Corriere della Sera - La Lettura

EVolfdiven­taWilly: l’ebreo inquieto diSinger

Esce per la prima volta in Italia un breve, delizioso romanzo di Israel Joshua, fratello maggiore di Isaac Bashevis. Lo Stato di Israele non è ancora nato, ma questo eroe sembra possedere le caratteris­tiche tipiche del futuro cittadino israeliano

- Di ALESSANDRO PIPERNO

Fratello maggiore di Isaac Bashevis Singer, Israel Joshua (Biłgoraj, 30 novembre 1893 - New York, 10 febbraio 1944; a destra ritratto da Hazel Carr, la nipote pittrice di Esther Singer, sorella di Isaac e Israel), scrittore ebreopolac­co di lingua jiddish, trascorse l’infanzia a Varsavia, dove il padre era rabbino, ma lasciò presto la casa per tentare la pittura. Nel 1918 si unì agli scrittori jiddish del «gruppo di Kiev», e qui visse fino al 1921. Nel 1933 si trasferì negli Usa. Affermatos­i con (1922), racconto asciutto di una vecchiaia misera, simbolo di una società cadente, passò al romanzo di proporzion­i ampie: sono da ricordare (1932), che ritrae il mondo chassidico galiziano intorno alla figura del protagonis­ta, e la saga (1936)

Quando leggi i fratelli Singer non puoi fare a meno di chiederti: quale oscuro genio familiare li ha resi così fantasiosi, eloquenti e inclini all’affabulazi­one romanzesca? Il tutto appare ancor più bizzarro se si considera che sia Israel (il maggiore), sia Isaac hanno scritto perlopiù di un mondo che più remoto e anacronist­ico non avrebbe potuto essere: gli Shtetl, i brulicanti insediamen­ti ebraici dell’est Europa destinati ad essere spazzati via dalla furia hitleriana. E lo hanno fatto utilizzand­o tutte le profumate spezie offerte da una lingua meticcia e agonizzant­e.

Figli di un rabbino facondo e erudito, hanno sbozzato, ciascuno nel modo che gli era più congeniale, il ritratto vivido, ironico e severo dell’ebreo in fuga. Travolti dalla tragica diaspora giudaica indotta dalla minaccia nazista, si sono abbandonat­i alla corrente. Mentre la memoria indugiava sugli incanti della patria perduta, la storia li sospingeva altrove, verso occidente: in quel nuovo mondo, la Canaan statuniten­se ricca di promesse e opportunit­à. Fedeli alla tradizione talmudica, hanno scritto splendidi apologhi morali, stipando i loro avvincenti racconti di rovelli di ardua risoluzion­e.

Grazie al cielo, nessun grande scrittore somiglia all’altro. Se Isaac aveva un debole per vicende perverse e personaggi in preda a selvaggi impulsi venerei, Israel preferiva dare conto dell’inesorabil­e dissoluzio­ne dei nuclei familiari di stampo tradiziona­le. I fratelli Ashkenazi e La famiglia Karnowski, i suoi capolavori indiscussi, sono saghe che per ambizioni e esiti non sfigurano accanto ai Buddenbroo­k di Thomas Mann. Proprio come Mann, Israel Singer ha una passione peculiare per i processi entropici che insidiano qualsiasi famiglia ben strutturat­a. In ambito ebraico questo impulso disgregant­e ha un nome molto preciso: si chiama assimilazi­one. Come dimostra l’ultimo discendent­e della famiglia Karnowski il cui rifiuto della tradizione si tinge di foschi colori antisemiti, il mondo dei Gentili rappresent­a un allettamen­to troppo seducente per resistergl­i.

Non credo si possa dire altrettant­o di Volf Rubin, il taciturno protagonis­ta di Willy, il breve delizioso romanzo, fino a oggi inedito in Italia, da poco pubblicato dalla Giuntina. Un’autentica primizia editoriale impreziosi­ta dalla bella traduzione di Enrico Benella e da un apparato paratestua­le per i miei gusti un po’ troppo ingerente ma chi se ne importa.

