Corriere della Sera - La Lettura
La mente che viaggiava nel tempo
Il matematico John von Neumann partecipò al programma atomico americano e anticipò temi che sarebbero diventati cruciali. Come l’automazione e il cambiamento climatico
«Sono arrivato a credere che per la maggior parte di noi pensare sia una cosa penosa. Per alcuni è un’assuefazione; per altri una necessità. A Johnny piaceva pensare. Ho persino il sospetto che non gli piacesse praticamente nient’altro». Così Edward Teller, il «padre» della bomba all’idrogeno, ricordando John von Neumann in un documentario della Mathematical Association of America.
L’uomo venuto dal futuro (Adelphi) è un titolo particolarmente appropriato per l’esplorazione di una delle menti più straordinarie del Novecento, e il suo autore, Ananyo Bhattacharya, un giornalista scientifico con un dottorato in fisica, si dimostra un’ottima guida. Più che una biografia, è un’esplorazione delle idee e delle ricerche tecnologiche ispirate dal lavoro di un genio. I risultati da lui ottenuti «ci appaiono ogni anno che passa, in modo sconcertante, anticipazioni del futuro», scrive Bhattacharya, «tanto che saremmo tentati di pensare che facesse davvero viaggi nel tempo, seminando silenziosamente idee che sapeva ci sarebbero servite per plasmare il futuro del pianeta». Non un viaggiatore nel tempo, ma un alieno, von Neumann veniva d’altra parte già considerato in vita, quando insieme a Teller era additato come uno dei cosiddetti «marziani», il soprannome degli emigrati ebrei ungheresi che lavorarono al progetto segreto della bomba atomica a Los Alamos.
Nato nel 1903 a Budapest, in una famiglia ebrea colta e benestante (suo padre era un banchiere con un dottorato in Giurisprudenza), János Lajos Neumann — questo il suo nome, prima che alla famiglia fosse concesso il titolo nobiliare e lui si trasferisse negli Stati Uniti — mostra fin da piccolo un’intelligenza e una memoria eccezionali. Non ancora ventenne pubblica, con il proprio maestro, Mihály Fekete, un articolo sugli zeri dei «polinomi di Chebyshev» (1922). Se però Fekete, ispirato dall’allievo prodigio, avrebbe dedicato buona parte della propria carriera a questo argomento, von Neumann non vi tornerà più. Allora come in seguito, sembra compensare la sovrabbondanza di idee con la tendenza a perdere rapidamente interesse nei loro confronti: di ogni nuova scoperta coglie alcuni grandi risultati e lascia il resto ad altri, più pazienti e più perseveranti di lui. Preferisce volgere la propria attenzione al tema centrale nel dibattito di quegli anni, la «crisi dei fondamenti» della matematica — il fallimento, cioè, del tentativo di dare una rigorosa giustificazione formale all’insieme di definizioni e di deduzioni su cui si basa l’aritmetica (e, conseguentemente, la matematica nel suo complesso).
Nel 1926 si stabilisce a Gottinga, dove diventa assistente di David Hilbert, il più influente matematico del tempo. Per un breve periodo si dedica alle algebre di operatori sugli «spazi di Hilbert» (termine da lui coniato) e alle loro proprietà, fornendone una pionieristica classificazione. Il suo «teorema del minimax» (1928), che stabilisce che ogni gioco finito a somma costante possiede almeno un punto di equilibrio in strategie pure o miste, costituisce la prima formulazione matematica della cooperazione e della competizione individuale (anni dopo, mentre era al lavoro su un argomento diverso, l’economista austriaco Oskar Morgenstern riuscirà a riportarlo su questi temi: insieme, nel 1944, pubblicheranno Teoria dei giochi e del comportamento economico, unanimemente considerato il testo fondatore della teoria dei giochi). Di lì a poco è attratto da un’altra sfida: incuriosito dai nuovi lavori sulla meccanica quantistica, von Neumann dimostra che le due teorie principali e apparentemente opposte che dominano il campo — la meccanica ondulatoria di Erwin Schrödinger e la meccanica delle matrici di Werner Heisenberg — sono fondamentalmente due facce della stessa medaglia. Il suo libro del 1932 Fondamenti matematici della meccanica quantistica diventa presto un classico.
