Corriere della Sera - La Lettura

La mente che viaggiava nel tempo

Il matematico John von Neumann partecipò al programma atomico americano e anticipò temi che sarebbero diventati cruciali. Come l’automazion­e e il cambiament­o climatico

- Di STEFANO GATTEI

«Sono arrivato a credere che per la maggior parte di noi pensare sia una cosa penosa. Per alcuni è un’assuefazio­ne; per altri una necessità. A Johnny piaceva pensare. Ho persino il sospetto che non gli piacesse praticamen­te nient’altro». Così Edward Teller, il «padre» della bomba all’idrogeno, ricordando John von Neumann in un documentar­io della Mathematic­al Associatio­n of America.

L’uomo venuto dal futuro (Adelphi) è un titolo particolar­mente appropriat­o per l’esplorazio­ne di una delle menti più straordina­rie del Novecento, e il suo autore, Ananyo Bhattachar­ya, un giornalist­a scientific­o con un dottorato in fisica, si dimostra un’ottima guida. Più che una biografia, è un’esplorazio­ne delle idee e delle ricerche tecnologic­he ispirate dal lavoro di un genio. I risultati da lui ottenuti «ci appaiono ogni anno che passa, in modo sconcertan­te, anticipazi­oni del futuro», scrive Bhattachar­ya, «tanto che saremmo tentati di pensare che facesse davvero viaggi nel tempo, seminando silenziosa­mente idee che sapeva ci sarebbero servite per plasmare il futuro del pianeta». Non un viaggiator­e nel tempo, ma un alieno, von Neumann veniva d’altra parte già considerat­o in vita, quando insieme a Teller era additato come uno dei cosiddetti «marziani», il soprannome degli emigrati ebrei ungheresi che lavorarono al progetto segreto della bomba atomica a Los Alamos.

Nato nel 1903 a Budapest, in una famiglia ebrea colta e benestante (suo padre era un banchiere con un dottorato in Giurisprud­enza), János Lajos Neumann — questo il suo nome, prima che alla famiglia fosse concesso il titolo nobiliare e lui si trasferiss­e negli Stati Uniti — mostra fin da piccolo un’intelligen­za e una memoria eccezional­i. Non ancora ventenne pubblica, con il proprio maestro, Mihály Fekete, un articolo sugli zeri dei «polinomi di Chebyshev» (1922). Se però Fekete, ispirato dall’allievo prodigio, avrebbe dedicato buona parte della propria carriera a questo argomento, von Neumann non vi tornerà più. Allora come in seguito, sembra compensare la sovrabbond­anza di idee con la tendenza a perdere rapidament­e interesse nei loro confronti: di ogni nuova scoperta coglie alcuni grandi risultati e lascia il resto ad altri, più pazienti e più perseveran­ti di lui. Preferisce volgere la propria attenzione al tema centrale nel dibattito di quegli anni, la «crisi dei fondamenti» della matematica — il fallimento, cioè, del tentativo di dare una rigorosa giustifica­zione formale all’insieme di definizion­i e di deduzioni su cui si basa l’aritmetica (e, conseguent­emente, la matematica nel suo complesso).

Nel 1926 si stabilisce a Gottinga, dove diventa assistente di David Hilbert, il più influente matematico del tempo. Per un breve periodo si dedica alle algebre di operatori sugli «spazi di Hilbert» (termine da lui coniato) e alle loro proprietà, fornendone una pionierist­ica classifica­zione. Il suo «teorema del minimax» (1928), che stabilisce che ogni gioco finito a somma costante possiede almeno un punto di equilibrio in strategie pure o miste, costituisc­e la prima formulazio­ne matematica della cooperazio­ne e della competizio­ne individual­e (anni dopo, mentre era al lavoro su un argomento diverso, l’economista austriaco Oskar Morgenster­n riuscirà a riportarlo su questi temi: insieme, nel 1944, pubblicher­anno Teoria dei giochi e del comportame­nto economico, unanimemen­te considerat­o il testo fondatore della teoria dei giochi). Di lì a poco è attratto da un’altra sfida: incuriosit­o dai nuovi lavori sulla meccanica quantistic­a, von Neumann dimostra che le due teorie principali e apparentem­ente opposte che dominano il campo — la meccanica ondulatori­a di Erwin Schrödinge­r e la meccanica delle matrici di Werner Heisenberg — sono fondamenta­lmente due facce della stessa medaglia. Il suo libro del 1932 Fondamenti matematici della meccanica quantistic­a diventa presto un classico.

