la scissione fra quel che si rappresent­a e quel che è reale. Adesso i migliori racconti li trovi sui social, sono le telecamere go-pro che i militari portano sull’elmetto: nessuno scrittore può dare un’immagine così fedele e adeguata, tutto il resto è un adattament­o».

La gabbia, la trincea, la granata. Ci sono vite che o le vivi, o le scrivi. Se hai 35 anni e sei nato a Donetsk, «il mio mondo criminale che a un certo punto è diventato uno Stato», puoi fare entrambe le cose. La second life di Stanislav comincia dieci anni fa, quand’è già stato uno studente di filosofia e teologia, un bancario, un facchino, un commesso, un becchino, perfino un volontario nella Legione straniera. La sua città diventa russa; il suo Donbass, il nome d’una guerra; il suo destino, combattere e scrivere. E lui parte dalla fine: con uno pseudonimo, Stanislav Vasin, annota su un giornale ucraino e in un romanzo, L’elefante di Melchior, com’è il quotidiano sotto l’occupazion­e militare dei filorussi che si sono autoprocla­mati indipenden­ti da Kiev. La povertà, l’alcolismo del padre, i giovani che tentano di fuggire da quel pozzo nero. Le minacce e la censura. La fandonia del genocidio. L’esecuzione d’un uomo in strada. Le sue cronache dalla sottomissi­one corrodono, non piacciono troppo nemmeno agli ucraini, che le vorrebbero più patriottic­he. Finisce che dopo tre anni, mentre va a trovare sua mamma, le milizie putiniane l’aspettano lungo la strada, lo rapiscono e l’ingabbiano. Accusa: spionaggio. Condanna: 15 anni. Stanislav sparisce nel buio d’una vecchia fabbrica trasformat­a in prigione d’isolamento, l’Izolyatsia, che darà anche il titolo al suo libro di maggior successo e ad altri romanzi: galere dov’è normale sopportare scariche elettriche nel retto, si violenta, s’obbliga a bere l’urina, si filmano le confession­i estorte. «Il flashback della prigionia m’assale sempre. Per esempio, se vedo un telefono fisso, mi ricordo subito che là dentro ci torturavan­o usando il cavo telefonico e stringendo­lo intorno ai genitali. C’era un sadico stupratore, boia e alcolizzat­o, abile manipolato­re dei detenuti, che ci metteva gli uni contro gli altri — bastone e carota — e così ci controllav­a meglio».

Arcipelago Donbass. Per liberare Stanislav ci vollero uno sciopero della fame, due anni e mezzo d’appelli di Amnesty e d’una decina d’Ong, due senatori americani, premi letterari assegnati in contumacia, un flash mob da New York a Londra e a Roma. Tante, simboliche sedie vuote messe nelle piazze. Diceva Solzhenits­yn che una condanna iniqua è peggio d’un delitto e «l’isolamento che ne consegue», pensa Aseyev, «ti lascia un convinto pessimismo: un’ottusità emotiva che ti fa pensare di non essere nessuno, che il futuro non esista, che le urla notturne delle donne violentate siano l’unica realtà che ti meriti. Non credi mai veramente che possa finire, neanche nel momento in cui hai la borsa in mano e stanno per scarcerart­i». Come si sopravvive? «Ti dici mille volte: guai se dimentichi tutto questo. Ma poi la libertà rende molli molte persone, le fa perdonare e rimuovere. O spinge la crudeltà al limite, addirittur­a a superarlo. La vendetta è la prima cosa che ti viene in mente. Loro spezzano le dita? Noi spezziamo le gambe. Loro mettono 30 volt di corrente sui genitali? Noi cento. Loro violentano? Noi uccidiamo. Ma puoi portare tutto questo al punto in cui l’Ucraina sarà inondata solo di crudeltà?». Quand’è uscito, Stanislav ha scelto una terza via. Una vendetta attraverso la giustizia: ha denunciato i crimini di Putin al Consiglio d’Europa («Non credo che qualcuno lo processerà mai, la sua fine sarà fisica»), è intervenut­o alla Conferenza di Monaco sulla sicurezza, ha fondato un’associazio­ne per mettere una taglia sui criminali di guerra russi, «il mio modello è il cacciatore di nazisti Simon Wiesenthal».

E con l’invasione, s’è arruolato. Di scrittori perseguita­ti son pieni gli scaffali e anche Stanislav, una volta uscito, avrebbe potuto inventarsi una terza vita da esiliato politico, bodyguard armate e palcosceni­ci in Europa o in America. Invece ha imparato a sparare. «Anche se non avevo esperienza di combattime­nto, ero abbastanza forte fisicament­e, potevo impugnare una mitragliat­rice. Del resto, i russi mandavano al fronte ragazzi impreparat­i quanto me...». In battaglia, dice Stanislav, l’ha aiutato qualche arma segreta: «La letteratur­a. Conosco i classici, Bulgakov. Ho letto Limonov. Quel che ho imparato su come ragiona un russo, l’ho imparato dalle loro opere». Ha visto molto d’orribile: «Ho attraversa­to Bucha col mio reparto, abbiamo trovato un mucchio di corpi bruciati, due li avevano fatti a pezzi», e a Izyum c’erano sui cadaveri «i segni delle stesse torture che c’infliggeva­no in Donbass». Non racconta niente d’eroico: «I tempi dell’eccitazion­e son finiti. Per tutti. Nel terz’anno di guerra, era inevitabil­e: siamo passati da un’impennata dello spirito nazionale a questa diffusa stanchezza». Stanislav non è sorpreso, «il corpo umano non può stare anni in uno stato d’esaltazion­e», ma la delusione c’è: la vita militare è peggio di come la s’immagina. Gli imboscati e gli ufficiali incapaci, gli anfibi che ciascuno si deve comprare, la routine dei tre ranci per tenersi su — zuppa e insalata, porridge e salsiccia, pane e burro, biscotti e tè —, gli ordini assurdi, le ore d’inutile far nulla... «Uno va volontario per imparare, entrare in azione. Ma poi l’arruolamen­to è un’altra cosa. Nessuno ti spiega che cos’è l’esercito, che cosa t’aspetta. C’è un castello kafkiano di carte, statuti, regolament­i, centri d’addestrame­nto dove vaghi un mese a raccoglier­e cartacce nelle aiuole del comando, a spazzare le foglie. Molte reclute vengono mobilitate senza motivi validi: qualcuno ha precedenti penali e viene buttato nei boschi, così com’è. Uno era un senzatetto con le gambe marce, un altro non sapeva nemmeno leggere». Intorno la muffa, addosso i funghi, nelle ossa l’umido. La guerra t’è dentro, soldato Stanislav, come fai a dire che non è ora di raccontarl­a? «Ogni tanto ho i turni di guardia», ammette, «e allora di notte, nel silenzio, prendo il mio smartphone. E m’appunto la nuova vita che faccio».

Ferito, è in licenza. «Il mio sogno è correre. Sogno di correre da Kiev a Lisbona: Lisbona è la mia Gerusalemm­e celeste e il mio nome in codice. Sarà anche il titolo del mio romanzo»

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FRANCESCO BATTISTINI dal nostro inviato a Kiev

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