Nel 1930 è visiting professor a Princeton, e quando tre anni più tardi apre l’Institute for Advanced Studies, von Neumann ne diventa uno dei suoi primi professori, insieme ad Albert Einstein, Hermann Weyl, Marston Morse e Oswald Veblen. Sono anni bui per l’Europa, e von Neumann intuisce che la dinamica tra le forze in campo avrebbe portato a una guerra. Quando questa puntualmente arriva, mette il proprio talento al servizio del Paese d’adozione e svolge un ruolo chiave all’interno del progetto Manhattan: è lui a suggerire come lanciare la bomba atomica per creare il maggior numero di danni e di morti, è lui a intervenire nella costruzione della bomba al plutonio realizzando un dispositivo «a lente esplosiva», ed è ancora lui a incentivare la costruzione di ordigni nucleari sempre più potenti. Si spinge anche a proporre alle autorità militari di bombardare preventivamente l’Unione Sovietica per scongiurare il «pericolo rosso».
In un promemoria del 1945, attinge al lavoro teorico del logico austriaco Kurt Gödel e del matematico britannico Alan Turing per produrre il modello canonico del computer a programma memorizzato. Tre anni più tardi, durante un simposio al Caltech, si chiede se fosse possibile progettare un automa in grado di creare copie di sé stesso, o varianti almeno altrettanto complesse. In un manoscritto incompiuto, uscito postumo nel 1966, dimostra la possibilità logica dell’auto-replicazione: il suo progetto per assemblare una creatura virtuale auto-replicante all’interno di un automa cellulare sarà sviluppato più tardi dai matematici John H. Conway e Stephen Wolfram.
Nel 1955, già sofferente per il tumore alle ossa che lo avrebbe ucciso meno di due anni dopo, presenta, sulle pagine di «Fortune», le proprie riflessioni sulla minaccia esistenziale cui sarebbe stata esposta l’umanità nei decenni successivi. L’articolo — Possiamo sopravvivere alla tecnologia? — inizia con un avvertimento: «In senso letterale come in senso figurato, ci mancherà lo spazio». I progressi in campi come gli armamenti e le telecomunicazioni, sostiene, hanno ridotto i tempi di un’escalation dei conflitti e ne hanno ingigantito la portata. Una disputa regionale può in breve estendersi e inghiottire il pianeta (pensiamo alle ripercussioni della guerra in Ucraina, o del conflitto israelo-palestinese).
Molto prima che il cambiamento climatico diventasse argomento di dibattito e fonte di preoccupazioni, von Neumann si dimostra attento ai pericoli di un riscaldamento globale prodotto dalle emissioni di anidride carbonica. Prevede che i reattori nucleari sarebbero diventati più efficienti e coltiva la speranza che un giorno l’umanità riesca a sfruttare anche la fusione. L’automazione avrebbe seguito il suo corso, accelerata dai progressi nell’elettronica a semiconduttori, che avrebbero portato a macchine da calcolo sempre più veloci. Ma tutto il progresso tecnologico, avverte, sarà inevitabilmente sfruttato anche a scopi militari. Tecniche sofisticate di controllo del clima, per esempio, potrebbero «prestarsi a forme di guerra climatica oggi inimmaginabili». E la prevenzione delle catastrofi richiederà il ricorso a «nuove forme di politica e nuove procedure» (l’Intergovernmental Panel on Climate Change, istituito nel 1988, va in questa direzione).
Quello che non possiamo fare, conclude, è arrestare la marcia delle idee. In un paragrafo dal titolo inquietante, Sopravvivere — una possibilità, scrive: «Non c’è cura per il progresso. L’unica sicurezza possibile è relativa, e sta nell’esercizio intelligente, giorno per giorno, del nostro discernimento». Non esiste una «ricetta pronta per l’uso» — una panacea — per evitare l’estinzione per mano della tecnologia. «Possiamo solo specificare le qualità umane richieste: pazienza, flessibilità, intelligenza».