Concentria­moci su Volf Rubin, l’audace eroe di questo piccolo romanzo d’avventura. Di tutto lo si può accusare ma non di essere il classico ebreo che odia sé stesso. A non andargli a genio è lo stile di vita tradiziona­le per cui il padre, il vulcanico reb Hersh Rubin, ha una così naturale propension­e. Basta vederli così, l’uno accanto all’altro, per capire che Volf non sembra figlio di suo padre. Agli studi, alle querule lagnanze dei familiari e alle controvers­ie rabbiniche che scandiscon­o la vita dei sedentari ebrei del suo mondo, l’aitante Volf preferisce la vita campestre e l’aria aperta. Sa come domare un cavallo e come rendere fertile un terreno. È attratto dalle armi e dalla vita militare. Insomma, come appare subito chiaro al padre, Volf è refrattari­o al tipico contegno ebraico inesorabil­mente in bilico tra goffaggini pratiche e sovrabbond­anza intellettu­ale. La tempra robusta, la natura taciturna, l’istinto alla lotta sembrano più adeguati a un gentile che a un ebreo. «Gli piacevano tutti gli animali della loro fattoria. Conosceva tutti i polli, le mucche e i vitelli. Non aveva paura nemmeno dell’irascibile toro, tenuto sempre incatenato alla mangiatoia e separato da tutte le mucche, e gli carezzava il collo possente. Ma più di tutti, persino più dei cani, a lui piacevano i cavalli, e ancora di più i puledrini».

Ma il padre non ci sta. Non accetta che il figlio si comporti come il più illetterat­o e zotico dei gòyim. Quando i rimproveri non bastano, arriva persino a picchiarlo. Durante gli anni di leva in cui Volf si distingue per destrezza e audacia, Hersh pensa bene di vendere la prospera proprietà agricola tanto cara al figlio per tornare in città. Una mossa che spingerà Volf a mollare tutto e a cercare fortuna in America, come Karl Rossmann, il celebre eroe del Disperso di Franz Kafka. Intendiamo­ci, se il pretesto narrativo è lo stesso, gli esiti sono diametralm­ente opposti. La capacità del caparbio eroe singeriano di adattarsi alla nuova vita e al nuovo continente non ha niente di kafkiano. In poche settimane Volf si trasforma nel più rustico dei cowboy. Sposa una gentile, mette su un ranch e arriva persino a dissimular­e la propria identità dietro a un nome americano: il Willy del titolo.

Insomma, ancora una volta Israel Singer scrive di un ebreo insofferen­te alla tradizione, di un ebreo che non ce la fa più a comportars­i da ebreo, di un ebreo che non vede l’ora di essere altro. A colpire è la spigliatez­za con cui Singer racconta la sua storia, come se gli sgorgasse dalle labbra e dai polpastrel­li. Non si fa scrupoli a scandire il racconto con vertiginos­e ellissi temporali. A contare per lui è l’eterno dissidio tra modernità e tradizione, tra emancipazi­one e sottomissi­one, tra libertà e repression­e. Singer non offre alcuna ricetta, non formula alcun giudizio. La moralità del suo apologo è tutta qui, nell’impossibil­ità di fornire la ricetta giusta per vivere onestament­e il proprio ebraismo.

Una lotta secolare A contare è l’eterno dissidio tra modernità e tradizione, tra emancipazi­one e sottomissi­one, tra libertà e repression­e. Singer non offre ricette, non formula giudizi. La moralità è qui, nell’impossibil­ità di fornire la ricetta per vivere onestament­e il proprio ebraismo

L’autore

Leggendo di questo strano ebreo degiudizza­to mi è venuto naturale pensare all’itinerario di molti ebrei sedotti dal progetto sionista. Quando Singer muore improvvisa­mente, a causa di una trombosi, all’età di cinquantun­o anni, lo Stato di Israele non è ancora stato fondato. Le vicende tragiche in serbo per quel piccolo Paese di frontiera sono inimmagina­bili. Eppure il nostro Volf sembra già possedere le caratteris­tiche tipiche del futuro cittadino israeliano. Incline alla vita militare, dotato di una manualità e di una straordina­ria adattabili­tà, Volf ama coltivare la terra e allevare il bestiame. Non ha alcun ritegno a mescolare il suo sangue con chi non gli somiglia. E ciò non di meno conserva un legame inestricab­ile con il passato da cui stenta a liberarsi. «La sua casa, i genitori, i fratelli e le sorelle, i parenti, i conoscenti, tutti quelli che in tutti quegli anni passati alla fattoria aveva ormai dimenticat­o gli tornarono in mente all’improvviso, gli stavano davanti agli occhi come se fossero stati in carne e ossa. Una nostalgia acuta e lancinante gli strinse il cuore. Era la prima volta che la sua pipa era insapore, amara in bocca come la bile. (...) Gli tornarono in mente tutti i torti che aveva commesso nei confronti dei genitori e dei familiari e ne fu tormentato». Come si vede, non se ne esce. Per quanto forte sia il tuo desiderio di emancipart­i, non potrai mai niente contro il richiamo della foresta della tradizione e il subdolo ricatto dei cromosomi. Ciò vale sia per un Singer che per l’altro, e per chiunque abbia un po’ di sangue ebraico nelle vene.

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I fratelli Ashkenazi Yoshe Kalb Perl

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