Corriere della Sera - La Lettura
Tu, mio buio, piccola caverna
Una grave diagnosi apre in una coppia una spaccatura che Andrea Donaera esplora dal versante maschile
Lingua nitida, trasparente, eppure acida, attraversata da immagini crude che iniettano una consistente dose di energia a un periodare appassionato, per La colpa è mia, il terzo romanzo di Andrea Donaera. I capitoli si snodano con controllata velocità, ciascuno ha una sua calibrata lunghezza; ritmici e variabili i toni, grazie anche a passaggi che simulano i dialoghi presenti nei forum online. La narrazione non frena mai, lascia che lo sviluppo della vicenda proceda per via orizzontale, tutt’al più arricchita da brevi tocchi descrittivi. Tutte scelte decisive per traghettare il lettore dalla prima all’ultima pagina, farlo appassionare alla trama, desideroso di arrivare alla fine. Dunque, nessun arzigogolo barocco, nessuna velleità sperimentale di sorta.
«Di nuovo: non ricordo cosa è successo negli ultimi minuti. C’è un taglio brutale, come tra le scene di certi film montati male. Sto camminando, e Petrus è accanto a me. Alti uguali, lui un po’ zoppicante, le mani nelle tasche davanti del giubbotto sembrano muoversi sotto la cerniera chiusa, come se stessero impastando la pancia. La campana di una qualche chiesa suona. Le vie del centro storico sono buie e luminose allo stesso tempo, a quest’ora. Labirinti di pietra abbacinante»: la vita della giovane coppia composta da Aby e Bruno subisce un terribile cambiamento quando la ragazza scopre di avere un cancro al cervello. I loro felici programmi, in Puglia, vengono repentinamente accantonati.
Aby affronta la malattia con fredda, silenziosa, talvolta brusca accettazione. Ma è soprattutto Bruno a non riuscire ad affrontare la fatalità. I sentimenti per la ragazza sono pieni di sensi di colpa e di sentimenti ancora incendiari. Si sente afflitto da una sottile e lontana inferiorità; da una diversità violenta e insieme malinconica dalla quale non riesce a liberarsi. Si morde letteralmente il palmo della mano, lo fa spesso, ciò l’aiuta a non soffrire durante l’attesa, quella costellata di ricordi dei momenti cruciali dell’amore vissuto.
Senonché, a modificare questa traiettoria di solitudine esistenziale è l’incontro con una sorta di guru degli incel (involuntary celibate, celibi involontari), Petrus, rintracciato sui social, a cui deve fare un’intervista per il giornale dove lavora. Il primo incontro tra i due — carico di criptiche affermazioni sovversive annunciate da Petrus sulla dilagante perversione sociale che infesta il mondo — scatena in Bruno una reazione fisica, quasi di soffocamento, e insieme di oscura elevazione.
Seguirà, forse, i rivoluzionari e pericolosi dettami del guru, fino ad allontanarsi dall’amore per Aby? Si redimerà o cambierà la sua maschera interiore, poi quella esteriore?
Con uno stile da confessione senza filtri — Fame di Knut Hamsun e Bruges la morta di Georges Rodenbach sono i riferimenti letterari — che infuria indefesso attraverso grappoli metaforici atti ad accendere di immagini crudeli il fraseggio, Donaera non rinuncia all’onestà del realismo romanzesco. Non rinuncia neppure alla freddezza, quasi delicata, del monologo spietato al punto di lasciarci, con gradualità, dentro un moderno e interattivo dubbio dostoevskiano sul potere, nel bene e nel male, dell’amore. «Non so che cosa penso, non so dov’è che scivolo, Aby, mia piccola caverna, mio buio: come farò — leggiamo — a mentirti per tutto questo tempo? Sarai una persona morta, morta davvero, succederà forse davanti a me, succederà durante una parte di vita vissuta insieme, non in un domani lontano e remoto e fumoso, morirai non come moriranno tutti, no, sarai morta davvero: tra pochi anni, forse mesi».