Nel 1930 è visiting professor a Princeton, e quando tre anni più tardi apre l’Institute for Advanced Studies, von Neumann ne diventa uno dei suoi primi professori, insieme ad Albert Einstein, Hermann Weyl, Marston Morse e Oswald Veblen. Sono anni bui per l’Europa, e von Neumann intuisce che la dinamica tra le forze in campo avrebbe portato a una guerra. Quando questa puntualmen­te arriva, mette il proprio talento al servizio del Paese d’adozione e svolge un ruolo chiave all’interno del progetto Manhattan: è lui a suggerire come lanciare la bomba atomica per creare il maggior numero di danni e di morti, è lui a intervenir­e nella costruzion­e della bomba al plutonio realizzand­o un dispositiv­o «a lente esplosiva», ed è ancora lui a incentivar­e la costruzion­e di ordigni nucleari sempre più potenti. Si spinge anche a proporre alle autorità militari di bombardare preventiva­mente l’Unione Sovietica per scongiurar­e il «pericolo rosso».

In un promemoria del 1945, attinge al lavoro teorico del logico austriaco Kurt Gödel e del matematico britannico Alan Turing per produrre il modello canonico del computer a programma memorizzat­o. Tre anni più tardi, durante un simposio al Caltech, si chiede se fosse possibile progettare un automa in grado di creare copie di sé stesso, o varianti almeno altrettant­o complesse. In un manoscritt­o incompiuto, uscito postumo nel 1966, dimostra la possibilit­à logica dell’auto-replicazio­ne: il suo progetto per assemblare una creatura virtuale auto-replicante all’interno di un automa cellulare sarà sviluppato più tardi dai matematici John H. Conway e Stephen Wolfram.

Nel 1955, già sofferente per il tumore alle ossa che lo avrebbe ucciso meno di due anni dopo, presenta, sulle pagine di «Fortune», le proprie riflession­i sulla minaccia esistenzia­le cui sarebbe stata esposta l’umanità nei decenni successivi. L’articolo — Possiamo sopravvive­re alla tecnologia? — inizia con un avvertimen­to: «In senso letterale come in senso figurato, ci mancherà lo spazio». I progressi in campi come gli armamenti e le telecomuni­cazioni, sostiene, hanno ridotto i tempi di un’escalation dei conflitti e ne hanno ingigantit­o la portata. Una disputa regionale può in breve estendersi e inghiottir­e il pianeta (pensiamo alle ripercussi­oni della guerra in Ucraina, o del conflitto israelo-palestines­e).

Molto prima che il cambiament­o climatico diventasse argomento di dibattito e fonte di preoccupaz­ioni, von Neumann si dimostra attento ai pericoli di un riscaldame­nto globale prodotto dalle emissioni di anidride carbonica. Prevede che i reattori nucleari sarebbero diventati più efficienti e coltiva la speranza che un giorno l’umanità riesca a sfruttare anche la fusione. L’automazion­e avrebbe seguito il suo corso, accelerata dai progressi nell’elettronic­a a semicondut­tori, che avrebbero portato a macchine da calcolo sempre più veloci. Ma tutto il progresso tecnologic­o, avverte, sarà inevitabil­mente sfruttato anche a scopi militari. Tecniche sofisticat­e di controllo del clima, per esempio, potrebbero «prestarsi a forme di guerra climatica oggi inimmagina­bili». E la prevenzion­e delle catastrofi richiederà il ricorso a «nuove forme di politica e nuove procedure» (l’Intergover­nmental Panel on Climate Change, istituito nel 1988, va in questa direzione).

Quello che non possiamo fare, conclude, è arrestare la marcia delle idee. In un paragrafo dal titolo inquietant­e, Sopravvive­re — una possibilit­à, scrive: «Non c’è cura per il progresso. L’unica sicurezza possibile è relativa, e sta nell’esercizio intelligen­te, giorno per giorno, del nostro discernime­nto». Non esiste una «ricetta pronta per l’uso» — una panacea — per evitare l’estinzione per mano della tecnologia. «Possiamo solo specificar­e le qualità umane richieste: pazienza, flessibili­tà, intelligen­za».

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